L’ultimo episodio che ho scelto per
raccontare la Resistenza in città, dal libro “Senza tregua”.
Negli anni prima della guerra lavorare
alla Caproni (1), in tuta bianca, significava sfuggire all’Etiopia e dal 1937
in poi alla Spagna quando, invece di sbarcare a Massaua gli emigranti scendevano
a terra a Tangeri, prima di ripartire per il fronte iberico. Lavorare alla
Caproni significava sicurezza di un lavoro: idrovolanti, bimotori, aerei da
primato, una produzione moderna, un clima artigianale. La Caproni era simbolo
di prestigio, nonostante un declino che nessuno immaginava imminente.
Lavorare alla Caproni, come in altri stabilimenti
del tempo definiti «di interesse nazionale» permetteva all’operaio di sfuggire
alla incerta sorte dei più. Le maestranze erano il fior fiore della gioventù
operaia italiana. Perfino il regime doveva chiudere un occhio su certe
insofferenze perché aveva bisogno degli operai della Caproni per la sua
produzione. Se molti erano antifascisti, erano tuttavia capaci. Si lasciava
perdere.
Con la guerra i tempi si fanno più duri.
Cadono le bombe.
La disciplina si inasprisce. Il 25 luglio (2)
sembra che il calvario sia bruscamente interrotto. L’8 settembre, mentre i
Savoia scappano a Pescara e i ricchi del Nord in Svizzera, gli operai occupano
la fabbrica; si impadroniscono di duecento mitragliatrici e si preparano a
resistere. Ma Milano capitola e gli operai della Caproni non possono far la
guerra da soli. In fabbrica, lentamente riprende l’attività. Le duecento
mitragliatrici scompaiono in luogo più sicuro. Prima in Via Manzoni, alla sede
del comitato di Liberazione, e poi a Cernobbio dove servono ad armare uno dei
primi reparti partigiani.
Alla Caproni ritorna il colonnello
Cesarini, una specie di gigante, una bestia inferocita, l’immagine della
prepotenza e del terrore. Ostenta la violenza e il cinismo. Assiste agli
arresti; firma personalmente ogni atto di repressione. È insolente, ottuso,
sanguinario. L’uomo che prima della guerra in fabbrica era incaricato della
disciplina aziendale, ora è l’incarnazione della vendetta e della rappresaglia;
l’immagine stessa del fascismo repubblichino (3).
Ordina la schedatura degli antifascisti
che si sono distinti nel periodo badogliano. Molti fanno già parte dell’organizzazione
clandestina che ha già cominciato ad operare in fabbrica. Ha inizio il
confronto senza quartiere tra i repubblichini della brigata nera che presidia
gli stabilimenti e sorveglia gli uomini, li spia e li arresta e gli uomini
dell’organizzazione clandestina che preparano le azioni di sabotaggio, che reclutano
i combattenti per le formazioni di montagna e si sforzano di neutralizzare
delatori e aguzzini.
L’ingegnere Giovanni Cervi, dirigente di “Giustizia
e Libertà” (4) portato a San Vittore, viene fucilato all’Arena, in una mattina
nebbiosa dell’ottobre del ‘43. È la prima vittima del colonnello Cesarini.
L’assassinio alimenta un’atmosfera di
odio; la presenza del gerarca è una provocazione continua sia quando, in
ufficio, interroga gli operai, sia quando passeggia di reparto in reparto,
seguito dai pretoriani. Gli operai proclamano lo sciopero: ben quattromila si
assentano dal lavoro.
Le rappresaglie creano vuoti in ogni
reparto. Se il compagno di lavoro non si fa vedere per un giorno o due non vi è
dubbio che sia in prigione. Dalla prigione molti partiranno per la Germania;
altri moriranno su qualche piazza o a qualche angolo di via, impiccati. Lo si
saprà scorrendo i giornali o leggendo i nomi dei "banditi" fucilati.
Nel frattempo bisogna stare in guardia: attorno al posto dell’assente si aggira
uno sgherro della Muti (5) o una faccia sospetta di spia; bisogna evitare di
chiedere notizie del compagno per non subire la stessa sorte.
Contro i 30 della Muti agli ordini di
Cesarini gli operai resistono ma non cedono. Dopo lo sciopero dell’ottobre,
altri si succedono in novembre e in dicembre: le rivendicazioni aziendali
mascherano i motivi politici. L’organizzazione clandestina comincia anch’essa a
vibrare i suoi colpi. A novembre uno dei trenta repubblichini della Caproni,
uno dei più feroci, mentre passa in via Aselli, viene abbattuto da alcuni colpi
di pistola. È stato uno dei gappisti della Caproni. Ha vendicato l’ingegnere
Cervi e gli operai deportati e imprigionati.
Furore alla Caproni: centinaia di operai
vengono deportati. Molti lasciano la fabbrica, se ne vanno in montagna, coi
partigiani. La 196ª brigata Garibaldi (6) costituita all’interno della Caproni
fa saltare la cabina elettrica, sabota gli aeroplani e costruisce, sotto lo
sguardo dei repubblichini, i micidiali chiodi a tre punte che bloccheranno le
auto nazifasciste.
Arresti, deportazioni e l’allontanamento
dalla fabbrica di molti dirigenti della lotta clandestina, non impediscono la
massiccia partecipazione agli scioperi del marzo 1944. La situazione si
aggrava. Non si tratta più di arresti isolati ma di decimazioni in massa. Il
problema numero uno del movimento clandestino della città è quello di eliminare
Cesarini. L’uomo è riuscito ad imporre il terrore ed è quasi impossibile
mobilitare le energie ancora vive perché la sorveglianza è incessante e la
rappresaglia durissima. La lotta continua, ma in condizioni estremamente ardue.
Cesarini è all’apice della sua potenza. È
voce autorevole della federazione repubblichina, è il "padrone" della
Caproni, dispone come vuole dei suoi uomini, una pattuglia dei quali lo segue
sempre, in fabbrica come a casa, ovunque si sposti. Gli ultimi mesi del 1944 e
i primi del ‘45 sono penosi per tutti. Il freddo entra nelle case prive di
riscaldamento; la fame incombe; i lugubri manifesti delle condanne capitali
tappezzano i muri; i plotoni di esecuzione della Muti, delle SS,
dell'Aeronautica repubblichina si alternano al Campo Giuriati. Basta un
sospetto per cadere nelle mani degli oppressori. Il nemico avverte che l’ora
del tramonto si avvicina. Da ogni finestra può partire un colpo di fucile,
dalla mano di un "gappista" che attende ad un angolo di via può
giungere la morte. La paura aumenta la ferocia. Dai lampioni pendono i corpi
dei patrioti impiccati; i rastrellamenti diventano più spietati; alla Caproni Cesarini
infuria.
Per il solito canale nascosto, mi
avvertono che un compagno del Comando regionale lombardo mi attenderà nel
pomeriggio di domenica in un bar. Il proprietario è un militante insospettato.
Ci troveremo nel suo locale per fumare una sigaretta e giocare una partita a
carte. Tutto normale, ma proprio mentre attendo la domenica apprendo dalle
cronache dei giornali che sono stati arrestati alcuni garibaldini. Non si fanno
nomi. La polizia repubblichina è vigile e prudente. Quale anello della nostra
catena è stato rotto? Tuttavia ho l’impressione che la notizia nasconda
qualcosa di strano. Si accenna ad un attentato criminale sventato dalle forze
di sicurezza della repubblica di Salò; l’operazione si sarebbe conclusa con
alcuni arresti. Non si fa neppure cenno della località e si parla solo
genericamente di Milano città.
Abitualmente, quando notizie di questo
genere vengono pubblicate, si concludono immediatamente con l’annuncio di una o
più esecuzioni capitali. Stavolta non se ne accenna neppure. Sembra una notizia
trabocchetto. La prudenza mi impone di controllare per prima cosa l’invito a
incontrare un compagno del Comando: tutto è regolare. Non è possibile che vi
siano state infiltrazioni spionistiche. Il mio controllo è minuzioso. Risalgo a
ritroso lungo il collegamento che ha permesso ad Alberganti di avvertirmi.
Tutto è regolare; ma alla domenica, prima di entrare nel bar, controllo anche
più accuratamente del solito i dintorni. Almeno in apparenza non c’è ombra di
poliziotti o di repubblichini in borghese.
Dentro, nei due locali, l’atmosfera è
tranquilla. Gente che gioca una partita a biliardo con l’impegno e l’abbandono
dei giorni di pace, chi beve il surrogato di caffè (7) o un bicchiere di vino.
L’odore delle sigarette è pestilenziale. Un tipo anziano, in un angolo, le
confeziona per tutti gli avventori del locale con foglie di platano (8) conservate
chissà come, forse dall’inverno precedente. L’atmosfera è irrespirabile. Vicino
al telefono, davanti a un bicchiere di birra, sta Alberganti, una vecchia
conoscenza del confino di Ventotene (9). Siamo due vecchi del mestiere e non ci
perdiamo in convenevoli. Siamo tutti e due abbastanza preoccupati. Alberganti
perché sa quel che è accaduto e io perché lo ignoro. Gli arresti annunciati dal
giornale non ci sono stati, ma un’azione importante è fallita e, quel che è
peggio, gli esecutori hanno rinunciato al compito dopo aver messo a repentaglio
le loro vite. I repubblichini li avevano individuati con le armi in pugno. Non
ci sono stati arresti perché nessuno si è salvato, conclude Alberganti. «È la
terza volta che il tentativo fallisce».
In parole povere, il quarto tentativo di
togliere dalla circolazione il boia della Caproni tocca a me. Naturalmente il
Comando mi lascia libero di decidere e di accettare e una settimana per
rifletterci. Tanto vale decidere subito ed eliminare il rischio di un altro
incontro. Accetto. Alberganti mi batte la mano sulla spalla e se ne va. Indugio
un po’ e sto per andarmene anche io quando una voce mi richiama perentoriamente
quando sto per varcare la soglia. La mano mi corre alla tasca dove tengo la
pistola; è il cameriere che reclama il conto di Alberganti che non è stato
pagato. Mi vien da ridere. Rivedendolo dopo tanti anni mi ero ricordato solo
del suo straordinario coraggio, non di queste sue piccole avarizie. Lascio una
buona mancia.
Tra le tante azioni fatte questa è una
delle peggiori. Meglio operare da solo. Mando a dire ai miei gappisti che ci
sarà una breve pausa e che ne approfittino per leggere e studiare, come
insegnava Gramsci (10). Chissà se lo faranno! D’altra parte non hanno molte
altre distrazioni, visto che la regola della clandestinità esige che rimangano
tappati in casa, in prigionia volontaria.
Anch’io sono chiuso in casa, davanti allo
schizzo della zona in cui si dovrà concludere l’operazione Cesarini: Viale
Mugello, angolo Corso XXII Marzo, di qua una salumeria, proprio di fronte alla
fermata del tram e, dall’altra parte, un vecchio magazzino. In astratto lo
schema dell’azione è facile; quando decido di verificarne la rispondenza coi
luoghi mi rendo conto che la cosa non sta in piedi; la zona è completamente
allo scoperto, sia Viale Mugello, sia piazza Grandi, formicolante di
poliziotti; sia viale Campania larghissimo e diritto, ideale campo di tiro dei
guardiani di Cesarini.
Trascorro una notte tutt’altro che
tranquilla. La mattina dopo ritorno sul posto. Compro un etto di mortadella e
un po’ di formaggio, poi sorseggio un caffè in un bar all’angolo con viale
Campania. Mi sorprende d’essere più tranquillo. La zona è scopertissima ma il
vecchio magazzeno abbandonato non potrebbe non favorire la fuga. Un’altra
soluzione ancora mi viene suggerita da un operaio dell’acquedotto che sta
scendendo in un tombino. Potrei tentare anch’io di sollevare il chiusino per
cercare nel sottosuolo un’altra via di uscita. Accendo una sigaretta proprio
accanto all’operaio. Mi chiede del fuoco. Getto il fiammifero spento, ne prendo
un altro e con calma, gli accendo la sigaretta. Barattiamo quattro chiacchiere
sul tempo e sul loro lavoro sotterraneo. Alle fine ne so abbastanza per potermi
servire in caso di necessità della buca e orientarmi nel sottosuolo per alcune
centinaia di metri prima di riemergere dal chiusino più discosto.
Il vecchio magazzeno abbandonato resta
tuttavia quello che offre le migliori possibilità di salvezza: ha una porta
secondaria su un’altra strada, grandi finestre facili da scavalcare, un
cancello scorrevole sui cardini. Il magazzeno non ha custodi. Occorrono le
chiavi per entrare, ma a questo provvederà un compagno fabbro.
Mi sveglio di notte. In strada c’è brusio
di voci forse di militari. Scosto le imposte, sono soldati. Il risveglio
riaccende in me preoccupazioni e tensione. Quante ore trascorrono? Dalle
imposte filtra la luce dell’alba. Scatta qualcosa in me. Il volto di Cesarini,
l’immagine della potenza e della viltà che entra in fabbrica e colpisce gli
inermi. […]
Alle sette del mattino, con le chiavi che
tintinnano in tasca, e l’occhio attento sul quadrante dell’orologio, mi faccio
accompagnare da un compagno in bicicletta in viale Mugello. Scendo, passeggio
un po’ davanti alla salumeria, proprio a due passi dalla fermata del tram. Sono
le 7,20 e mi scopro impaziente e tranquillo.
In strada c’è gente. Tra poco gli operai
dovranno entrare al lavoro e i tram transitano sempre più affollati. Alla
fermata attigua si affollano uomini e donne. Da piazza Grandi spunta Cesarini.
L’ho visto poche volte ma so che è lui, il personaggio di sempre, il nemico da
combattere ovunque, in Spagna, in Francia, in Italia, a Milano. Ha fatto
deportare centinaia di operai e di tecnici, quasi tutti ad Auschwitz, ha fatto
imprigionare e fucilare compagni e amici. Ora anche lui sta arrivando all’ultima
fermata assieme ai due militi armati di mitra che lo scortano. Non ho bisogno
di muovermi. È lui stesso che mi viene incontro col passo tracotante, di chi
non vuole nessuno sul suo cammino. Ma sulla sua via ci sono io, il figlio dell’operaio
piemontese fuggito in Francia per non subire la prepotenza dei Cesarini di ieri
e di oggi. Gli sbarro la strada.
Gli spiano in faccia le due rivoltelle e
la sua faccia rivela soltanto stupore. Non avrebbe mai creduto possibile che
qualcuno osasse fermarlo. Gli grido forte, perché gli operai che sono attorno
sentano: «Cesarini, hai finito di deportare i lavoratori della Caproni». Sparo.
Tenta di mettere mano alla fondina ma è già a terra assieme a uno dei suoi
accompagnatori. L’altro cerca di togliersi di spalla il mitra, ma non fa in tempo.
Le mie armi sono scariche. Grido: «Giustizia è fatta, insorgete contro il
fascismo». La gente che, al rumore degli spari, si è gettata a terra, si alza e
applaude. Alcuni gridano: «Hanno ucciso Cesarini, evviva».
È il momento di fuggire. La strada è libera.
Non val la pena di addentrarsi nel vecchio magazzino. Balzo sulla bicicletta e
pedalo rabbiosamente. Un capitano d’aviazione mi si para davanti brandendo una
rivoltella; punto la mia scarica e l’eroe di Salò (11) lascia cadere l’arma e
fugge. Me ne vado senza altri incidenti.
Giustizia è fatta. Gli operai che prendono
il tram diranno in fabbrica, di lì a poco, la grande notizia: il boia della
Caproni, l’assassino di centinaia di operai, è stato giustiziato.
(1) La Caproni fu inizialmente una
fabbrica di aeroplani, che divenne negli anni tra le due guerre mondiali un
fiore all’occhiello dell’Italia e produsse poi anche altro materiale
(automobili, tram e altro). Con l’occupazione nazista dell’Italia passò in mano
ai tedeschi e produsse materiale bellico per il Terzo Reich.
(2) Il 25 luglio 1943 è il giorno della
caduta del regime fascista: Mussolini viene arrestato e sostituito a capo del
governo da Pietro Badoglio. L’8 settembre viene annunciato l’armistizio italiano
e per l’Italia comincia il periodo più duro della Seconda guerra mondiale, con
la nascita della Repubblica di Salò e l’occupazione tedesca di gran parte della
penisola.
(3) Il termine repubblichino si riferisce
a tutto ciò che concerne la Repubblica di Salò, lo Stato che aveva come capo
Mussolini, dopo che era stato liberato dalla prigionia da Hitler, e che dominò
sull’Italia occupata dai nazisti, mentre dal Sud gli Alleati avanzavano
lentamente alla conquista dell’Italia.
(4) “Giustizia e Libertà” fu un movimento
politico antifascista, che diede vita, nel periodo della Resistenza, alle
formazioni partigiane legate al Partito d’Azione.
(5) La Legione autonoma mobile Ettore Muti
fu un famigerato corpo militare repubblichino che aveva compiti di polizia
militare e politica.
(6) Le Brigate Garibaldi furono delle
brigate partigiane organizzate dal Partito Comunista Italiano.
(7) Poiché il caffè scarseggiava (e quel
poco che c’era era carissimo) gli italiani consumavano al suo posto un
surrogato, cioè una bevanda sostitutiva, che solo con molta fantasia poteva
essere scambiata per caffè. Mia nonna, ad esempio, la faceva con gli acini
dell’uva, seccati e tostati.
(8) Anche il tabacco scarseggiava e gli
italiani – come viene qui raccontato – si inventarono surrogati di tutti i
tipi.
(9) Arrestato per la sua attività di
antifascista, Giovanni Pesce aveva trascorso un periodo di confino a Ventotene,
un’isola del Lazio in provincia di Latina.
(10) Antonio Gramsci, tra i fondatori del
Partito Comunista Italiano.
(11) Il termine “eroe” è chiaramente usato
in senso ironico e dispregiativo.
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