Le
prime baracche costruite sulla collina del Mata Gato sono state abbattute dalla
polizia; Negro Massu ha reagito ed è stato picchiato. Su consiglio del saggio
Jesuíno Gallo Pazzo, gli abusivi hanno cominciato a ricostruire tutte le loro
misere casupole. Ma ora l’intera vicenda si fa appetitosa per una lunga serie
di personaggi senza tanti scrupoli.
Il
giornalista Jacó Galub, capo redattore di un giornale dell’opposizione, si
butta a capofitto sulla vicenda, nella speranza di far successo. Il direttore
del giornale, amico del malavitoso che gestisce il gioco del bicho, ha tentato
senza successo la carriera politica, ma ora può incastrare l’odioso Capo della
Polizia. Anche i politici dell’opposizione sfruttano l’invasione per dare
addosso al governo. E intanto la gente della favela diventa sempre più numerosa…
Il martedì seguente, il servizio
dell’anno scoppiava con titoli su otto colonne sulla «Gazeta de Salvador»,
giornale d’opposizione, al momento bisognoso, e con urgenza, di denaro e di
lettori. Sentiva il contraccolpo della sconfitta elettorale. Il direttore del
giornale, Airton Melo, si era candidato a deputato federale, aveva investito
nella campagna elettorale un sacco di soldi, principalmente denaro degli altri,
ma anche le riserve del giornale. Non era stato eletto, era rimasto a piedi in
una disonorevole posizione di quarto vice, e ancora non poteva decentemente
passare alla maggioranza. Guardando le foto scattate al Mata Gato (dove, con un
fotografo, era tornato Jacó il lunedì) e facendo una smorfia di disgusto alla
vista della bocca sdentata di dona Filó aperta verso l’obiettivo in un ampio
sorriso, un grappolo di figli appesi alle braccia e alle anche, Airton Melo, il
probo giornalista, il «guardiano di notte del denaro pubblico» (come durante la
campagna elettorale l’aveva definito il suo stesso giornale) spiegò a Jacó:
«Un po’ di bastonate alla colonia
spagnola non fanno alcun danno. Questi galegos (1) si fanno sempre più avari,
non mollano un centesimo manco morti. Metta un po’ con le spalle al muro questo
mascalzone del Perez, e generalizzi quella storia degli ottocento grammi, così
facendo il giornale non ne calunnierà poi un gran numero. Naturalmente, non
dimentichi di far allusione alle onorevoli eccezioni. Vedrà che ci scuciono
subito qualcosa, e Dio sa se ne abbiamo bisogno. Siamo in un momento duro, sor
Jacó…»
«E il governo?»
Airton de Melo sorrise, si
considerava un uomo politico di alta classe, sottilissimo, erede di tutte le
astuzie dei vecchi bonzi (2) baiani:
«Botte da orbi al governo, caro
mio. Botte da lasciare il segno. Ma,» abbassò la voce in tono confidenziale
«cerchi di risparmiare il Governatore. Per lui, solo un appello alla sua
coscienza di uomo pubblico e al suo buon cuore. Certamente lui è all’oscuro di
ciò che accade, ecc. ecc., conosce la litania. Invece, legnate senza
misericordia al Capo della Polizia. È lui il tipo della campagna contro il
gioco, ha detto che intende farla finita col gioco del bicho. Il giornale,
purtroppo, non si può mettere a difendere il gioco né i bicheiros (3)… Ma con
questa storia dell’invasione della collina, si può dare addosso ad Albuquerque»
il nome del Capo della Polizia era Nestor Albuquerque «e magari riusciremo a
farlo cadere. E avremo un bel finanziamento per la campagna elettorale… La
gente del bicho…»
Accese un sigaro, ne espirò il
fumo. Guardò Jacó con affetto:
«Se la cosa riesce, mio caro, non
mi dimenticherò di lei. Sa bene che non sono un ingrato…»
Si sentiva generoso,
intravvedendo la possibilità di una bella mazzetta. Il suo tenore di vita era
dispendioso: due famiglie, la civile e la militare, quella emulazione fra sua
moglie, Rita, e la sua amante, Rosa, per vedere chi spendeva di più. La coppia
RR, i ratti roditori, come diceva lui stesso con un certo cinismo, gli
rosicchiavano le finanze.
Jacó Galub considerò il suo
direttore, sparpagliato nella poltrona. A modo suo un grand’uomo. Ma se lui,
Galub, si fosse lasciato incantare dalle sue promesse e avesse contato sulla
sua generosità, sarebbe morto di fame. Ora morir di fame non era nei piani di
Galub. Era un uomo ambizioso, le sue giocate le faceva per proprio conto, e se
non protestava per il salario di miseria che gli passava Airton Melo, era
perché si serviva delle colonne del giornale per i propri scavi personali. Era
attivo e intelligente, buon giornalista, sprovvisto di ogni scrupolo e di ogni
forma di sentimentalismo. Freddo benché apparentemente passionale, aveva come
unico desiderio quello di farsi un nome, andare a Rio, aver successo nella
stampa importante, guadagnar molto denaro, ottenere uno di quei posti favolosi…
Ce l’avrebbe fatta, ne era certo. Anche lui sorrise al «probo giornalista»:
«Stia tranquillo, avremo una
campagna spettacolosa. Il prestigio del giornale crescerà a dismisura. Anche le
copie vendute. Intendo mettermi a capo dell’invasione.»
«Servizi commoventi, mi
raccomando, cuore; strappi lacrime a tutti con la storia di quella povera gente
che non ha un buco dove abitare… Cuore!»
«Lasci fare a me…»
Appena uscito il corrispondente,
Airton Melo prese il telefono, attese con impazienza il segnale per fare il
numero. Quando finalmente ebbe la linea, compose un numero, avuta risposta
chiese:
«Otávio c’è? Sono il dottor
Airton Melo…»
E quando Otávio Lima, signore del
gioco del bicho della capitale e città circonvicine prese la comunicazione lo
informò:
«Sei tu, Otávio? Dobbiamo
incontrarci, mio caro. Ho finalmente in mano gli assi per buttar giù
Albuquerque…»
Una pausa d’ascolto:
«Stavolta ce li ho davvero… Una
campagna sensazionale. Ti spiegherò personalmente…»
Sorrise alla proposta dell’altro:
«Nel tuo ufficio? Sei matto? Se
mi vedono lì da te, diranno subito che stai comprando il mio giornale… No, a
casa mia…»
Altra pausa, il re del bicho
domandava qualcosa.
«Quale delle due?» il giornalista
ripeté la domanda, riflettendo. «In casa di Rosa, staremo più a nostro agio…»
Così, in quel martedì in cui un
servizio con titoloni in prima pagina occupava tutta l’ottava pagina del
giornale – vi brillava, senza denti ma con numerosissimi figli, dona Filó, le
cui dichiarazioni al corrispondente erano da spezzare il cuore – tutto
materiale a firma di Jacó Galub, la «Gazeta de Salvador» dava inizio a una
campagna «in difesa della gente povera, senza casa, spinta dal bisogno a
occupare terreni abbandonati», campagna che fece epoca nella stampa baiana.
In quella prima settimana, Jacó
si fece in quattro. Passò buona parte del suo tempo al Mata Gato, ascoltando le
dichiarazioni di alcuni, incoraggiando altri, asserendo che, con l’appoggio della
«Gazeta de Salvador», potevano costruire tutto quel che volevano, erano
protetti. E in effetti i servizi furono un vero e proprio segnale di richiamo.
Se la prima invasione della collina era stata un’azione concertata fra amici,
attuata da Massu, Jesus, Curió, Bei Capelli, tutti conoscenti, compari,
parenti, compagni di cachaça e chiacchiere, dopo i falò della polizia e
l’inizio dei servizi della «Gazeta» cominciò ad apparire gente da tutte le
parti, gente che trasportava tavole di legno, cassette, tutto quanto si può
usare come materiale da costruzione. E dieci giorni dopo le case erano più di
cinquanta, e il numero tendeva ad aumentare.
I servizi di Jacó obbedivano
fedelmente alle istruzioni di Airton Melo: dare addosso al governo, al Capo
della Polizia violento e incapace, al soldo dei magnati della colonia spagnola.
Nel primo servizio, Jacó riferiva le informazioni ricevute da Jesuíno e dagli
altri abitanti, come tutta la faccenda aveva avuto inizio: gente senza tetto
che si dirigeva a quei terreni abbandonati per ivi costruirsi una casupola.
Poi, la denuncia di Pepe Ottocento – il milionario José Perez anni addietro
noto col pittoresco soprannome di Pepe Ottocento Grammi – e l’azione violenta
comandata dallo Chico Pinóia, l’abituale torturatore di arrestati, per ordine
diretto di Albuquerque, «il tenebroso Capo della Polizia, l’intollerante
dottorino, di scarse lettere e molta presunzione». La ripassata subita da Massu
era descritta nei particolari: il negro che difendeva la sua casetta, la vita
di sua nonna e quella del suo bimbo in tenera età, i poliziotti lo avevano
immobilizzato per poter dar fuoco alla sua casa. In effetti le cose erano
andate proprio così, solo che Jacó aveva fatto Massu vittima delle botte della
polizia anzitempo, facendo sparire completamente l’aggressione del negro. A
Massu la faccenda non andò a genio. Nel servizio ci faceva la figura di un
povero diavolo che le busca dalla polizia senza reagire. Gli ci volle del bello
e del buono, a Jacó, per spiegargli le sue ragioni e placare il risentimento
del negro.
Attaccando il governo, e
soprattutto il Capo della Polizia, il giornalista non fece carico di niente al
Governatore. Anzi, lasciò andare qualche allusione al suo buon cuore, cui
faceva appello. Al suo patriottismo, anche. Era tempo che il governo si
ricordasse che ci si trovava in un paese libero, scriveva Jacó, e non in una
«colonia spagnola». C’era una fiorente colonia spagnola a Bahia, composta per
lo più di brava gente, onesta e lavoratrice, cui molto doveva lo Stato per il suo
progresso, ma nel seno della quale esistevano anche alcuni mascalzoni
patentati, le cui fortune riposavano su illeciti guadagni, come la «Gazeta de
Salvador» si proponeva di provare in una serie di servizi. Ma c’era una certa
differenza fra l’avere a Bahia una colonia spagnola, e divenire una «colonia
della colonia spagnola». Eppure, il signor Capo della Polizia, dottor
Albuquerque, il re degli animali, così soprannominato per le sue lunghe
persecuzioni contro i bicheiros (con che secondo fine?), si precipitava di
corsa a obbedire a una richiesta di Pepe Ottocento Grammi, espellendo da terre
rese al demanio, abbandonate, inutili, dei cittadini brasiliani, onorati e
lavoratori, il cui solo crimine era la povertà. Per il Capo della Polizia non
poteva esistere crimine peggiore, affermava Jacó, il personaggio era una
creatura dei ben dotati di beni di fortuna, e principalmente dei galegos, gente
che passava il tempo a fregare sul peso.
Da tempo non si era visto sulla
stampa baiana un servizio così sensazionale e virulento, che toccava gente così
importante. L’edizione del giornale si esaurì, il giorno seguente fu aumentata
la tiratura.
Alcuni degli abitanti le cui foto
erano state stampate sul giornale avevano rilasciato dichiarazioni,
rimaneggiate da Jacó; Dagmar la bella era stata fotografata in una posa da
attrice del cinema, in costume da bagno, il che le valse un certo numero di
sberle applicate da Bei Capelli. La sua donna non doveva andare a mostrare
cosce e seno dalle pagine dei giornali. Battuta, Dagmar aveva accusato il
fotografo di frode, aveva fatto le foto senza che lei se ne accorgesse;
affermazione discutibile, per non dire sfacciata menzogna. Ma queste son
faccende di famiglia, non ci ficcheremo il naso. Solo constatiamo, per
migliorare la nostra conoscenza delle donne in particolare e della vita in
generale, che dopo gli schiaffi Dagmar si era fatta, non solo più discreta, ma
anche assai più affettuosa.
Stella di prima grandezza brillò
Dona Filó. Scarna e spettinata, col suo abituccio nero stracciato, un figlio
per anca, uno per seno, gli altri stretti intorno, era l’immagine stessa della
miseria. Perfino riviste di Rio, col correre degli eventi, avevano comprato le
sue foto per pubblicarle. Le avevano comprate al fotografo, naturalmente. Dona
Filó non vide un centesimo dei diritti. Ma in compenso fu orgogliosissima di
vedere la sua foto sui giornali. Cominciò a chiedere di più per affittare i
bambini: ormai avevano un nome e un ruolo. Jacó le aveva attribuito la frase di
Jesuíno: «Loro buttano giù e noi si ricostruisce un’altra volta». Ma col passar
del tempo la frase cominciò a essere creduta dello stesso Galub, visto che più
volte il giornalista l’aveva ripetuta nei suoi servizi, come affermazione e
minaccia, senza ricordarne l’autore, convinto lui stesso, alla fine, di essere
il padre della frase celebre. Paternità leggermente disputata dal Deputato
Ramos da Cunha, capo dell’opposizione all’Assemblea Costituente, focoso
tribuno. In uno dei suoi discorsi, l’uomo politico infilò una perorazione drammatica:
«Può la prepotenza del signor
Capo della Polizia, può l’arroganza del milionario Perez, può l’indifferenza
del governo, possono le autorità e i loro accoliti, incendiare la case della
povera gente. Noi, popolo, le ricostruiremo. Sulle ceneri dell’incendio
criminale, noi, il popolo, rifaremo le nostre case. Dieci, venti, mille volte
se necessario.»
Era un leader dalla figura
carismatica, avvocato, figlio di un colonnello dell’interno. Erede d’immensi
latifondi, non possedeva tuttavia terreni nella capitale, gl’interessava dare
addosso al governo. Si era laureato di recente, il padre lo aveva fatto
eleggere deputato. Purché non si trattasse di riforma agraria, il giovane
leader Ramos da Cunha dal verbo facile e sonante, era perfino piuttosto
progressista, e con frequenza tale aggettivo era usato dalla stampa come
qualificativo parlando di lui. A seguito della campagna in relazione
all’invasione della collina del Mata Gato, giunse ad essere accusato di idee
comuniste. Pur trattandosi di sospetti senza fondamento, voci calunniose messe
in giro da nemici politici, gli davano una certa qual aura popolare.
Tornando a dona Filó, fu forse
lei la maggior beneficiaria dei servizi di Jacó Galub. Moralmente parlando.
Veniva presentata come una madre amorosissima, che si ammazzava di lavoro per
sostentare i sette figli. Vaghe allusioni a un padre sparito le davano la
necessaria copertura morale, trasformandola in una moglie abbandonata, vittima
della società e del marito. Lungi da noi l’intenzione di negare le virtù di
dona Filó: molto meritevole senza dubbio, donna lavoratrice come poche se ne
incontrano. Ma quella storia di farla apparire vittima di un marito imbroglione
non è proprio secondo giustizia. Mai essa ebbe un marito, né volle legare un
uomo alle sue sorti. Un uomo, era opinione sua, solo serviva nel momento di
fabbricar bambini. Dopo, non dava che lavoro e complicazioni.
Della gente della collina, Galub
non riuscì ad avere la foto solo di Jesuíno Gallo Pazzo. Lo vedeva gironzolare
nei paraggi, avvertiva che era lui a orientare gli altri, il consigliere cui si
rivolgevano nei momenti difficili; ma quando compariva il fotografo, il
diffidente vagabondo spariva…
Gallo Pazzo non era meno vanitoso
o più modesto degli altri, diverso da loro. Era solo un vecchio saggio, aveva
maggior esperienza, non ne voleva sapere di foto sui giornali. Una volta, in
tempi andati, era apparsa una sua fotografia: sdraiato al sole sulla rampa del
Mercato, una cicca di sigaro in bocca, un sorriso felice, come illustrazione di
un servizio pieno di tenerezza e di poesia di un chiacchierato Odorico Tavares.
Ebbene: per mesi e mesi la polizia aveva perseguitato Jesuíno, con ogni
pretesto lo sbattevano dentro. I pula avevano in tasca il ritaglio del giornale
con la foto di Jesuíno. Non serviva a nulla che il poeta Odorico lo definisse
«l’ultimo uomo libero della città», la sua libertà era la gattabuia. Di foto
sul giornale gli bastava quella.
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(1) Galegos = galiziani, che non
sono spagnoli, bensì portoghesi.
(2) Un bonzo è letteralmente un
prete buddista; il termine è portoghese, a sua volta derivato dal giapponese. Qui
si può intendere nel significato traslato di personaggio importante, o che si
crede tale.
(3) Bicheiros = i mafiosi che
gestiscono il gioco del bicho (un gioco d’azzardo illegale).
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