Per
alcuni capitoli la storia prosegue concentrandosi su politici corrotti e
conniventi di mafiosi, giornalisti pennivendoli al servizio del governo o
dell’opposizione, poliziotti violenti, giudici preoccupati di danneggiare gli
interessi dei potenti. Insomma, pare di essere in Italia ai giorni nostri, non
nel Brasile raccontato da Amado (a proposito: nel romanzo “I guardiani della
notte” non c’è alcuna indicazione temporale per ambientare la vicenda in un
tempo ben preciso; non credo di sbagliare immaginandola negli anni
Quaranta-Cinquanta del XX secolo).
Ma,
in questo capitolo (il tredicesimo della terza parte), l’autore si ricorda dei
veri protagonisti del suo racconto e, intrecciando le loro vicende con salti
temporali che anticipano il seguito, o riprendono i primi capitoli del romanzo,
ne descrive le caratteristiche umane più profonde, senza giudizi né moralismi,
ma con la partecipazione che Amado ha sempre dimostrato nei confronti dei
derelitti.
E la gente della collina del Mata
Gato, i celebri invasori, che diavolo stavano facendo, come agivano e reagivano
di fronte a tutto quel rumore e quel movimento, loro, il centro di tutto? Non
li abbiamo per caso dimenticati, dando eccessiva importanza a commendatori,
deputati, giornalisti, uomini in vista in politica e in economia? Trascinati
insensibilmente dalla vanità a mischiarci con questa gente nota, i cui nomi
figurano sulle colonne delle cronache sociali? In fin dei conti, quali i
personaggi le cui gesta dobbiamo narrare? Non sono essi forse gl’invasori dei
terreni del commendatore, Negro Massu e Bei Capelli, Dona Filó e Dagmar, Miro e
il vecchio Jesuíno Gallo Pazzo, tutti gli altri, i veri eroi della storia?
Perché lasciarli nel dimenticatoio, tante parole spese per il Deputato Ramos da
Cunha, per il Consigliere Lício Santos, per tanti altri papaveri della politica
o del giornalismo da scavo, e questo silenzio prolungato a proposito della
gente della collina? Volete sapere la verità?
Non ne stiamo parlando perché non
abbiamo da raccontare avvenimenti o casi di qualche interesse. La gente della
collina, in tutta questa storia dell’invasione, è stata la meno pronta a parlare
e commentare. Se ne stavano, nelle loro baracche e vivevano. Vivevano, ecco la verità. Senza ambizioni,
senza agitarsi, senza atti inconsulti, vivevano e basta. In mezzo a tutto quel
fracasso – caccia, non-caccia, rade al suolo-non rade al suolo – con tanta
gente che si agitava attorno, insultati o elogiati – da banditi della peggior
specie, sovversivi a gente degna di ogni rispetto, brava gente della collina,
umile e sfruttata a seconda del tipo di giornale o di giornalista, continuavano
ad attuare la più grande delle imprese: vivevano, quando tutto congiurava per
render loro la cosa impossibile. Come diceva Jesuíno, i poveri già fanno anche
troppo a vivere, vivere resistendo a tanta miseria, alle difficoltà senza fine,
a quella povertà senza limiti, alle malattie, alla mancanza di ogni assistenza;
vivere quando non esistono condizioni che per morire. E tuttavia vivevano. Era
gente ostinata, non si lasciavano liquidare facilmente. La loro capacità di
resistenza alla miseria, alla fame, alle malattie, veniva di lontano, era nata
sulle navi negriere, si era affermata nel periodo della schiavitù. Avevano il
corpo incallito, erano duri a cadere.
E non contenti di vivere, per di
più vivevano in allegria. Quanto più difficili le cose, tanto più loro
ridevano, e il suono delle chitarre e delle armoniche, musica e parole delle
canzoni, nascevano e si levavano sulla collina del Mata Gato e sulla Estrada da
Liberdade, al Retiro, in tutti i quartieri poveri di Bahia. Affrontavano la
miseria con allegria, ridevano forte di fronte alla povertà, tiravano avanti. I
bambini, quando non morivano nella prima infanzia tornando angioletti in cielo,
scelti da Dio e dalla verminosi (1), dalla fame, dalle privazioni, si educavano
a quella dura e gaia scuola della vita, ereditavano dai genitori la resistenza
e la capacità di ridere e di sopravvivere. Non si arrendevano, non si
lasciavano piegare dal destino, umiliati e vinti. Resistevano a tutto,
affrontavano la vita, e non la vivevano nuda e fredda. Si rivestivano di risa e
di musiche, di calore umano, di gentilezza, di quella civiltà del popolo
baiano.
Così è la piccola gente
ordinaria, dura da rodere, così siamo noi, il popolo, allegri e ostinati.
Quelli che stanno in alto, sì, che sono dei rammolliti, sempre fra farmacie e
barbiturici, rosi dalle angosce e dalla psicanalisi, pieni di complessi, da
Edipo a Elettra (2), vogliosi di dormire con la madre o fornicare col padre,
trovando carino essere un finocchio e altre bischerate del genere.
La gente della collina, tuttavia,
tutto quel fracasso non le faceva perdere il sonno, non le impediva di
continuare a vivere. Quando la polizia era arrivata, la prima volta e aveva
dato fuoco alle baracche già costruite, alcuni avevano pensato di andarsene, di
cercarsi un altro posto per abitarci. Ma Jesuíno Gallo Pazzo, uomo rispettato
per il suo sapere e per i capelli bianchi, un obá (3), aveva detto: «Noi si
fabbrica le baracche un’altra volta», e così avevano fatto. Era proprio del
loro modo di essere, resistere e vivere. Avevano seguito il consiglio e
lasciato a Jesuíno le grandi decisioni. Il vecchio era in gamba, meritava
fiducia.
Altra gente era venuta, altre
baracche erano state costruite. La polizia era tornata, Jesuíno e i monelli
avevano scavato trincee da gioco, smosso la terra dei sentieri, accumulato
pietre, fatto rotolare massi. La polizia se l’era data a gambe, uno spasso,
avevano riso e fatto festa.
Poi tutti avevano finito per
intromettersi nella faccenda, una discussione di tutti i diavoli, i pula (4) a
rincorrer gente, innocenti cacciati in prigione e bastonati, i giornali che
reclamavano disegni di legge, azioni in tribunale, l’inferno. E loro che
vivevano. Se la polizia avesse tentato di tornare, avrebbero resistito. Jesuíno
era nuovamente alla testa dei ragazzini, stavano aprendo un sentiero segreto
nella palude, si preparavano ad affrontare i pula ancora una volta. I pula e i
giudici del tribunale.
Avevano costruito le loro
baracche, erano ostinati, ci restavano malgrado tutte le minacce. Tiravano
avanti a vivere. Ammazzare non s’ammazzava nessuno, a parte la negra Genoveva
che si era inzuppata il vestito di cherosene e si era data fuoco, ma c’è una
spiegazione: era stata la passione: il mulatto Ciriaco, suonator di chitarrino,
l’aveva abbandonata per un’altra. L’importante era tirare avanti, non lasciarsi
abbattere, non abbandonarsi a tristezze. Ridevano e cantavano, in una delle
baracche già funzionava una sala da ballo, la Gafieira Invasão, con danze
animate il sabato e la domenica; di pomeriggio lottavano a «capoeira» (5),
salutavano i loro orixá (6) nei giorni di festa, adempivano ai loro obblighi
verso il loro santo. Vivevano e amavano. Bei Capelli prometteva di tagliar la
gola a un certo Lício che posava a attore del cinema, se avesse avuto l’ardire
di tornare a strizzar l’occhio alla bella Dagmar.
Anche quel Jacinto, un tipo
pretenzioso di cui già abbiamo avuto occasione di parlare – ve ne ricordate? –
era venuto a costruire la sua casina al Mata Gato e ci si era stabilito con
Maria José, una rossa scarmigliata. Ne venne fuori subito un alterco, perché la
tizia, con la storia di aiutare la vecchia Veveva a curare il bambino, finì per
servire da materasso a Massu. Il negro aveva il suo spazio vitale limitato alla
superficie della collina: i pula laggiù a valle lo aspettavano con impazienza.
Senza potersi muovere a suo piacimento, né visitare gli amici alle mescite e
nelle botteghe, andare alla banchina a far quattro chiacchiere, Massu pareva
una belva in gabbia. Fu ben per questo che Maria José gli fu di grande
consolazione. Nota discordante in mezzo a tanta cordialità, quell’antipatico di
Jacinto. Anziché sentirsi inorgoglire per il fatto che la sua amica avesse
tanto successo, capace di spargere il balsamo della gioia nel cuore di Massu,
uomo importante, compare di Ogun (7), si fece prendere i nervi, ingollò un
certo numero di dosi di cachaça (8), si armò di coltello, e venne a chiedere
soddisfazione. Negro Massu, ancorché confortato da Maria José, purtuttavia non
era tipo da scherzarci, il suo umore non gli permetteva di sopportare che
qualcuno gli venisse a gridare addosso. In fin dei conti, quel Jacinto si
rivelava un grossolano, prima aveva maltrattato la rossa, e ora veniva a gridare
appellativi davanti alla baracca del negro scandalizzando il vicinato. Massu lo
strascicò fino al sentiero più largo, la strada più comoda per scendere dalla
collina, lo spinse giù a pedate consigliandolo a non tornare, lasciando la
baracca alla ex-consorte, come parte nella divisione dei beni. A Jacinto
restavano le corna, di dimensioni rispettabili.
Tornò, tuttavia, qualche giorno
dopo, in cerca di Otália. Per Otália nutriva il tale Jacinto una passione
antica, fin dall’arrivo della ragazza a Bahia. L’aveva conosciuta la sera
stessa, quando Garofano-all’Occhiello le aveva fatto lo scherzo di nasconderle
il bagaglio. Mai era riuscito a infilarsi nel suo letto, non ce n’era stata
occasione, pensava lui. Aveva accompagnato di lontano gli sviluppi delle lunghe
passeggiate di lei con Martim, in quell’amore tanto commentato sulle banchine e
nelle sale da ballo popolari. Per Jacinto, tipo poco incline a immaginazione e
poesia, quella storia di idillio romantico, amoreggiare platonico, era cosa
ridevole. Non l’avrebbe certo bevuta, lui: conosceva bene Caporal Martim, e nel
suo intimo tutto ciò che desiderava era imitarlo, somigliare a lui, agire come
agiva lui con le donne: superiore, dall’alto, lasciandosi amare, non dando loro
molta corda. A quella storiella, ripetuta da questo e quello, del caporale che
moriva d’amore, a passeggiare con le dita intrecciate senza ottenere nulla,
Jacinto non dava credito per un ventino. Considerò Otália persa per sempre, a
meno che Martim non si stufasse e sparisse di circolazione.
E fu questo che accadde
inaspettatamente. Non per essersi stufato, ma per sfuggire alle persecuzioni
della polizia si era trasferito il caporale, sparito nel nulla, senza lasciare
indirizzo per la corrispondenza. Jacinto almeno non era riuscito ad appurare la
destinazione del viaggiatore, malgrado si fosse messo a tirar su le calze ai
conoscenti. Non aveva intenzione di lanciarsi sulle piste di Otália col
caporale ancora nei paraggi. Martim non era tipo da accettare in silenzio un
socio inatteso. Ma quando Otália, per decisione di Tibéria, era venuta a
occupare la casetta del Mata Gato per rimettersi, Jacinto ricominciò a
circolare per lassù, tutto compito e incravattato…
La casetta costruita da Jesuíno e
Tibéria in cima alla collina del Mata Gato era destinata ad accogliere la
coppia quando la vecchiaia non avesse più permesso loro di lavorare. Frattanto
se ne servivano per riposare, o per mandarci qualcuna delle ragazze quando
abbisognavano di riposo, oppure di nascondersi da qualche tipo impulsivo,
filarino stucchevole o insopportabile pretendente. Almeno era a tale uso che la
riservava Tibéria, benché, dopo la faccenda di Otália, ne avesse preso tale
avversione da desiderare di venderla a qualsiasi prezzo.
Non appena Martim ebbe preso il
largo – era toccato a Jesuíno avvisare amici e conoscenti, Tibéria e Otália,
della forzata sparizione del caporale, aggiungendo che non conosceva la sua
destinazione – Otália aveva cominciato a indebolirsi. Cosa senza rimedio e
senza spiegazione: una debolezza generale nelle gambe e nel corpo tutto, un
languore nello sguardo, voleva solo restare sdraiata, non aveva voglia di
nulla, rifiutava tutti i clienti, perfino quelli più generosi e abituali, come
il sor Agnaldo della Farmacia Miracolosa al Terreito de Jesus, infallibile ogni
mercoledì verso la fine del pomeriggio. Non solo pagava bene, ma le portava
sempre un regalino: una scatola di pastiglie per la tosse, una bottiglia di
sciroppo, una saponetta. Rimandava indietro il sor Agnaldo, il vecchio Militão
dell’ufficio notarile, filantropo danaroso, il dottor Misael Neves, chirurgo
dentista con lo studio sulla Praça da Sé, oltre ai clienti occasionali; non
riceveva nessuno. Non voleva nemmeno uscire dalla sua stanza, andava in sala da
pranzo dopo molte preghiere, assaggiando appena il cibo. Mai più aveva messo
piede fuori casa. Sul letto, con la sua bambola accanto, gli occhi persi sul
soffitto, magra e senza colore in faccia.
Tibéria era preoccupata. Le sue
pensionanti la chiamavano Mammetta, e anche gli amici, e quel soprannome lo
meritava, si occupava delle ragazze come fossero state figlie sue. A nessuna
però si era tanto affezionata come a quella piccola Otália, così bambina per
età e modo di pensare, così prematuramente sbattuta a far la vita.
Perché il vecchio Batista, suo
padre, padrone di un po’ di terra vicino a Bonfim, non era tipo da scherzare, e
quando era venuto a sapere che il figlio del colonnello Barbosa si era fatto i
tre-centesimi (9) della bimba, ancora verdi come araçá (10) agro, era diventato
un demonio: acchiappò un bastone e giù botte alla poverina da mandarla
all’ospedale. Dopo di che la mise fuori di casa, non voleva donnine allegre in
casa. Il posto delle donnine allegre è nelle case allegre, il posto delle donne
perdute è nelle strade di perdizione. Andasse a raggiungere la sorella, già da
due anni meretrice; ma quella non era uscita da casa direttamente per andare a
far la vita, si era sposata, prima, poi il marito l’aveva piantata e lei aveva
dovuto trovare il modo per vivere. Mentre Otália era uscita di casa proprio
cacciata dal vecchio, inferocito nel vedere la figlia di quindici anni, bella
come una madonna, già senza coperchio, senza più utilità che per far la
puttana.
Molti di questi particolari
Caporal Martim venne a saperli solo più tardi, terminato tutto, per bocca di
Tibéria, persona della più gran discrezione, la padrona di casa di tolleranza
migliore che mai si vedesse a Bahia. Non lo diciamo a causa della nostra
amicizia per lei, non lodiamo la sua condotta per essere suoi compari. Chi non conosce
Tibéria e non ammira le sue doti preclare! Nessuno più di lei noto e amato, la
sua casa d’appuntamenti è come una famiglia sola, non ognun per sé e Dio per
tutti, Mammetta non lo permetterebbe mai. Una famiglia unita e Otália la più
piccola di casa, coccolata, piena di capricci.
Martim fu messo al corrente di
com’erano andate le cose: quando il figlio del colonnello Barbosa, studente di
bell’aspetto, si fece la ragazzina, Otália non aveva ancora compiuto quindici
anni, ma già aveva corpo e seno da donna adulta. Donna solo in apparenza, una
bimba internamente, perfino alla pensione voleva giocare con la bambola, avere
amoretti da ragazza vergine, amoreggiare con Martim per dopo fidanzarsi, con
amello e tutto il resto. Così era lei. Cuciva i vestitini per la bambola, le
faceva il letto.
In una strada secondaria, a
Bonfim dove abitava col padre, il vecchio Batista, lo studente la vide e si
fece vedere nei paraggi più d’una volta. Le regalò delle caramelle, poi un
giorno le disse: «Sei già al punto giusto per sposarti, ragazzina. Mi vuoi
sposare?» Lei avrebbe preferito prima il fidanzamento, lo trovava carino. Ma
accettò lo stesso, tutta contenta, chiese solo di sposarsi col velo e la
ghirlandina. Non si era accorta la poverina che il giovane parlava in lingua
dotta e sposarsi, nel suo linguaggio elevato equivaleva a farle fuori i
tre-centesimi in riva al fiume. Otália aspettò un pezzo e aspetta ancora il suo
velo e la sua ghirlandina. Invece di quelli ebbe le bastonate del vecchio e si
trovò in mezzo alla strada. Che altro le restava da fare se non andare a
raggiungere la sorella, di nome Teresa, sfacciata come poche?
Alla pensione, soddisfacendo i
clienti con abilità, ridiventava, nelle ore libere, una bambina, innocente e
priva di malizia, altro non desiderava che amoreggiare col caporale,
passeggiare con lui, la mano nella mano, fino a quando non fosse giunto il
giorno del fidanzamento.
Il caporale era sparito, perché
ricercato dalla polizia, ma anche stufo di quell’amorazzo senza capo né coda,
senza letto; non conosceva i precedenti, quella Otália non aveva tutti i suoi
venerdì, quando mai s’è vista una puttana ad amoreggiare, ad aspettare
l’anello, la benedizione del matrimonio, per andare a letto con un uomo e far
l’amore con lui? Bene, ricercato e stufo, il caporale aveva levato le tende e,
per meglio garantirsi, aveva anche cambiato nome, promovendosi in pari tempo a
sergente. Otália non era mai più stata la stessa, si era lasciata andare in un
letto, di giorno in giorno sempre più debole. Tibéria aveva considerato
consigliabile toglierla dalla pensione, le aveva proposto di andar a passare
qualche giorno sulla collina dove abitavano amici suoi, Negro Massu, Curió, ora
a far vita comune con una veggente ossigenata, per non parlare di Jesuíno,
senza casa sul posto, ma comandante in capo della collina, incaricato di difesa
e attacco, a divertirsi come un matto.
Quel certo Jacinto, non appena
aveva saputo che Otália si trovava sulla collina, si era segnalato per la sua assiduità
lassù, nella speranza di abbagliarla con le sue pretese a bellone. Ma la
ragazza, se lo vide, non ci fece caso, a quel presuntuoso; non vedeva niente, a
parte la sua bambola e il ricordo del caporale, suo innamorato, col quale
doveva fidanzarsi e un giorno sposarsi. Restava in casa, stesa sulla branda,
lontana da tutto, e solo quando il bimbo di Massu veniva da lei a giocare lo
carezzava e gli sorrideva. Già sposarsi le sarebbe bastato, ma se fosse
arrivata anche ad avere un figlio, allora poi sarebbe stata un’esagerazione di
felicità.
Altre cose da raccontare della
gente della collina? Be’, tiravano avanti a vivere, e già non è poco vivere
quando si è poveri e la polizia minaccia di dar fuoco alla nostra baracca.
Vivevano come era loro possibile, senza dar troppa importanza al chiasso di
politici e giornalisti, gente importante, fra loro s’intendono.
Novità vere e proprie alla
collina, forse solo una, degna di nota. Si trattava del fatto seguente: già da
qualche tempo, forse proprio a causa di tante complicanze, la popolazione aveva
smesso di crescere e nuove case non ne erano state costruite. Anche perché il
pozzo scavato dagli abitanti non bastava a fornire neppure il fabbisogno
attuale, né era sufficiente l’elettricità, una lucina da cimitero, buona giusto
per gl’innamorati. Purtuttavia, negli ultimi giorni, in quella nervosa
settimana intercorsa fra le due riunioni del Tribunale, erano comparsi al Mata
Gato muratori e falegnami con le loro cazzuole, i loro fili a piombo, i loro
seghetti, e dài sotto a costruire casette. Alcuni camion dell’Azienda
Municipale scaricavano alle pendici della collina sacchi di cemento, mattoni e
tegole. Due strade intere, con casette aggraziate, identiche le une alle altre,
furono rapidamente tirate su. Intonacate dentro e fuori, con porte e finestre
azzurre, carine. Nessuno sapeva niente dei proprietari, il capomastro, uno
zittone, se aveva la soluzione del mistero non la fornì. Di qualcuno dovevano
pur essere. Guardando i camion Colpo-di-Vento suggerì che forse erano dello stato,
forse per le famiglie degl’impiegati. O per farci un allevamento di mulatte.
Colpo-di-Vento aspettava ancora le sue mulatte, ordinate in Francia tempo
addietro. Cominciava a dubitare che la nave avesse fatto naufragio, oppure gli
avevano fregato le pulzelle cammin facendo. Per un totale di oltre
quattrocento.
Colpo-di-Vento aveva suggerito
l’ipotesi statale per vedere di metter fine alla curiosità di Jesuíno, che
moriva dalla voglia di sapere a chi appartenessero le nuove costruzioni. Il
vecchio briccone, insieme a Miro e ad altri monelli, prendeva i provvedimenti
necessari per affrontare la polizia quando fosse stata pubblicata la sentenza
del tribunale. Guardava con sospetto quelle casette che avevano l’aspetto di
case vere e proprie, scuoteva la testa, ma, per scrupolo di coscienza
continuava nei suoi preparativi per far fronte ad ogni evenienza. «La collina
del Mata Gato si difenderà fino all’ultimo uomo», aveva scritto Jacó Galub, e
aveva attribuito tutta la responsabilità al governo. «È ben tempo che il
Governatore allontani il Capo della Polizia e ascolti le rivendicazioni del
popolo.» Scuoteva la testa Jesuíno, di sotto il suo incredibile cappello. I
bianchi di là sotto, bianchi perché ricchi, non per il colore, erano capaci di
finire per intendersi, e addio al suo divertimento. Erano gente importante, e
la gente importante s’intende sempre, le liti fra loro non prosperano.
Colpo-di-Vento gli dava ragione.
Aveva buscato qualche scarica di botte dalla polizia, gli sarebbe piaciuto
mettere in fuga la pula. Gallo Pazzo aveva trovato, sa Dio dove, uno di quei
copricapo di metallo, simile a un casco da ingegnere, con quello si copriva la
testa, ma i capelli grigi e spettinati sfuggivano da ogni lato. La faccenda lo
privava del desiderato aspetto marziale, lo si sarebbe detto piuttosto un
poeta. La brezza soffiava sulla collina, agitando mollemente le palme da cocco,
gli abitanti tiravano avanti a vivere, ostinati, ridendo, cantando, lavorando,
mangiando, facendo figli. Con le case nuove, il Mata Gato aveva preso veramente
l’aspetto di un quartiere.
«Gente dannata…» osservò
Colpo-di-Vento. «L’altro giorno questo era un pantano, uno spinaio di rovi, ora
è proprio come una città. Accidenti, figli-di-puttana di gente in gamba…»
Jesuíno rise, la sua risata
arrochita dal catarro e dal fumo. Gli era piaciuta, quella storia
dell’invasione. Sapeva di certi terreni più in là della Liberdade, stava
pensando di portarci degli amici a farcisi le case. E Colpo-di-Vento, perché
non veniva anche lui?
«Ci sono mulatte in quei paraggi?
Di quelle vere?»
Ce ne fossero state, lui poteva
andare, per aiutare. Per viverci però, no. Colpo-di-Vento preferiva vivere da
solo, in pace, nel suo angolino.
_____________________________________________________
(1) Verminosi = malattia da
parassiti che colpisce l’intestino.
(2) Il complesso di Edipo (per i
maschi) e di Elettra (per le femmine) sono due concetti psicanalitici, secondo
i quali (in estrema sintesi) un bambino tende a identificarsi con il genitore
dello stesso sesso e a desiderare l’accoppiamento con il genitore del sesso
opposto.
(3) Obá = membro civile del
terreiro, ossia di un luogo in cui vengono praticati i riti cerimoniali della
religione afro-brasiliana.
(4) Pula = poliziotti (la pula =
la polizia). Il termine è ormai desueto, era in vigore negli anni
Sessanta-Settanta del secolo scorso.
(5) Capoeira = arte marziale nata
a Bahia, fatta di musica e di movimenti armonici. Di derivazione africana,
venne mimetizzata in una sorta di balletto, poiché agli schiavi erano
interdetti gli sport marziali.
(6) Orixá = divinità africane
trapiantate in Brasile all’epoca della tratta degli schiavi.
(7) Ogun = è uno degli orixá, per
la precisione divinità del ferro, protettore di fabbri, guerrieri, agricoltori.
Nella seconda parte del romanzo di Amado si racconta ampiamente la storia di
come Negro Massu, dovendo battezzare il figlio, accetta come padrino lo stesso
Ogun, che gli si presenta sotto le sembianze di un vecchio. Per questo ora è
diventato compare di Ogun.
(8) Cachaça = acquavite di canna.
(9) Non ho mai trovato altrove questa
espressione, né alcun dizionario la riporta. Dal contesto si evince che farsi i
tre-centesimi equivale a togliere la verginità a una fanciulla.
(10) Araçá = frutto di un albero (Psidium
cattleianum ) del Brasile e del Venezuela, oggi a rischio di estinzione.
La copertina del romanzo (Garzanti, traduzione di Elena Grechi) da cui
ho tratto questo post e quelli precedenti; bellissimo libro, lo consiglio a
tutti
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