Nel XV capitolo del romanzo “Furore”, la
famiglia protagonista della vicenda è partita in direzione della California;
come loro, altre famiglie fanno lo stesso percorso, seguendo la strada 66, che
attraversa tutti gli Stati Uniti del Midwest. Lungo la strada sorgono semplici
rifornimenti di benzina e miseri locali dove bere e mangiare qualcosa: i
proprietari sono coppie di sposi che stentano ad arrivare a fine mese e che per
questo giudicano malissimo i ricconi che passano con auto di lusso, mentre la
loro diffidenza per i poveracci è solo apparente.
Da questo insolito, ma sorprendente punto
di vista Steinbeck descrive il viaggio della famiglia Joad verso la mitica
California.
Sulla 66 (1), gli spacci di bibite e
commestibili: AL & SUSY’S – KARL’S LUNCH - JOE & MINNIE WILL’S EATS;
veri baraccamenti in cui alloggiano i proprietari. Due pompe di benzina sul piazzale,
la porta munita di reticella contro le mosche, il banco lungo lungo, con la sua
spranga d’ottone per appoggiarvi i piedi, gli alti sgabelli. Presso l’entrata
le macchinette a gettone sfoggianti sotto vetro l’opulenza (2) in nichelini (3)
che il numero o la figura vincente procurerà ai fortunati. Accanto alle
macchinette il fonografo (4), tra due alte colonne di dischi, pronto a girare
per un nichelino e a suonare ballabili e canzonette:
"Ti-pi-ti-pi-tin", "Thanks for the Memory", Bing Crosby (5),
Benny Goodman (6). A un capo del banco la vetrinetta che contiene i dolciumi,
le pastiglie per la tosse e l’insonnia, sigarette, lamette da barba, i tubetti d'aspirina,
di bromo-seltzer, d’alka-seltzer. I muri tappezzati di cartelloni pubblicitari,
splendide figliole in costume da bagno, seni provocanti, snelle di fianchi e
con facce da bambole. Han tutte in mano la bottiglietta della Coca-Cola e
sorridono come per dire Ecco i mirabili effetti della Coca-Cola. Al centro del
banco i barattoli della mostarda, del sale, del pepe e le salviette di carta.
Dietro il banco i rubinetti della birra e la macchina del caffè, fumante e
luccicante, col recipiente di vetro che mostra il livello del caffè in grani;
ai suoi lati, piramidi d’arance. All’altra estremità del banco la tavola calda:
bollito, arrosto, patate in camicia.
Dietro al banco Minnie, o Susy, o Mae,
sulla trentina, capelli inanellati (7), ciprie e belletti sui visi lucidi di
sudore. Chiedono a bassa voce, voce morbida, le ordinazioni ai clienti e le
trasmettono al cuoco con strilli da pavone. Strofinano il banco con mosse
circolari dell’avambraccio e lucidano la luccicante cromatura della macchina
del caffè. Il cuoco è Joe, o Al, o Carl, accaldato nel suo grembiule bianco,
fronte imperlata di sudore e sormontata dall’inamidato berrettone di
prammatica: flemmatico, taciturno, gli occhi vigili sulla porta all’apparir
d'ogni avventore. Ripete in sordina gli ordini trasmessi da Mae, raschia ed
unge la graticola su cui mette le fette di pane a tostare.
Mae, sia che sorrida o faccia il broncio o
francamente monti sulle furie, rappresenta il collegamento: il collegamento con
la clientela d’ogni tipo; ma ai camionisti sorride sempre, perché sono il
midollo spinale della clientela. Dove si ferma l’autocarro, il grosso dei
clienti accorre. Gente da tener da conto, quei camionisti. Non si possono
mettere di mezzo i camionisti, si sa: sono loro che portano i clienti. Dategli
una volta una tazza di caffè stantio, e non vengono più. Trattateli bene e la
prossima volta ritornano di sicuro. Quindi nel sorriso che serba per loro Mae
mostra tutti i denti.
Civetta un tantino, nel ravviarsi i
capelli alza ben bene i gomiti facendo risaltare il seno, piglia allegramente
il tempo come viene e dispone di un vasto repertorio di trite (8) barzellette.
Al invece non parla mai. Non è tipo da
collegamento. Talora si degna di abbozzare un sorriso, se la storiella è di suo
gusto, ma una vera e propria risata non la fa mai. Talora rizza gli orecchi, se
coglie nella voce di Mae una nota di eccessiva vivacità, ma subito si rimette a
raschiare la graticola o ad appiattire un hamburger con la sua spatoletta di
legno. Prepara i toast, rastrella nel tegame le disperse bucce di cipolla, le
ammucchia sull’hamburger, ve le comprime ben bene con la spatoletta spalmata di
burro e irrora il tutto con qualche goccia di salsa piccante.
Vetture di lusso che saettano sulla 66
senza fermarsi. Osservare le targhe: Mass., Tenn., R.I., N.Y.,
Vt., Ohio (9); tutte dirette a occidente;
belle vetture, vetture di classe, da cento all’ora.
Ecco una Cord, non pare una bara su ruote?
Ma viaggiano come fulmini.
Io preferisco le La Salle.
Ah, grazie, perché non le Cadillac allora?
Più grosse e più veloci.
Io per me trovo che niente batte la
Zephyr. Non costano un patrimonio, ma son vetture di classe e anche veloci.
Vi farà ridere, ma io mi contenterei d’una
Buick-Puick.
Buick-Puick? Costano come le Zephyr e
valgon meno.
Macché, macché Zephyr! Da quando le fa
Ford, non c’è più da fidarsi. Non mi piace e non m’è mai piaciuto. Avevo un
fratello, io, che lavorava alla Ford. Bisogna sentirlo parlare.
Maestose, le berline sulla 66. Matrone
languide, disfatte dal caldo, bambolone di lusso munite di creme unguenti
coloranti in fiale, rosso rosa nero bianco verde argento, con cui alterare la
tinta di capelli occhi labbra unghie palpebre cigli e sopraccigli; provviste di
sali olii pillole destinate a smuovere gli intestini; dotate di tutta una
farmacia di boccette siringhe polveri vaseline atte a rendere inodoro innocuo
improduttivo il loro rapporto sessuale.
Grinze di noia attorno agli occhi, grinze
di malcontento ai lati della bocca, grevi poppe cadenti costrette in amache
redentrici (10), epe (11) e cosce costrette in guaine di caucciù. Fiati corti,
sguardi ostili, sguardi risentiti a causa del sole, del vento, del paesaggio,
del vitto, del tedio, sguardi che odiano il tempo perché raramente le fa parer
belle e sempre le fa parer vecchie.
Con loro, ometti panciuti in panamino (12)
e candide tenute di tela, rosei e puliti, dai mobili occhi preoccupati.
Preoccupati perché le nuove formule in esperimento non danno i risultati
previsti; preoccupati perché hanno sete di tranquillità e ne costatano la
scomparsa dalla terra. Nell’asola del bavero il distintivo della loggia, o del
club: oasi di rifugio in cui si riuniscono per convincersi, confortati dal
numero dei convenuti, che ogni attività affaristica è un titolo di nobiltà, e
non già la ladreria qualificata che effettivamente è; per persuadersi che l’uomo
d’affari è una persona in gamba a dispetto di tutte le statistiche che ne
registrano le stupidità commesse, e che è caritatevole e filantropo nonostante
le massime in contrario della dottrina che professa, e che è capace di godersi
pienamente la vita che invece sa intollerabilmente monotona, e meccanica; per
persuadersi, soprattutto, che sta per spuntare l’alba del giorno in cui non
avrà più paura.
Vedi questa coppia, diretta in California.
Andranno a sedersi sui divani del Beverly-Wilshire Hotel, per veder passare le
personalità che invidiano. Andranno a vedere le montagne, oh maestose!, e gli alberi,
oh secolari!, lui coi suoi occhietti preoccupati e lei pensando al sole che le
secca la pelle.
Andranno a vedere il Pacifico, il Grande
Oceano, e lui dirà, cento contro uno: «To’, è meno grande di quel che credevo»
e lei invidierà i giovani corpi sodi che vedrà abbronzarsi sulla spiaggia.
Vanno in California solo per poi
tornarsene a casa in modo che lei potrà dire: «Al Trocadero la Taldei-Tali era
proprio al tavolo accanto al nostro. È una rovina, poveretta, ma i vestiti li
porta ancora bene.» E lui: «Ho parlato con gente d’affari; persone serie. Dicono
tutti che c’è niente da fare finché non ci liberiamo di quel burattino della
Casa Bianca.» E ancora: «Giuro, me l’ha detto uno che sa, s’è presa la sifilide
(13). Quella che lavora in quel film della Warner. S’è fatta strada nel cinema
andando a letto con tutti. Be’, ha ottenuto quel che voleva.» Ma gli occhietti
preoccupati non trovano serenità, le bocche imbronciate non si distendono.
Imponenti, le berline sulla 66, sfrecciano
a cento all’ora.
Dio, cosa pagherei una bibita in ghiaccio.
Laggiù c'è uno spaccio, vuoi che ci
fermiamo?
Sarà pulito?
Chiedi troppo, in questo sporco paese.
Ci sarà pure una bibita confezionata, no?
La grossa vettura rallenta, si ferma. Il
panciuto ometto dallo sguardo preoccupato scende e porge la mano alla moglie.
Mae li guarda entrare, e i suoi occhi
vanno oltre, osservano la vettura. Al scocca una sola occhiata furtiva e
riabbassa subito gli occhi sulla sua graticola. Mae lo sa già: chiederanno una
bibita da cinque cents e si lagneranno che non è abbastanza fresca. La donna
userà sei salviette e le getterà in terra. L’uomo inghiottirà per traverso e
cercherà di darne la colpa a Mae. La donna annuserà il locale quasi sentisse
odore di carne marcia, e dopo se ne andranno e d’allora in poi non perderanno occasione
per dire in giro che nel West sono tutti straccioni. E Mae, quando è sola con
Al, usa un vocabolo per designare i clienti di questa categoria. Li chiama
stronzi.
Meglio mille volte i camionisti. Ecco qui
un grosso autotreno che arriva; speriamo si fermi, per toglierci dal palato il
gusto di quegli stronzi. Dovevi vedere, Al, quando lavoravo in albergo ad Albuquerque,
dovevi vedere come rubano. Più è grossa la macchina, e più rubano: posate, tovaglioli,
sapone, portacenere. Proprio non riesco a capire.
E Al, burbero: E come credi che le
prendano quelle grosse vetture e tutto il resto? Credi che ci nascano insieme?
Tu non riuscirai mai ad avere niente.
Arriva l’autotreno, con due camionisti.
Che ne dici di fermarci a prendere un
caffè? Conosco il buco.
Come stiamo a chilometri?
Oh, siamo in anticipo.
E allora fermiamoci. C’è una bruna che è
niente male. E anche il caffè è ottimo.
L’autotreno si ferma. Entrano i due,
pantalonacci di tela kaki, stivaloni, giubbotti, berretti militari dalle
visiere lucide.
Come va, Mae?
Guarda chi si vede! Quel farabutto di Big
Bill! Quand’è che siete passato di qui andando in su?
Sarà otto giorni.
Il compagno di Bill introduce una monetina
nel fonografo, osserva il disco nero liberarsi dal sostegno e posarsi sul
piatto di panno verde che si solleva automaticamente per riceverlo. La voce di
Bing Crosby: voce d’oro. E il camionista, per divertire Mae, canticchia anche
lui, parodiando oscenamente le parole della canzone.
Mae ride. Bill, chi è l’amico? Nuovo, eh?
L’altro mette una moneta nella macchinetta
a gettoni vince quattro monete e le rimette dentro. Poi
Bill si dirige al banco.
Be’, che prendete?
Caffè. Di dolci, cos’avete?
Crema banana, crema ananas, crema
cioccolato, torta di mele.
Mele. Momento, quella cos’è?
Mae solleva una torta all’altezza del viso
e l'annusa. Crema banana.
Proviamola; ma una buona porzione.
Due! grida il compagno dalla macchinetta a
gettoni.
Pronti. Qualche nuova battuta, Bill?
Certo. Eccola.
Mi raccomando, c’è una signora.
Oh, è mica sporca. Un ragazzetto arriva a
scuola in ritardo. Il maestro fa: Che t’è successo? E il ragazzo: M’han dato la
mucca da portare al toro. E non poteva farlo tuo babbo? domanda il maestro. Certo,
fa il ragazzo, ma mica così bene come il toro.
Mae si butta via dalle risate senza
neanche cercare di trattenersi. Al, che sta sbucciando scrupolosamente delle
cipolle, si volta, sorride, e riabbassa subito gli occhi sul suo lavoro. I camionisti,
gente in gamba. Capaci di lasciare mezzo dollaro sul banco. Quindici cents per
il dolce, il caffè e il resto di mancia per Mae. E senza neanche cercare di
metterle le mani addosso.
Se ne stanno tranquillamente appollaiati
sugli alti sgabelli sorbendosi il loro caffè e divertendosi a raccontare
storielle. Al ascolta, medita, e non fa commenti. La voce d’oro si tace. Il
piatto verde s’abbassa, il disco scatta al proprio posto nella colonna, la
lampadina rossa si spegne, e la monetina - la monetina che ha messo in moto
tutto questo meccanismo, fatto cantare Bing Crosby e suonare un’intera
orchestra - cade nella cassettina degli incassi.
Il vapore sprizza dalla valvola della
macchina da caffè. Il compressore del frigorifero ronza per qualche istante e
smette. Il ventilatore elettrico nell’angolo ruota lentamente provocando nel
locale una tiepida brezzolina. Sulla 66 le vetture sfrecciano sibilando.
«Pochi giorni fa s’è fermata un’auto con
la targa del Massachusetts», dice Mae.
Big Bill, con la tazza in mano, e il
cucchiaino immerso tenuto tra indice e medio, soffia sul caffè per raffreddarlo.
«Mai visto tante macchine sulla strada.
Vengono da tutte le direzioni, ma van tutte nel West. Si vedono certe
fuoriserie!»
«Che frittata stamattina!», dice il
compagno. «Una Cadillac, grossa come una casa, carrozzeria speciale, bassa,
color panna, una fuoriserie, va a sbattere dritta in un camion. Avrà fatto i
140. Il radiatore s’è sfondato come fosse di cartone. Il volante ha infilzato
il guidatore da parte a parte; sembrava un pollo sullo spiedo. Una macchina
formidabile, una cannonata. Ora la puoi avere per niente. Era solo, al
volante.»
Al solleva gli occhi dalle cipolle. «E il
camion?»
«Cribbio! Manco era un camion, quello. Uno
di quei trabiccoli, rimessi in sesto alla meglio, carico di materassi e stufe e
masserizie e polli e marmocchi. Di quelli che vanno nel West. Arriva quel pazzo
nella Cadillac a 140, ci supera come un bolide mentre arriva una macchina in
senso contrario e lui fa per rientrare e va a sbatter contro quel camion lì.
Guidava che sembrava ubriaco fradicio. Una botta che ti manda tutto all’aria:
coperte, polli, bambini. Un bambino morto. Mai visto una rovina così. Ci siamo
fermati. Il vecchio che guidava quel trabiccolo, povero cristo, stava lì come
un fesso a guardare quel cadaverino, impossibile cavargli una parola di bocca.
Eh, santo cielo, non si circola più, sulla strada; piena di profughi, ed è
sempre peggio. Chi lo sa da dove diavolo vengono.»
«Ma dov’è che vanno», domanda Mae. «Alle
volte si fermano qui, per benzina, ma non comprano mai niente, quasi mai.
Dicono che rubano, così non lasciamo mai niente in giro. A noi però non hanno
mai rubato niente.»
Big Bill, sbocconcellando il dolce, dà un’occhiata
sulla strada. «Eccoli che arrivano. Occhio ai valori, Mae!»
Una berlina Nash ’26, antidiluviana, si
ferma stanca sul lato della strada. La parte posteriore è zeppa quasi fino al
tetto di sacchi e stoviglie, e in cima al mucchio stanno accoccolati due
ragazzi. Sul tetto una tenda, e un materasso arrotolato; sul predellino i
picchetti da tenda. Si ferma davanti alla pompa della benzina. Ne esce, con
mosse stentate, un uomo dal profilo aquilino, i capelli scuri. I due ragazzetti
si lasciano scivolare a terra dal mucchio.
Mae si trasferisce dal banco sulla soglia.
L’uomo indossa un paio di pantalonacci di flanella grigia e la solita camicia
di grossa cotonata blu, nera di sudore sotto le ascelle e sulla schiena. I
ragazzi sono in tuta, tutte lacere, e nient’altro sulla pelle. Hanno i cranii
tosati a macchina, le facce impiastricciate di polvere e sudore. Vanno difilato
a tuffare i piedi nella pozzanghera davanti alla pompa.
L’uomo domanda: «Si può avere un po’ d’acqua,
signora?»
Mae prende l’aria seccata. «Fate pure,
fate pure». E voltando la testa indietro per tre quarti, mormora: «Io tengo d’occhio
la pompa». E rimane a guardare l’uomo che, svitato il tappo dal radiatore,
introduce nel bocchettone il becco del tubo.
Dal camion una donna, dai capelli
chiarissimi, dice: «Vedi se lo trovi qui.»
L’uomo toglie il tubo e riavvita il tappo.
I bambini agguantano il tubo per dissetarsi golosamente al becco sgocciolante.
L’uomo si leva il cappello, si fa sulla soglia e vi si ferma in atteggiamento
di curiosa umiltà. Si schiarisce la gola e dice a Mae: «Scusate, signora, non
avreste modo di venderci un po’ di pane?»
«Mica è una drogheria, questa», risponde
Mae. «Il pane l’abbiamo solo per i sandwich.»
«Sì, signora». L’uomo conserva il suo
atteggiamento dimesso. «Ma noi avremmo bisogno solo d’un po’ di pane, vedete, e
ho sentito che negozi non ce n’è per un bel pezzo.»
«Se ve lo do a voi, poi resto senza io.»
Ma il tono di Mae è già meno severo.
«Abbiamo proprio fame», dice l’uomo.
«Perché non prendete dei sandwich? Ne
abbiamo di speciali, e anche ottimi hamburger.»
«Magari, ma... non si può. Ho da rimediare
per tutt’e quattro con una moneta da dieci cents.» E aggiunge, imbarazzato,
sottovoce: «Abbiamo pochi quattrini.»
«Pani da 10 cents non ne ho. Minimo 15.»
Dal banco, Al grugnisce: «Al diavolo, Mae,
dagli ’sto pane!»
«Sì, poi si resta senza noi. Il fornitore
passa solo domani.»
«E chi se ne frega, maledizione!»
E Al riabbassa in fretta gli occhi sull’insalata
che sta rimestando.
Mae alza una spalla e guarda i camionisti
come a dimostrar che lei è contraria. Tiene aperta la porta per far entrar l’uomo,
il quale si porta appresso nel locale un tanfo di sudore. Nella scia del babbo s’introducono
anche i ragazzini, che si dirigono immediatamente alla vetrinetta dei dolciumi,
divorandoli con occhi che esprimono più meraviglia che desiderio o speranza.
Paiono gemelli; l’uno si gratta una caviglia con le unghie dell’altro piede; l’altro
gli bisbiglia chi sa che, e tutt’e due stringono i pugni irrigidendo le braccia
pendenti, per tenere le mani sotto controllo.
Mae apre un cassetto e ne trae un pane
lungo mezzo metro. «Questo è da 15», dice.
L’uomo si gratta dietro l’orecchio e
chiede, con inflessibile umiltà: «Non si potrebbe tagliarne via un pezzo, così
che resti da dieci?»
Al brontola tra i denti: «E daglielo
tutto, Mae, daglielo tutto!»
L’uomo si volta verso di lui. «Grazie, ma
noi se ne vuole 10 cents. S’ha da starci attenti, capite, se vogliamo arrivare
in California».
Mae, rassegnata, conclude: «Ve lo do
intero per 10».
«Ma sarebbe un ladrocinio, signora».
«Andiamo... Al dice di darvelo tutto». E
porge il pane attraverso il banco.
L’uomo trae dalla tasca posteriore un
grosso portamonete, ne scioglie la chiusura lampo, lo apre e lo posa aperto sul
banco. Contiene vari biglietti di banca, incredibilmente sudici, e un
gruzzoletto di monete d’argento. «Vi sembrerà strano», dice, «che si sia cosi
tirchi, ma», aggiunge come scusandosi, «s’ha da fare un migliaio e mezzo di
chilometri, e chi sa se ci si fa». Fruga con l’indice in cerca d’una moneta da
10 cents, la trova e la posa sul banco. Allora vede che un penny è rimasto
appiccicato sotto la moneta. Sta per riporlo quando scorge i figlioletti
congelati davanti alla vetrinetta dei dolciumi. Si avvicina con passo lento,
indica due lunghi bastoncini di zucchero alla menta, striati di verde e di
rosso e domanda: «Un penny l’uno, signora?»
Mae viene e guarda dentro. «Quali?»
«Lì, quelli striati».
I ragazzetti sono in punta di piedi,
trattengono il fiato, bocche socchiuse, irrigiditi nell’attesa.
«Oh, quelli... be', no... quelli son due
per un penny».
«Allora datemene due». E posa delicatamente
la moneta sul banco.
I ragazzi riprendono fiato. Mae porge un
bastoncino a ciascuno di loro. «Su, prendetelo», dice il babbo. Lo prendono
timidamente, e abbassano subito la mano che tiene il bastoncino, senza osare di
guardarlo; ma si guardano a vicenda, e si sorridono impacciati, e solo con gli
angoli della bocca.
«Grazie infinite, signora». L’uomo prende
il pane ed esce, seguito dai ragazzetti che camminano rigidi coi bastoncini
sempre tenuti bassi, quasi a nasconderli. Appena fuori, corrono alla Nash, s’arrampicano
come due talpe fino in cima alla montagna del carico, e lassù si rintanano, per
succhiare al riparo dalla vista. L’uomo si siede al volante, e con un rombo
spaventoso la sgangherata Nash riprende la strada in un’oleosa nuvola di fumo
celeste.
Dall'’interno dello spaccio i quattro
rimasti la guardano scomparire. Big Bill, dall’alto del suo sgabello: «Quei
canditi, due pezzi al penny, eh?» osserva ironico.
«Cosa ne sapete voi?» ribatte Mae,
aggressiva.
«Quelli erano un penny l’uno», insiste Big
Bill.
«Ora d’andare», interviene il compagno.
«Il tempo passa.»
Si frugano in tasca. Bill posa sul banco
una moneta, il suo compagno le dà un'occhiata e ne posa un’altra uguale.
S’alzano, e s’avviano alla porta. «Arrivederci», saluta Big Bill.
Mae li richiama: «Ehi, momento, il resto».
«Va’ all'inferno», dice Big Bill ridendo,
e si sbatte la porta alle spalle.
Mae resta a guardarli salire sul grosso
autotreno che parte di lì a poco con un rombo sordo.
«Al», mormora.
Lui la guarda sollevando gli occhi dal piatto
che sta preparando. «Che c’è?»
«Guarda». Indica le monete posate sul
banco, monete di mezzo dollaro. Al s’avvicina a guardare, poi ritorna al suo
lavoro.
«Camionisti», mormora Mae con rispetto.
«Altro che quegli stronzi.»
Al si pulisce le mani sul grembiule e
consulta una tabella, appesa al muro, dietro il forno elettrico e sulla quale
registra i numeri uscenti nella macchinetta a gettoni, poi va al registratore
di cassa, preme il tasto zero, estrae dal cassetto una manciata di monetine.
«Che fai?» dice Mae.
«La numero 3 ormai dovrebbe sganciare»,
borbotta Al in risposta. S’avvicina alla terza delle macchinette e comincia a
introdurre metodicamente monetine; al quinto tentativo azzecca la combinazione
e una cascatella di monete precipita nel raccoglitore. Al le prende e va a
schiaffarle nel cassetto del registratore. Poi torna al suo posto e controlla
la tabella. «La tre frutta più delle altre», osserva. «Forse farei bene a
cambiarle». Solleva un coperchio e rimescola lo spezzatino che bolle lentamente.
«Chi sa cosa andranno a fare in
California?» dice Mae.
«Chi?»
«Quei poveracci di poco fa».
«Dio solo lo sa».
«Credi che troveranno lavoro?»
«Come vuoi che lo sappia io?»
Mae perlustra la strada con gli occhi.
«Ecco che viene un altro camion. Due. Chi sa se fermeranno? Speriamo». E come
vede i furgoni rallentare e fermare sul lato della strada, si rassetta l’abito
e dà di piglio allo strofinaccio sfregando energicamente su tutta la lunghezza
del banco. Al tira fuori una manciata di raperonzoli e prende a sbucciarli. Mae
ha il viso raggiante quando s’apre la porta e i due camionisti si fanno avanti.
«Oilà! Sorellina!»
«Non sono la sorella di nessuno, furboni!»
Mae ride. Gli uomini ridono. «Che prendete, ragazzi?»
«Oh, un caffè. Di dolci cos’avete?»
«Crema banana, crema ananas, crema
cioccolata, torta di mele».
«A me una fetta di torta. No, un momento,
quella cos’è?»
Mae solleva il piatto e l'annusa. «Crema
ananas», dice.
«Proviamola, ma una buona porzione».
Sulla 66 le vetture sfrecciano via malignamente.
(1) È la famosa United States Route 66 (o semplicemente
Route 66), una delle prime strade federali statunitensi, aperta nel 1926, che
inizialmente collegava Chicago alla California, attraverso l’Illinois, il
Missouri, il Kansas, l’Oklahoma, il Texas, il Nuovo Messico e l’Arizona. Fu usata
per la migrazione verso ovest, specialmente durante il dust bowl.
(2) opulenza = abbondanza, ricchezza
(3) nichelini = monete di nichel,
sostanzialmente centesimi
(4) fonografo = juke-box
(5) Bing Crosby fu un celebre cantante
statunitense del Novecento
(6) Benny Goodman fu un famoso compositore
e direttore d’orchestra jazz del Novecento
(7) inanellati = tirati in su con tanti
riccioli allungati
(8) trite = risapute, antiquate
(9) sono, rispettivamente, gli stati del
Massachusetts, del Tennessee, del Rhode Island, di New York, del Vermont e
dell’Ohio
(10) sono i reggiseni
(11) epe = pance
(12) panamino = piccolo panama, un
cappello di paglia intrecciata tipico dell’America centro-meridionale
(13) la sifilide è una malattia infettiva
che si trasmette solitamente attraverso rapporti sessuali
4
fotogrammi dal film “Furore” di John Ford, relativi all’episodio qui riportato
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