Il brano è la continuazione di quello
precedente (11 I latifondisti arrivavano sul posto). Le trattrici, che lavorano i campi dei contadini e che abbattono le
loro misere case, sono guidati da poveracci come i mezzadri, che però non si
preoccupano del danno che fanno, ma pensano solamente al loro tornaconto.
Inutilmente i contadini pensano al danno generale: tra i contadini e i
guidatori delle trattrici non può esserci vero dialogo, perché la distanza (sentimentale
e mentale) è enorme.
E arrivarono le trattrici. Strariparono
dalle strade, invasero i campi, penetrarono dappertutto, strisciando come
dinosauri dotati dell’incredibile forza degli insetti. Trattrici Diesel,
frementi anche da ferme, tonanti in partenza, rombanti in azione. Mostri dal
grifo (1) appuntito che procedevano in linea retta sui loro cingoli entro
nuvole di polvere, grufolando inesorabili, superando palizzate, cortili,
avvallamenti, squarciando la terra, insinuandosi sotto gli atri delle case
coloniche, dissodando le aie, scalando ripe, abbattendo cinte, ignorando ogni
ostacolo.
Sul suo sedile in ferro il conducente non
aveva aspetto umano. Inguantato, occhialuto, mascherati il naso e la bocca
contro la polvere, era parte integrante del mostro, era un fantoccio meccanico.
Lo strepito dei cilindri echeggiava su tutta la contrada, divenne un elemento
come l’aria o la terra, e l’aria e la terra e lo strepito sussultavano all’unisono
sotto le identiche vibrazioni. Il conducente non poteva impedire al mostro di
avanzare e retrocedere in linea retta per la campagna e di travolgere nella sua
marcia dozzine di fattorie. Azionando leve e comandi si sarebbe potuto
deviarlo, ma il conducente non poteva perché un altro mostro, il mostro che
aveva costruito la trattrice, che l’aveva inviato sul posto, s’era immesso
nelle mani, nel cervello, nei muscoli del conducente, lo teneva imbrigliato e
imbavagliato... imbrigliata la mente, imbavagliata la bocca, imbrigliate le sue
facoltà di percezione, soffocata ogni sua voce di protesta. Non poteva vedere
la campagna così com’era, né assaporare l’odore genuino della terra, né
calpestarne le zolle, né sentirne il calore e la forza. Sedeva su uno sgabello
di ferro e premeva pedali di ferro. Non poteva apprezzare né comprimere, o maledire
o incoraggiare il proprio potere nel confronti della terra e di conseguenza era
incapace di provare gioia o tormento, furore o sollievo. Non conosceva la
terra, non era sua, non aveva fede in lei, non la supplicava. Se un granello di
seme non germinava, egli non se ne dava pensiero. Se i teneri sprocchi (2) appassivano nella siccità o affogavano sotto
la pioggia, egli rimaneva indifferente, come la trattrice.
Non amava la terra, non più di quanto l’amasse
la banca; ma non amava nemmeno la trattrice. Si contentava di ammirarne le
superfici lucenti, la potenza, il rombo dei suoi cilindri detonanti. A rimorchio
rotavano i lucidi dischi che vivisezionavano la terra: non più col faticoso
lavoro dell’aratro, ma con la fredda opera d’un chirurgo la terra smossa s’ammucchiava
da un lato mentre il secondo ordine di dischi la incideva e l’ammucchiava dall’altro;
rilucevano le lame taglienti per il costante lustramento della terra. E dietro
ai dischi gli erpici rastrellavano le zolle con denti di ferro. E dietro agli
erpici le lunghe seminatrici - dodici ferrei membri eretti - violentavano la
terra, stuprando meccanicamente, senza passione, sputando il seme. Il
conducente sul suo sgabello di ferro s’inorgogliva dell’impeccabile dirittura
dei solchi che non tracciava lui, della trattrice che non era sua e ch’egli non
amava, della potenza di cui si sapeva schiavo. E s’arrivava alla maturazione e alla
mietitura senza che nessun essere umano avesse sbriciolato con le mani le
tiepide zolle o setacciato la terra tra le dita, senza che nessuno avesse
toccato il seme o ne avesse spiato con ansia la crescita. Gli uomini mangiavano
ciò che essi non avevano coltivato, più nessun vincolo li legava al proprio
cibo. La terra s’apriva sotto il ferro e sotto il ferro gradatamente inaridiva:
nessuno c’era più ad amarla o a odiarla, nessuno più la supplicava o
malediceva.
A mezzodì il conducente fermava la
trattrice talora nei pressi d’una cascina e apriva il pacco della colazione:
sandwich ravvolti in carta oleata, pane bianco, carne in scatola, sottaceti,
formaggini, una fetta di torta marchiata (3) come il pezzo di ricambio d’una
macchina. Mangiava senza gustare il cibo. E i mezzadri che non si decidevano a
far fagotto venivano fuori a guardarlo mentre si levava gli occhiali e la
maschera che lasciavano impronte curiose attorno ai suoi occhi e al naso e alla
bocca. Il tubo di scappamento della trattrice continuava a spetezzare (4), perché
il prezzo della benzina era così basso che risultava più economico lasciare
acceso il motore, anziché spegnerlo e poi doverlo scaldare di nuovo per
riavviarlo. La curiosità sospingeva soprattutto i bambini, coperti di stracci,
col pezzo di polenta in mano. Osservavano con dilatati occhi famelici il
graduale apparire, fuor dalla carta oliata, dalla stagnola e dalle scatole di
latta, dei prelibati cibi che costituivano la refezione (5) del fantoccio
meccanico convertitosi in uomo di carne e d’ossa. Non gli rivolgevano la
parola. Guardavano la sua mano portare il cibo alla bocca. Non lo osservavano
masticare; i loro occhi seguivano la mano che teneva il sandwich. Dopo un poco
il mezzadro s’avvicinava anche lui, e s’accoccolava nell’ombra gettata dalla
trattrice.
“To', sei il figlio di Joe Davis, vero?”
“Sì”, annuiva il conducente.
“E com’è che ti sei messo a fare questo
lavoro, a danno dei tuoi?”
“Tre dollari al giorno. Non ne potevo più,
sgobbare tutto il giorno per un tozzo di pane. Ho moglie e bambini e si deve
pur mangiare. Tre dollari al giorno, e tutti i giorni...”
“Già, ma pei tuoi tre dollari al giorno
quindici o venti famiglie non hanno neppure il pane. Un centinaio di persone
sul lastrico, vagabonde, pei tuoi tre dollari al giorno. Ti pare giusto?”
“Come posso pensare agli altri! Io penso
ai bambini miei. Tre dollari al giorno, tutti i giorni. I tempi cambiano, caro
voi, non ve n’accorgete? La terra non rende più al giorno d’oggi, a meno che se
n’abbia duemila, cinquemila, diecimila acri, e la trattrice. Ai pesci piccoli
come noi non rende più. Non vi dà retta nessuno, oggi, se non siete un
industriale d’automobili o la società telefonica. Eh, oggi è così, non c’è niente
da fare. Provate anche voi a fare tre dollari al giorno, in qualche altro posto.
È l'unica.”
“È proprio buffo”, rifletteva il mezzadro.
“Se uno possiede un pezzettino di terra, egli è tutt’uno con la sua terra, ne è
parte integrante. Se la terra che possiede può girarsela tutta e toccarla e causargli
preoccupazioni se il tempo si mette al brutto e farlo felice quando arriva la
pioggia, pure egli è tutt’uno con la sua terra e insomma si sente un signore
per il fatto che quella terra è sua. E anche se l’annata non è buona, si sente
un signore lo stesso. È così.”
“Ma prendete ora”, proseguiva il mezzadro,
“uno che abbia una proprietà che non vede neanche, o perché non riesce a
trovare il tempo di andare a vederla, o perché non può andarci a risiedere,
ecco che allora quell’uomo è schiavo della sua proprietà. Non può fare né
pensare quello che vorrebbe. La proprietà è il vero padrone, è più forte dell’uomo.
E lui si sente un poveraccio, non un signore. Solo i suoi possedimenti sono
importanti mentre lui ne è solo lo schiavo. Non è vero anche questo?”
Il conducente scartocciava i formaggini,
buttava via la stagnola e continuava a mangiucchiare. “Son cambiati i tempi,
non lo vedete? A ragionar così, i marmocchi restano a pancia vuota. Fatevi i
vostri tre dollari al giorno, e pensate a sfamare i bambini vostri. Quelli
degli altri non vi riguardano. Continuate pure a ragionare così e vedrete che
non li farete mai tre dollari al giorno. Non troverete nessuno che ve li darà,
fintanto che continuerete a preoccuparvi di tutto fuorché di quei tre dollari
al giorno.”
“Un centinaio di creature sul lastrico pei
tuoi tre dollari al giorno. Ma mi dici dove s’ha da andare?”
“Ora che mi viene in mente”, diceva il
conducente, “sbrigatevi a sgombrare, sapete. Oggi stesso comincio a passarvi
sull’aia.”
“Il pozzo me l’hai già distrutto
stamattina.”
“Eh, lo so; dovevo tener la linea retta. E
per la stessa ragione oggi devo passarvi sull’aia. Bisogna andare diritti. Oh,
sentite, visto che conoscete Joe Davis, il mio vecchio, ho l’ordine, se ho da
fare con una famiglia che non vuol sgombrare, ho l’ordine di non aver riguardi
nemmeno per la casa, v’avverto. Son baracche di legno che basta toccarle, con
la trattrice, per mandarle all’aria. Ci danno perfino un premio, in questi
casi: due dollari di supplemento. Dei miei bambini, il più piccolo non ha
ancora mai posseduto un paio di scarpe.”
“La casa? Ma l’ho fabbricata io con le mie
mani. Io l’ho costruita, usando dei vecchi chiodi per fissare le tavole,
legando i travetti alle longherine (6) con del fil di ferro da imballaggio. È
mia. Provati a toccarla... Sto dietro alle finestre col fucile. Fa' tanto di
avvicinarti e t’ammazzo come un cane.”
“Ma non son io, io non posso far niente,
io perdo il posto se non eseguo gli ordini. Del resto, cosa credete di
risolvere ammazzando me? Vi impiccheranno, certo, ma prima ancora d’impiccarvi
ne manderanno un altro qui, con la trattrice, a buttarvi giù la casa. Come
vedete, è inutile ammazzare me.”
“Vedo”, mormorava il mezzadro. “Ma questi
ordini chi te li dà? Vuol dire che andrò a scovare lui. È lui che ammazzo.”
“Non volete proprio capire: anche lui
riceve degli ordini dalla banca. La banca gli dice: Sbatti fuori quella gente o
ci rimetti il posto.”
“Ma ci sarà pure un presidente, una
direzione; io prendo il fucile e vado alla banca a fare una carneficina.”
Diceva il conducente: “Anche la banca, da
quello che so io, riceve ordini, dall’Est. Gli ordini dicono: O ci mostrate
degli utili, o vi mettiamo in liquidazione (7).”
“Da chi si deve andare allora? Ci sarà
pure un responsabile da far fuori. Io non ho nessuna intenzione di crepare di
fame senza ammazzare chi mi assassina.”
“Non so cosa dirvi. Forse non esiste un
responsabile da poter far fuori. Forse non ci sono neppure degli uomini a capo
della faccenda. Probabile che, come dite voi, responsabile di tutto è la proprietà.
Comunque, io v’ho detto i miei ordini.”
“Devo pensarci”, diceva il mezzadro, “tutti
noi dobbiamo pensarci. Ci dev’essere un modo per risolvere questa faccenda! Non
è come il fulmine, come il terremoto; è un sistema che l’ha fatto qualcuno,
degli uomini come me e te, e dunque si può trovare il modo di correggerlo...”
Il conducente faceva rombare il motore e partiva lasciando l’uomo accoccolato
al sole. I cingoli si snodavano e scorrevano, gli erpici raschiavano il terreno
e gli spunzoni della seminatrice slittavano per terra. La trattrice procedeva
per l’aia coi dischi taglienti e la terra dura, battuta, si trasformava in terreno
da semina. Avanti e indietro marciava la trattrice finché l’aia era ridotta a
una striscia di tre metri. Di nuovo indietro e lo sperone di ferro urtava
contro lo spigolo della baracca e la parete crollava e tutta quanta la baracca,
divelta dalle fondamenta, rovinava al suolo, disintegrata. E il conducente
portava gli occhiali e la maschera che gli proteggeva il naso e la bocca. La
trattrice procedeva oltre in linea retta e l’aria e la terra vibravano all’unisono
col suo ruggito. Il mezzadro, col fucile impugnato, la moglie al fianco e i
bambini silenziosi dietro, osservavano immobili l’opera della trattrice.
(1) grifo = muso. Si usa solitamente per
quello del maiale o del cinghiale
(2) sprocchi = rami, germogli
(3) marchiata = con il marchio della casa
produttrice. Ricorda che siamo negli anni in cui negli U.S.A. si diffonde il
consumismo, che ha poi conquistato tutto il mondo più ricco
(4) spetezzare = rumoreggiare come se
facesse dei peti. L’autore usa chiaramente questo verbo con scopo ironico
(5) refezione = pasto
(6) travetti e longherine sono forme
diverse di travi, usate qui per sostenere i soffitti di case di modestissima
costruzione
(7) liquidazione = il termine è qui usato
nel senso di licenziamento
Un
contadino con i suoi figli durante una tempesta di polvere in Oklahoma nel 1936
Famiglia
di immigrati italiani (di cognome Bossi) in Pennsylvania negli anni Trenta
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