Nel suo libro di ricordi “Senza tregua”,
pubblicato nel 1967, Giovanni Pesce racconta una serie di attentati compiuti
personalmente, da solo o con altri partigiani, contro i fascisti della Repubblica
di Salò e contro i tedeschi che, dopo l’8 settembre 1943, occupano l’Italia. Ne
ho scelti alcuni, secondo me significativi della lotta partigiana che si è
combattuta nelle città italiane, in un ambiente molto diverso da quello di montagna,
più conosciuto perché raccontato in numerose altre opere letterarie o
memorialistiche. Questo è il primo; nei prossimi post trovi gli altri episodi.
È sera quando esco. Sono solo. Antonio mi
aspetta altrove.
Corso Vittorio Emanuele (1) è affollato di
operai, di impiegati, di uomini e donne usciti dagli uffici; macchine cariche
di tedeschi e fascisti percorrono il corso nei due sensi. C’è frastuono di
claxon, di campanelli, di tram, di fischi di locomotive in manovra alla vicina
stazione. Fa freddo. Cammino adagio affondando le mani nelle tasche del
cappotto, stringendo il calcio di due pistole. Il tempo trascorre lentissimo.
Sento come un nodo nel petto, un nodo di ansia e anche di paura. Mi costringo a
restare in attesa. So quello che debbo fare: aspetto due ufficiali tedeschi. L’ora
è giunta. Tedeschi e fascisti mi sfiorano continuamente aumentando il mio nervosismo.
Qualcuno mi può notare, chiedermi documenti, perquisirmi. Se tornassi a casa
non farei che obbedire a un ordine (2). Ma la brigata deve attaccare ed io e
Antonio a duecento metri siamo la brigata GAP (3) di Torino. Sto per sparare
contro quattro ufficiali fascisti che mi passano accanto, per sfuggire all’ansia
che mi opprime, per portare a termine una azione qualunque, per poter dire a me
stesso che ho avuto la forza di agire. Ma non sparo: questi quattro non sono i
"miei" due ufficiali tedeschi. I quattro entrano nel caffè di fronte
e io li seguo: li subisco mentre discorrono tronfi e spavaldi con alcune
prostitute. Entrano due ufficiali tedeschi e i quattro balzano in piedi,
"romanamente". (4) Esco e
attendo. Fa più freddo e mi dico che è il freddo a farmi tremare leggermente.
So che non è il freddo. Continuo ad aspettare. Passa un’altra mezz’ora,
interminabile, snervante. D’improvviso: eccoli! È il momento atteso. Vorrei non
fosse mai arrivato. Vorrei essere chissà dove. Invece sono qui a guardare i
miei due tedeschi che vengono avanti baldanzosi, parlando ad alta voce,
vicinissimi. Ho gli occhi fissi sulla croce di ferro (5) che spicca sul petto
di uno di loro: estraggo le pistole e sparo. I due nazisti cadono senza un
grido. Ho esploso dodici colpi.
La gente sotto i portici rimane per un
attimo incerta, si ferma, fugge, si rifugia nei portoni. Una donna grida. Dal
caffè di fronte escono due ufficiali tedeschi con le machine-pistole (6) in
pugno. Faccio l’atto di sparare contro di loro, ma le armi sono scariche. Che
faccio? All’improvviso nella mente mi passa il ricordo della battaglia di
Guadalajara (7) quando, fermo accanto alla mitragliatrice, continuavo a sparare
sullo squadrone di tank fascisti che avanzavano. Allora non ero fuggito. Ora,
indietreggio rapidamente e giro l’angolo di via Gioberti, mi getto a terra,
cambio un caricatore. Il rumore dei passi dei due tedeschi si avvicina! Inseguono
la mia fuga. Ecco il primo: sparo tre colpi e l’ufficiale cade; ecco l’altro: sparo
ancora due colpi e il nazista lascia cadere a terra la pistola e urla e mentre si
piega su se stesso tenta ancora di riprendere l’arma: sparo un colpo ancora. L’ufficiale
scivola di schianto sull’asfalto.
L’ansia che avevo dentro di me si allenta
all’improvviso. In corso Vittorio Emanuele sparano. Li sento avvicinarsi,
cambio ancora una volta il caricatore e corro lungo via Gioberti. Dopo
cinquanta metri mi fermo e al riparo di un portone esplodo tutto il caricatore
contro i fascisti e i tedeschi che s’affacciano sulla strada. Si buttano a
terra, tornano indietro. Riprendo a correre. In fondo a via Gioberti, in via
Manzoni, Antonio mi aspetta con la sua bicicletta. Il giorno dopo sui giornali,
con grossi titoli, c’è il resoconto dell’azione compiuta dai "banditi"
(8) contro alcuni ufficiali delle truppe tedesche alleate; c’è l'ordine del coprifuoco
alle 20. Si promette una taglia di mezzo milione per chi farà arrestare i
"banditi." Per rappresaglia hanno imprigionato 50 ostaggi. Il
giornale me lo porta Barca, raggiante. "Chi saranno stati?" chiede.
"Sono stato io», rispondo. Barca, sorpreso, sbalordito, se ne va in
fretta. Nel pomeriggio si riunirà il Comitato di liberazione piemontese per
discuterne e per fronteggiare le rappresaglie dei nazisti. Approverà o
sconfesserà la mia iniziativa? Saprà che un garibaldino, un gappista, ha
giustiziato gli ufficiali nazisti.
(1) L’episodio avviene a Torino.
(2) Giovanni Pesce aveva preso
l’iniziativa di questa azione, senza consultare il Comando partigiano
piemontese, che gli aveva consigliato di non partecipare ad alcun attentato.
(3) Gap = Gruppi di Azione Patriottica,
ossia gruppi partigiani costituitisi su iniziativa del Partito Comunista
Italiano nel settembre 1943.
(4) Facendo, cioè, il saluto romano, con
il braccio destro teso, che era stato introdotto nell’Italia fascista dal
gerarca Achille Starace, al posto della comune stretta di mano, ritenuta
borghese e poco igienica; dal 1952 il saluto romano è in Italia un reato.
(5) Croce di ferro = era una decorazione
militare tedesca, istituita inizialmente nel regno di Prussia e usata anche
durante la Seconda guerra mondiale nel Terzo Reich
(6) Machine-pistole = è la MP 40, il mitra
in adozione nell’esercito tedesco durante la Seconda guerra mondiale
(7) Giovanni Pesce aveva combattuto nella
battaglia di Guadalajara, nel 1937, durante la guerra civile spagnola
(8) Così venivano generalmente definiti i
partigiani dai nazi-fascisti
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