Un altro episodio della guerra partigiana
combattuta da Giovanni Pesce e raccontata nel libro “Senza tregua”. Qui
l’autore narra la vicenda con particolare intensità, facendone un racconto
ricco di dettagli realistici ed emotivi e creando una notevole suspense nel
susseguirsi dei fatti: il che rende le vicende della Resistenza ancora più
interessanti.
Greco. Giugno 1944. È un piccolo lembo
della periferia milanese, isolato dalla città da fasci di binari ferroviari che
ne tagliano in due il centro. Non è un luogo attraente: il fumo delle
locomotive ha annerito le case e il ponte sul quale corre la strada angusta
verso Prato Centenaro, le cascine, le ville padronali. La guerra ha intristito
ancor di più il luogo: un senso di desolazione grava su tutto. Le ville sono
state abbandonate dai proprietari, trasferitisi in luoghi sicuri, lontano dai
bombardamenti. Da più di venti anni la palazzina comunale ignora i dibattiti
democratici del consiglio. Un tempo il sindaco, dopo il lavoro, andava a fare
una partita a carte all’osteria o a barattare quattro chiacchiere in farmacia o
sui cantieri. Ma del mondo di allora è scomparso anche il ricordo. La gente
ora, è diversa. Molti di quelli che abitavano in questo angolo di Milano sono
lontani e forse non rivedranno più le loro case. Sono giovani che la guerra ha
trascinato in paesi sconosciuti, dove non avrebbero mai immaginato di rimanere come
soldati dell’Asse (1). A Greco è arrivata altra gente: duri, ostili, uomini
della Feldgendarmerie (2), del Genio ferroviario della Wehrmacht e delle SS,
diffidenti, sospettosi di tutto, anche dei fascisti, sono incaricati di
controllare, di sorvegliare il funzionamento delle grandi officine di
riparazione ferroviaria.
Molti i ferrovieri: quando lavorano non
possono fare un passo senza essere seguiti dalla sentinella, come nei campi di
concentramento; conversano a bassa voce e si interrompono bruscamente allorché
si avvicina un collaborazionista (3).
Lungo i binari che transitano da Greco,
sotto il ponte grigio del cavalcavia, sono sfilate a migliaia lunghe colonne di
carri merci, una parte notevole del dramma dell’8 settembre è stata recitata
davanti alla palazzina grigia della stazione di Greco, sotto gli occhi dei
ferrovieri e della gente di questo piccolo angolo di Milano. Dai vagoni
bestiame, sprangati e sigillati, si sono levate di giorno e di notte,
invocazioni di aiuto e sono stati lanciati biglietti disperati (4).
Quando era possibile, qualche vagone è
stato forzato e il macchinista ha rallentato in curva più del necessario.
Qualcuno ha potuto saltare in tempo dal treno diretto verso i campi di raccolta
e i campi di sterminio. La mano di un ferroviere di Greco, aprendo uno
spiraglio ha potuto lanciare nei carri-merci una borraccia d’acqua, un pezzo di
pane.
Gli uomini del distaccamento della
Feldgendarmerie non si fidano dei ferrovieri, non si fidano di nessuno, vivono
nell’isolamento della paura, mentre la popolazione vive nell’angoscia,
affamata, martellata dalle incursioni aeree, insidiata dai rastrellamenti delle
brigate nere, minacciata dall’incubo delle deportazioni, dalle fucilazioni. Ma
anche per la gente di Greco il tenue filo di speranza si ingrossa, mentre su
tutti i fronti la situazione dei nazisti va precipitando.
La Wehrmacht subisce colpi durissimi sul fronte
dell’Est e il preannuncio della catastrofe si chiama Stalingrado (5). I
partigiani di tutta Europa passano all’offensiva, colpiscono senza pietà il
nemico. Sul fronte occidentale la pressione degli anglo-americani si fa
incalzante.
In Italia ha inizio "la battaglia dei
binari," l’obiettivo del comando militare del C.V.L (6). Azioni di
sabotaggio devono impedire spostamenti di truppe tedesche sui fronti minacciati
dall’offensiva sovietica o dagli attacchi anglo-americani. Greco diventa zona
di operazione; è un bersaglio importante; vi transitano le linee ferroviarie
verso i valichi svizzeri; le linee anulari che circondano Milano e si spingono
in ogni direzione. Ma l’importanza del nodo ferroviario di Greco è accresciuta
dalla presenza delle officine di riparazione, affollate di motrici sfasciate
dai bombardamenti e dai sabotaggi.
Ogni giorno la direzione ferroviaria di
Greco riceve sollecitazioni telegrafiche sempre più pressanti dai vari
compartimenti e dai responsabili territoriali del Genio ferrovieri hitleriano.
Il traffico ferroviario si svolge in ore notturne per sfuggire ai bombardamenti
alleati, ma non riesce a sottrarsi all’attività dei partigiani. I mezzi colpiti
dalle incursioni o dai sabotaggi non sono spesso né trasportabili, né
recuperabili, tuttavia i locomotori danneggiati giungono continuamente a Greco.
È qui, dunque che il sistema di comunicazione della Wehrmacht deve essere
scardinato.
Il comando regionale delle formazioni
garibaldine, ai primi di giugno, ordina una delle più importanti azioni di
sabotaggio della Resistenza, affidandone il compito alla III brigata GAP
"Rubini."
La formazione ha subito gravi perdite e
molti dei suoi combattenti hanno dovuto lasciare la città per evitare la
cattura e trasferirsi in montagna. Il nemico aveva individuato troppe basi e
colpito troppi patrioti. Al logorio degli uomini si è aggiunto il dubbio che
fossero ormai facilmente individuabili dai fascisti e dalla Gestapo. Nel giugno
del 1944 la brigata "Rubini" è decimata al punto che occorre, più che
organizzarla, ricostruirla con forze fresche.
Riesco a reclutare quattro ferrovieri:
Guerra, Ottoboni, C. e Bottani; tutti e quattro di Greco.
Due ragazze, compiono frequenti viaggi da
Milano a Rho. Le strade che dalla città conducono in provincia sono sempre
affollate. La speranza di trovare un po’ di farina per sfuggire alle
insopportabili restrizioni del tesseramento (7) spinge molte massaie a compiere
pellegrinaggi annonari alle cascine e alle case dei contadini. Non è strano che
due ragazze, Sandra e Narva, scendano anch’esse, assieme a molte altre donne,
al capolinea del vecchio tranvai, l’ormai famoso "gamba de legn," a
Rho, con le borse vuote e che, qualche ora dopo, risalgano sullo stesso trenino
per Milano, con le borse piene. Ma non sempre il viaggio col trenino è
possibile, a causa dei bombardamenti, dei mitragliamenti e dei ritardi enormi.
Allora Sandra e Narva salgono sulle loro biciclette e pedalano verso Rho.
Pedalano vigorosamente, quelle due ragazze minute, dall’aria sbarazzina, con
gli alti tacchi di sughero. I militi le conoscono per i loro frequenti viaggi
in bicicletta, rispondono ai loro sorrisi, senza darsi la briga di frugare
nelle loro borse o gettandovi soltanto un’occhiata distratta. Alle volte capita
alle ragazze di farsi portare i loro carichi di esplosivo da qualche poliziotto
galante. Tra qualche anno le soprannomineranno le "signorine
tritolo."
Nel 1944 Sandra e Narva sono tra le più
attive staffette gappiste. Scarseggia l’esplosivo alla brigata
"Rubini" e bisogna prelevarlo dal deposito clandestino di Rho e
trasportarlo a Milano. Per l’operazione di Greco ne occorre poco meno di un
quintale. La cautela necessaria, sia per eludere la vigilanza dei nazifascisti,
sia per evitare incidenti nel trasferimento del pericoloso materiale
suggeriscono di scegliere Sandra e Narva.
Il trasporto dell’esplosivo è effettuato
in piccole quantità con successo. A Milano, il tecnico si mette subito al
lavoro e dopo alcuni giorni comunica che tutto è pronto.
Visone (8), a sua volta, lo comunica a Guerra,
capo dell’operazione. Con Guerra riesamina ogni particolare, determina con
estrema precisione gli obiettivi, stende il piano nei minuti particolari.
Guerra è un giovane tranquillo e cordiale. Alla vigilia sarà di una serenità
sorprendente. Non lo si direbbe affatto un «novellino» che partecipa alla sua
prima azione. A Greco gli vogliono bene. Lo sanno un buon lavoratore, ha molti
amici fra i compagni delle officine, ed è benvoluto dalla gente della vecchia
cascina dove abita. È a pensione presso un’anziana signora che gli ha affittato
una stanzetta al piano terreno. Dalla finestra Guerra vede il via vai dei
poliziotti tedeschi che escono ed entrano dal comando. La villa padronale,
contigua alla cascina dove egli abita, è stata requisita dalla Kommandantur ed
assegnata alla Feldgendarmerie. Sono gli stessi uomini che Guerra incontra
nell’officina ferroviaria e che sembrano volerlo perquisire con lo sguardo. Il
capo dei gappisti ferrovieri di Greco è sempre a pochi metri dai poliziotti; al
lavoro lo sorveglia una sentinella; a casa, oltre la finestra, il corpo di
guardia del comando. Le bombe verranno consegnate a Guerra che si affretta a
cercare un nascondiglio sicuro. All’esterno i passi pesanti degli uomini della
polizia militare tedesca echeggiano sul selciato del cortile confusi con le
risate dei militari a mensa.
Sandra è incaricata di far affluire le
bombe sul luogo stabilito.
I convogli che transitano per Greco hanno
un’aria furtiva. Gli edifici ferroviari, i serbatoi d’acqua in cemento sono
stati sottoposti da tempo a trattamento di cosmesi. Colori gialli, verdi,
olivastri, si intrecciano a tinte cupe. L’effetto della
"mimetizzazione" è sconcertante.
Dall’alto dovrebbe apparire come un
innocuo podere coltivato a grano e ad erba medica. Ci sono voluti laboriosi
progetti e l’impiego di esperti. Per Guerra, Ottoboni, C. e Bottani la
"mimetizzazione" non ha alcun senso. Le locomotive ai quattro
gappisti ferrovieri sono tanto familiari quanto l’incudine a un fabbro. E le
locomotive sono allineate, inconfondibili, sotto le reti mimetiche, sui binari
che conducono alle varie corsie dell’ospedale "ferroviario" di Greco.
Anche le sentinelle tedesche che di notte passeggiano a passi cadenzati davanti
agli impianti e si fermano di colpo al primo rumore insolito fanno parte dello
scenario consueto.
Ecco, il nemico è lì, si chiama Fritz o
Rudolf o Heinz, qualche volta saluta e sorride. I ferrovieri di Greco
rispondono al saluto, intuiscono che Rudolf ha una ragazza che lo aspetta al
paese; che Fritz, più anziano e grasso, ha almeno un paio di figli e una
bottega di artigiano e che Heinz, scuro in volto, deve aver più di una
preoccupazione. Ma vi sono anche l’Hauptmann-Kommandant (9), responsabile degli
impianti di Greco, gli squadristi, Mussolini e Hitler, i vagoni bestiame
sigillati carichi di donne, di uomini, di vecchi e di bambini, diretti al Nord,
verso la Germania. A questo punto che cosa ha ancora importanza? Il ricordo
forse degli esami di concorso del personale ferroviario? Le pedanti domande degli
esaminatori? L’affetto per le grandi macchine nere? Adesso tutta la conoscenza
e tutta l’esperienza accumulata in anni di lavoro confluisce nella preparazione
dell’azione di sabotaggio.
Se ne accorge Visone, quando nel corso di
una delle ultime riunioni, alla vigilia della grande operazione, discute i
dettagli del piano.
Guerra e gli altri sono operai che
conoscono pezzo per pezzo le locomotive e ogni angolo delle officine. Si
stabilisce di collocare i pacchi di esplosivo con micce da 20 minuti nei forni
di combustione delle macchine a vapore; di distruggere l’apparato motore e di
comando dell’impianto di sollevamento e spostamento delle locomotive, il ponte
mobile, che scorre lungo una fossa, tra i grandi capannoni ferroviari di Greco.
Bloccandone l’attività, s’impedisce l’afflusso degli altri mezzi danneggiati e
si impedisce l’uscita delle locomotive riparate.
Le ore della vigilia sono interminabili. I
quattro si accorgono di guardare con occhi diversi non solo i tedeschi, ma il
repubblichino che dirige gli impianti, i loro compagni di lavoro che non sanno.
Immaginano i volti degli operai, dei capisquadra e di tutti gli altri, «il
giorno dopo». Non è più il momento di pensare. Bisogna scacciare i ricordi che
tentano di riaffiorare, i lontani echi dei giorni sereni. Sono ricordi chiari,
di gente semplice: una gita con gli amici, una lontana festa in famiglia, il
volto di qualcuno cui si vuol bene.
È notte, una notte di guerra. I quattro
sono stesi sulla proda di un fossato, con i loro carichi micidiali guardano i
profili scuri della stazione e dell’officina, i blocchi cilindrici dei serbatoi
d’acqua che si stagliano nitidamente nella notte stellata. È passato un
convoglio che ha sostato brevemente nella stazione: lo sferragliare sui binari
si è interrotto, forse per una comunicazione ai sorveglianti tedeschi che
viaggiano sul treno.
Si è udito gridare un ordine e dalla
locomotiva rispondere:
«Jawohl, Jawohl».
Il convoglio è ripartito. Di tanto in
tanto si avverte solo il passo cadenzato delle sentinelle davanti alle officine
deserte. Un sasso cade sul metallo con un lungo tintinnio. Da lontano arriva il
ronzio sordo degli stabilimenti Pirelli, dove si lavora anche la notte. Il
vento cambia direzione e porta altrove quella eco di vita. Ritorna il silenzio.
Ecco, è il momento. Guerra è già scattato
in piedi, lo seguono Ottoboni, C. e Bottani: tra poco quando le due sentinelle
tedesche si scambieranno le consegne presso la palazzina della stazione, i
quattro partigiani entreranno dalla parte opposta nell’interno dello scalo.
Percorrono un breve sentiero, camminando curvi sull’erba di un prato che
finisce proprio a ridosso dei binari.
«Accidenti, forse era meglio fasciarci le
scarpe con gli stracci...»
L’imprecazione è provocata dallo
scricchiolio della ghiaia spostata nella «zona proibita».
Ora è il momento di separarsi, di
ricordare le proprie istruzioni e quelle degli altri per non correre il rischio
di scambiare i compagni per i tedeschi. Tra poco la sentinella inizierà il suo
andirivieni: è meglio affrettarsi, superare di corsa gli ultimi cento passi,
che portano alle locomotive ferme in attesa dell’ispezione. Ogni metro è
familiare ai quattro gappisti ferrovieri. Un passo pesante si avvicina. Bisogna
nascondersi in fretta. Ci sono cespugli lungo le pareti dell’officina e ai
piedi delle mura di cinta. I quattro si stendono a terra. Trattengono il
respiro. Rimangono accovacciati, immobili, sentendo il battito tumultuoso del
proprio cuore.
Guerra aguzza lo sguardo e strizza gli
occhi. Un rumore lo fa rituffare a testa in giù. Ottoboni stringe i denti e si
getta a terra premendo il petto contro il suolo. L’eco dei passi si avvicina,
poi la sagoma della sentinella spunta all’angolo esterno del capannone. È
meglio controllare le rivoltella.
Ottoboni e C. stanno rattrappiti. Guerra
sente un formicolio gelido corrergli per la schiena. Stringe forte la
rivoltella. Se il tedesco si avvicina troppo, sarà facile colpirlo. Ma lo sparo
darà l’allarme. La sentinella s’allontana proiettando metodicamente la luce
della torcia elettrica sulle locomotive e sui binari. Non si può ancora passare
all’azione. Bisogna aspettare che passi almeno tre o quattro volte, accertarsi
che non cambi il suo itinerario. I quattro attendono, stesi lungo il muro di
cinta. Al loro fianco si apre la fossa delle locomotive, davanti al muro si
unisce al fabbricato dell’officina, alle spalle c’è un ampio passaggio tra il
muro e la seconda officina. È da là che potrebbe spuntare, all’improvviso, la
sentinella scrupolosa.
Finalmente si odono di nuovo i passi del
soldato, il rumore di stivaletti corti, la cadenza di un uomo non molto
giovane.
Spunta dal medesimo angolo dell’officina,
percorre lo stesso tragitto: non sembra tipo da procurare sorprese. Anzi il
ritmo del suo andirivieni accorda un minuto in più sul tempo calcolato. Un
minuto guadagnato. L’eco dei passi si allontana. Guerra, il primo dei quattro
stesi a terra, dà il segnale: «Prima le locomotive e ricordiamoci che il tempo
delle micce è di venti minuti».
Si mettono in cammino, cauti lungo i
binari. Lontano brilla una fiammella, poi si spegne, la sentinella ha acceso
una sigaretta.
La scaletta in ferro di una locomotiva ha
una decina di pioli, che di solito si superano d’un balzo, ma di notte con un
carico di tritolo a tracolla, possono fare incespicare. Uno dei quattro picchia
un ginocchio contro il metallo: i denti mordono le labbra per frenare l’imprecazione.
Una locomotiva ha il forno acceso; Guerra
deve scendere rapidamente dalla cabina, precipitarsi all’interno di una delle
officine, salire su di un locomotore elettrico. Ha ancora tutte le cariche da
innescare.
Gli è parso di vedere una fiammella, una
piccola luce rossa. Uno degli altri ha già innescato una miccia e il tic tac
dell’orologio ha un battito affannoso. Il corridoio del locomotore elettrico è
uno stretto budello; ma permette di usare una lanterna cieca (10). Apre il
portello del vano motori e finalmente accende anche lui la sua miccia. Ha
qualche difficoltà a tener ferma la mano. È ansia? O l’affanno della corsa per raggiungere
l’officina? Venti minuti di tempo. Quanti ne sono trascorsi? Quattro, cinque?
Al massimo sei. Ecco un’altra locomotiva a vapore. Il metallo è freddo, il
forno è spento. Un balzo, senza inciampare. Le mani sicure aprono il portello
del forno, collocano la carica al centro. Il vano del forno si trasformerà in una
potente camera di scoppio. L’ansia del rischio va attenuandosi. Si è già a buon
punto e si conta di finire prima del previsto. Cinque locomotive dovrebbero
essere state minate. A Guerra restano ancora due cariche. Gli altri
probabilmente hanno già terminato. Gli sembra che si stiano dirigendo verso il
punto di partenza. Non è cosi: camminano circospetti, uno si stacca dal gruppo
e sale su una macchina, una fiammella si accende, si spegne di colpo. Rumore di
passi. Quanti minuti saranno trascorsi dall’innesco della prima carica? Dieci,
quindici? Chi ha acceso l’ultima miccia deve rimanere immobile accanto al filo
sottile che brucia, nascondendo il lieve chiarore con la mano. Millimetro per
millimetro la piccola brace rossastra avanza. Avanzano anche gli stivali sui
binari, si avvicinano alle locomotive minate. Guerra deve ancora collocare una
carica nel motore del "traghetto," come chiamano familiarmente i
ferrovieri l’apparato di spostamento delle locomotive da un binario all’altro.
L’uomo che ha attraversato i binari improvvisamente grida in tedesco.
Guerra è come paralizzato. La voce che
grida, si fa sempre più vicina. Non muovere la mano, non toccare le armi, forse
il tedesco non ha visto. Un movimento, un gesto lo noterebbe. Guerra resiste;
ma riusciranno anche gli altri? Ognuno si pone la stessa domanda. Tutti
rimangono immobili.
Non si capisce cosa gridi la sentinella,
ma dall’altro lato dello scalo, una voce gli risponde. Un uomo attraversa i
binari. Poi si ferma. Lo si intravede, con un piede sul viottolo di ghiaia e l’altro
su una traversina. Qualcosa gli luccica nell’occhio destro, forse un monocolo.
L’uomo alza il piede, supera il binario, si avvia verso la stazione.
Ora non resta più tempo per essere
prudenti. Le micce hanno quasi finito la loro corsa. Guerra è vicino ad una
locomotiva con il forno acceso. Innesca la miccia e la colloca tra gli assi
della macchina. Resta un'altra carica. «Ragazzi, scappiamo».
Ad un certo momento Bottani vede un’ombra
muoversi nell’oscurità che risveglia in lui, bruscamente un ricordo: si ferma
allibito pieno di stupore. Mentre il gruppo si allontana Bottani scatta di
corsa verso il locomotore da dove è appena sceso.
Un ferroviere ne ha aperto la porta per
andarvi a riposare. Ma quel locomotore è destinato ad esplodere. Che cosa
accade all’interno del locomotore? Bottani ne scende con l’ordigno, la miccia
accesa e si precipita verso un altro locomotore. Di corsa raggiunge il gruppo.
Gli chiedo:
«Come mai hai tardato?» «Quello là stava
per andare a dormire vicino all’ordigno. L’ho spostato su un altro locomotore.
Certo il ferroviere dovrà svegliarsi bruscamente».
Può avere importanza l’intervallo fra una
deflagrazione e l'altra?
Non parrebbe a prima vista ma una
esplosione unica rivelerebbe immediatamente l’attentato. Gli scoppi si
susseguono tutti e quattro come un bombardamento a tappeto. I tedeschi non
sparano. Non si precipitano a bloccare le strade attorno alto scalo. I quattro
hanno il tempo di fuggire prima che i nazisti si rendano conto dell’assenza del
rumore degli aerei. Dopo gli scoppi, si accendono le fiamme del serbatoio dei
lubrificanti. Adesso crepitano le machine-pistole, le “machinengewehr”, persino
la mitragliatrice a quattro canne (11); se ne scorgono le scie traccianti dei
proiettili nel cielo limpido. Ma i quattro ormai sono tranquillamente sulla via
di casa.
Guerra ha il suo lotto (12) in una stanza
a ridosso del corpo di guardia Feldgendarmerie. Vicino alla cascina dove abita
scorge una donna anziana che si cala in una buca, rifugio antiaereo di fortuna.
È una vecchia buca ad un paio di metri sotto terra, adibita a deposito di vino.
Nella fossa appena illuminata da un lucignolo Guerra si scontra con un
avversario imprevedibile e naturalmente imprevisto, la sua padrona di casa, la
buona donna che gli ha affittato una delle stanze.
«Lo so che è stato lei a fare quegli
scoppi», urla la donna in preda al terrore. Guerra tenta di calmarla. Lo colpisce
la sua intuizione.
«Lo so che è stato lei a fare tutto quel
fracasso. Chissà che cosa succederà adesso...»
Un viso dolce da nonnina, senza nessuna
cattiveria. Ma grida troppo forte. Qualcuno potrebbe udirla. La Feldgendarmerie
si trova in linea d’aria a soli tre metri.
Guerra riflette: si tratta di provocarle
un altro, innocuo choc: abbracciarla, un po’ per calcolo, un po’ con affetto,
cara, buona e vecchia nonnina.
Il silenzio torna nel piccolo, incredibile
rifugio scavato nel cortile della cascina. Guerra e la nonnina si guardano in
silenzio. Fuori non sparano più, gridano. Il ferroviere partigiano va a letto.
Davanti alla sua finestra corre via l’ultimo degli uomini disponibili della
Feldgendarmerie, il cuoco, costretto a partecipare a un rastrellamento di
emergenza.
(1) Si tratta delle Potenze dell’Asse,
ossia di quegli Stati (in primo luogo Germania, Italia e Giappone) che
parteciparono alla Seconda guerra mondiale combattendo contro gli Stati Alleati
(Regno Unito e U.S.A., ma anche Francia e Unione Sovietica).
(2) Feldgendarmerie = la polizia militare
tedesca.
(3) Collaborazionista = persona che svolge
attività a favore di uno stato straniero invasore (in particolare si usa per i
francesi e gli italiani che collaborarono attivamente con i nazisti).
(4) Nei vagoni bestiame di cui qui si
parla venivano ammassati i prigionieri condotti ai lavori forzati in Germania.
(5) A Stalingrado si combatté dall’estate
del 1942 al febbraio 1943 una durissima battaglia, che segnò la prima grande
sconfitta militare della Germania nazista e l’inizio della fine del regime di
Hitler.
(6) C.V.L. = Corpo Volontari della
Libertà, ossia la struttura di coordinamento generale della lotta partigiana in
Italia.
(7) Tesseramento = durante la Seconda
guerra mondiale i prodotti alimentari o d’altro genere potevano esser
acquistati (in quantità limitata) solo con speciali tessere del governo, a
causa della scarsità dei prodotti in commercio. Per questo molte persone si
recavano in campagna per acquistare dai contadini ciò che essi ricavavano dal
lavoro nei campi o dall’allevamento.
(8) È lo stesso Giovanni Pesce, costretto
ad adottare diversi nomi di battaglia durante la clandestinità partigiana.
(9) Hauptmann-Kommandant = letteralmente,
Capitano-Comandante.
(10) Lanterna cieca = un tipo di lanterna
costruita in modo da permettere di concentrare la luce in un fascio, in modo
che non sia vista a 360 gradi.
(11) Si tratta di vari tipi di
mitragliatrici in uso nell’esercito nazista.
(12) Lotto = spazio adibito ad abitazione.
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