sabato 30 dicembre 2017

152 Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (di Giacomo Leopardi)




Scritto a Recanati tra l’ottobre del ’29 e l’aprile del ’30, questo è l’ultimo dei grandi idilli. Lo spunto venne al poeta dalla lettura di un libro di un viaggiatore russo, il quale raccontava che i pastori Chirghisi passavano la notte seduti su un sasso, guardando la luna e improvvisando canti tristissimi. Ecco allora che Leopardi immagina i pensieri di un pastore, sperduto nell’immensa pianura asiatica, quali possono sorgere in un essere semplice, immune da ogni intellettualismo: a che serve la vita? Qual è lo scopo del nostro affaticarci continuo? Perché mettere al mondo figli, se poi dobbiamo continuamenti consolarli delle pene della vita? A che servono il tempo e l’universo? Io chi sono?

Domande senza risposta per il pastore (ma anche per Leopardi); beati gli animali, che se ne stanno oziosi e non si preoccupano di nulla, non si annoiano. O forse non è così? Forse per chiunque, sia un animale nato in un covile, sia l’uomo nato in una culla, nascere è soltanto una cosa funesta.


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenzïosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozïoso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

 PARAFRASI:

Che fai tu, luna, in cielo? dimmi che fai,
luna silenziosa?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; poi cali.
Ancora non sei tu sazia
di percorrere gli eterni sentieri?
Ancora non provi noia, ancor sei desiderosa
di guardare queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Si leva al primo albore,
muove il gregge giù per la pianura, e vede
greggi, sorgenti ed erbe;
poi stanco si riposa quand’è sera:
non aspetta mai altro.
Dimmi, o luna: a che serve
al pastore la sua vita,
la vostra vita a voi [astri del cielo]? Dimmi: dove tende
questo mio breve vagare,
il tuo corso immortale?

Un vecchierello canuto, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con un pesantissimo carico sulle spalle,
per montagne e per valli,
su sassi acuminati, e profonda sabbia, e sterpeti,
al vento, alla tempesta, sia quando l’ora
avvampa, sia quando poi gela,
corre via, corre, ansima,
varca torrenti e stagni,
cade, si rialza, e si affretta sempre di più,
senza fermarsi mai o riposarsi,
lacero, sanguinante; finché arriva
là dove il cammino
e la tanta fatica erano volti:
un abisso orribile, immenso,
dov’egli, precipitando, tutto dimentica.
Vergine luna, così
è la vita di noi mortali.

L’uomo nasce con fatica
e la nascita è rischio di morte.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e all’inizio stesso [della vita]
la madre e il padre
si danno a consolarlo dell’essere nato.
Poi quando cresce,
l’uno e l’altro lo sostengono, e continuamente
con atti e con parole
si sforzano di fargli coraggio,
e di consolarlo della sua condizione umana:
non c’è altro compito più grato
che i genitori possano fare per i propri figli.
Ma perché mettere al mondo,
perché mantenere in vita
chi poi bisogna consolare di quella?
Se la vita è sventura,
perché sopportiamo di continuare a vivere?
Intatta luna, così
è la condizione di noi mortali.
Ma tu non sei mortale,
e forse di quello che dico t’importa poco.

E tuttavia, solitaria, eterna pellegrina [del cielo],
che sei così pensosa, tu forse capisci
che cosa sia questo vivere terreno,
il nostro patire, il sospirare;
che cosa sia questo morire, quest’estremo
impallidire del volto [del morituro],
e questo svanire dal mondo, questo venir meno
alla compagnia consueta con le persone che amiamo.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il fine
del mattino, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, di sicuro, a quale dolce suo amore
rida la primavera,
a chi giovi il calore estivo, a che serva
l’inverno con i suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille ne scopri,
che sono nascoste al semplice pastore.
Spesso quando io ti osservo
stare così muta sulla pianura deserta,
che confina col cielo nel suo lontano orizzonte;
oppure seguirmi con il mio gregge
vagando a mano a mano;
e quando osservo in cielo le stelle che brillano;
dico fra me pensando:
A che scopo tante stelle?
a che serve l’aria infinita, e quel profondo
infinito sereno? che significa questa
immensa solitudine? e io che cosa sono?
Così ragiono tra me e me: e dell’universo
smisurato e superbo,
e dei suoi innumerevoli abitanti;
e anche di tanto affaccendarsi, di tanti movimenti
di ogni cosa celeste e terrena,
che gira senza posa,
per ritornare là da dove si è mossa;
alcuna utilità, alcun fine
non so immaginare. Ma tu di sicuro,
immortale giovinetta, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che dei giri eterni,
che del mio fragile essere,
forse qualcun altro avrà
un vantaggio o un piacere; per me la vita è male.

O mio gregge che posi, oh te beato,
che non conosci, credo, la tua miseria!
Quanta invidia ti porto!
Non solo perché da ogni affanno
te ne vai quasi libero;
che ogni stento, ogni danno,
ogni timore estremo subito dimentichi;
ma soprattutto perché non provi mai noia.
Quando ti riposi all’ombra, sopra l’erba,
tu sei quieto e contento;
e gran parte dell’anno
trascorri in quello stato senza noia.
Anch’io mi siedo sopra l’erba, all’ombra,
ma un fastidio m’ingombra
la mente, e uno sprone quasi mi punge
così che, sedendo, più che mai son lontano
dal trovar pace e tranquillità.
Eppure non bramo nulla,
e non ho fin qui una causa vera di pianto.
Quello che tu godi e in che misura,
io non lo so dire; ma sei fortunato.
E anch’io godo poco,
o mio gregge, ma non mi lamento solo di questo.
Se tu sapessi parlare, io ti chiederei.
- Dimmi: perché giacendo
a proprio agio, ozioso,
ogni animale trova appagamento;
mentre io, se giaccio in riposo, sono assalito dal tedio? -

Forse se io avessi le ali
per volare sopra le nubi,
e contare le stelle ad una ad una,
o come il tuono errare di vetta in vetta,
sarei più felice, dolce mio gregge,
sarei più felice, candida luna.
O forse il mio pensiero è lontano dal vero,
considerando la sorte di chi è diverso da me:
forse in qualsiasi forma, in qualunque
condizione sia, dentro un covile o una culla,
è cosa funesta a chi nasce il giorno della nascita.








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