Pubblicato nel 1951 nella rivista Galaxy, questo racconto rientra appieno nei canoni della
fantascienza più classica; da una parte ci sono sei terrestri fatti prigionieri
durante una guerra con gli abitanti di un lontano pianeta, dall’altra gli
alieni, i Kloro, così chiamati perché vivono in un’atmosfera satura di cloro,
che li rende verdastri e accentua il ribrezzo per il loro corpo, la cui parte
superiore è filiforme e termina con una minuscola testa comprendente una specie
di proboscide e due occhi laterali.
Il racconto venne poi inserito nell’antologia “Il
meglio di Asimov” del 1974; lo stesso Asimov, nella premessa all’antologia lo
definisce come un racconto che «si avvicina all’inizio del mio periodo “maturo”
(o come preferite chiamarlo)».
Dalla cabina in cui era stato rinchiuso con altri
passeggeri, il colonnello Anthony Windham poteva ancora seguire le fasi della
battaglia in corso. Per un po' ci fu silenzio, nessuna scossa. Significava che
le astronavi stavano combattendo, a distanza astronomica, un duello di scariche
d'energia e di potenti campi di forza difensivi.
Il colonnello sapeva benissimo che la battaglia poteva
finire in un solo modo. La loro astronave terrestre era un semplice mercantile
armato mentre, da quello che Windham aveva potuto vedere, la nave dei Kloro, la
razza nemica, era un incrociatore leggero. Poi, l'equipaggio lo aveva obbligato
a sgomberare il ponte con gli altri passeggeri.
In meno di mezz'ora, infine, si erano cominciati a
sentire quei piccoli urti, secchi e duri, che lui si aspettava. I passeggeri
venivano sballottati qua e là ad ogni impennata della nave, tanto che sembrava
d'essere a bordo di un transatlantico durante una tempesta, anziché su
un'astronave. Gli spazi cosmici erano calmi e silenziosi come sempre. Era il
pilota che lanciava disperati getti di vapore dai tubi di scarico, allo scopo
appunto di far compiere alla nave, per normale reazione, una serie di sbalzi e
di sbandamenti. Questo voleva dire che l'inevitabile era già avvenuto: gli
schermi erano ormai esauriti e la nave non era più in grado di sopportare un
colpo diretto.
Il colonnello Windham cercò di appoggiarsi meglio al
suo bastone di alluminio. Si sentiva vecchio; era cosciente d'avere passato
tutta la vita nell'esercito senza avere mai visto una battaglia, e ora che un
combattimento gli si era scatenato intorno, lui era ormai un vecchio grasso,
zoppo e senza uomini ai quali dare ordini.
Tra poco i mostruosi Kloro sarebbero saliti a bordo:
era la loro tattica. Dato che gli scafandri spaziali costituivano per loro un
notevole impaccio, avrebbero subito perdite gravissime, ma era loro intenzione
catturare a tutti i costi l'astronave dei terrestri. Windham osservò per
qualche istante i passeggeri intorno a lui. Per un attimo, pensò: "Se fossero
armati e io potessi averli ai miei ordini..."
Ma abbandonò subito l'idea: Porter era, evidentemente,
in preda al panico, e Leblanc, il ragazzo, non si trovava in condizioni
migliori. I fratelli Polyorketes - accidenti, ma non si riusciva a distinguerli
l'uno dall'altro - erano rannicchiati in un angolo e non rivolgevano la parola
a nessuno. Mullen... be', Mullen era diverso. Sedeva perfettamente eretto sulla
persona, senza dare il minimo segno di paura né di qualsiasi altra emozione. Ma
non era più alto di un metro e sessanta ed era chiaro che non aveva mai
impugnato un'arma in vita sua. Non poteva essere d'aiuto a nessuno.
C'era poi Stuart, con il suo sorriso mezzo
stereotipato e il sarcasmo velenoso che impregnava ogni sua parola. Windham
lanciò uno sguardo di sottecchi a Stuart, intento in quell'istante a passarsi
le mani pallide come quelle di un cadavere nei capelli così biondi da avere
riflessi di cenere. In ogni caso, con quelle mani artificiali, Stuart non
avrebbe potuto far niente.
Windham sentì le vibrazioni dell'urto in seguito al
contatto fra le due astronavi, e dopo cinque minuti si udì il fracasso di una
lotta accanita nei corridoi della nave. Uno dei fratelli Polyorketes lanciò un
urlo e corse verso la porta. L'altro lo chiamò: «Aristides! Aspettami!» E lo
rincorse.
Tutto avvenne con estrema rapidità. Aristides era già
oltre la soglia e stava correndo lungo il passaggio, in preda al panico. Un
carbonizzatore brillò per un istante, e non vi fu nemmeno un urlo. Windham,
dalla soglia, si volse a guardare inorridito il moncone calcinato, tutto quello
che restava di un essere umano. Strano... tutta una vita sotto le armi e quella
era la prima volta che vedeva morire un uomo di morte violenta.
Ci vollero le forze riunite degli altri passeggeri per
riportare nella cabina l'altro fratello, che si divincolava come un pazzo.
Poi, i rumori della battaglia a poco a poco si
spensero.
«Ecco fatto» disse Stuart. «Lasceranno a bordo due dei
loro per pilotare l'astronave e ci porteranno in uno dei loro pianeti. Siamo
ormai prigionieri di guerra.»
«Soltanto due Kloro a bordo?» domandò Windham,
stupito.
«È la loro
usanza» disse Stuart. «Perché, colonnello? Avrebbe forse in animo di comandare
una brillante operazione per riconquistare la nostra nave?»
Windham arrossì. «Dicevo così, tanto per sapere!» Ma
sentì che il tono autorevole e la dignità militare gli erano venuti meno
proprio quando più avrebbero dovuto imporsi. Ormai, non era più che un vecchio,
con una gamba malata.
E Stuart probabilmente aveva ragione. Era stato con i
Kloro e conosceva i loro metodi.
John Stuart aveva sostenuto fin da principio che i
Kloro erano veri gentiluomini. Ora, dopo ventiquattr'ore di prigionia, lo
ripeté, fissandosi le mani e osservando le pieghe andare e venire sulla
sostanza plastica di cui erano fatte.
Lo divertiva la spiacevole reazione che la sua frase
destava fra gli altri. La gente era fatta per essere punzecchiata; vesciche
d'aria, tutti, dal primo all'ultimo. E poi avevano le mani fatte di carne,
della stessa carne del corpo.
Quell'Anthony Windham, per esempio. Si faceva chiamare
colonnello, e Stuart era dispostissimo a credergli. Un colonnello in pensione,
che probabilmente aveva fatto istruzione alle milizie di sicurezza della Terra,
una quarantina d'anni prima, e con uno stato di servizio così poco brillante da
non venire neppure richiamato in servizio durante la crisi del primo conflitto
interstellare della Terra.
«Non mi sembra che le sue parole nei riguardi dei
nostri nemici siano molto piacevoli a sentirsi, Stuart, e temo di non approvare
affatto il suo atteggiamento.» Windham aveva parlato come sparando le parole
attraverso i baffi tagliati corti. Portava i capelli a zero, secondo la moda
militare corrente, ma un po' di lanugine grigia aveva cominciato a ricrescergli
intorno allo spiazzo lucido che aveva in mezzo al cranio. Le guance gli
cadevano flaccide e, con le sottilissime vene rosse che gli solcavano il naso
grosso e carnoso, gli davano un aspetto confuso e disordinato, come di chi sia
stato svegliato troppo presto e troppo bruscamente qualche minuto prima.
«Sciocchezze» disse Stuart. «Provi a rovesciare la
situazione. Supponga che una nave della Terra avesse catturato un mercantile
kloro. Che cosa crede che sarebbe successo dei civili kloro a bordo del
mercantile?»
«Sono certo che la flotta terrestre avrebbe osservato
scrupolosamente tutte le norme del diritto di guerra interstellare.»
«Salvo che non esiste un codice interstellare di
guerra. Se catturassimo una delle loro navi crede che ci prenderemmo il
disturbo di mantenere un'atmosfera a base di cloro a favore dei superstiti? Che
permetteremmo loro di conservare i beni non contrabbandati di loro proprietà?
Che concederemmo loro la più comoda delle cabine di lusso, eccetera, eccetera?»
Ben Porter interloquì: «Oh, per l'amor di Dio, la
smetta. Se sento ancora uno dei suoi eccetera, eccetera, giuro che divento pazzo!»
«Scusi, me ne dispiace» disse Stuart. Ma non era vero.
Porter sembrava avere già messo in esecuzione la sua
minaccia di impazzire. La faccia affilata, dal naso a uncino, era lucida di
sudore, ed egli continuava a mordicchiarsi l'interno della guancia, fino a
quando, improvvisamente, sussultò di dolore; dopo di che, appiccicò la lingua
nel punto dove la mucosa gli doleva, assumendo un'aria ancora più ridicola.
Stuart cominciava ad averne abbastanza di stuzzicarli.
Windham era un bersaglio troppo debole e Porter non sapeva fare altro che
tremare. Gli altri tacevano. Demetrios Polyorketes si era chiuso nel suo muto,
disperato dolore. Durante la notte non doveva aver chiuso occhio. Almeno, ogni volta
che Stuart si era svegliato per cambiare posizione - perché anche lui era stato
notevolmente agitato - aveva sentito il mugolio sommesso di Polyorketes
giungere dalla cuccetta accanto alla sua.
Ora Polyorketes se ne stava seduto sulla cuccetta, con
aria inebetita, fissando gli altri prigionieri con occhi tondi e arrossati che
si aprivano come squarci nella larga faccia non rasata. Sentendosi osservato da
Stuart, si nascose la faccia tra le mani callose, così che rimase visibile
soltanto la massa arruffata dei suoi capelli folti e ricciuti. Si dondolava da
un lato e dall'altro, lentamente, ma ora che tutti erano svegli, non si
lamentava più.
Claude Leblanc cercava, senza riuscirci, di leggere
una lettera. Era il più giovane dei sei prigionieri; aveva appena terminato gli
studi e tornava sulla Terra per sposarsi. Stuart lo aveva sorpreso quella
mattina a piangere in silenzio, la faccia bianca e rosea tutta gonfia e
arrossata, come quella di un bambino in preda alla disperazione. Era biondo, di
una bellezza quasi femminea, con grandi occhi azzurri e labbra rosse e carnose.
Stuart si domandava che specie di ragazza potesse essere quella che aveva
accettato di diventarne la moglie. Aveva visto la fotografia della fidanzata.
Chi non l'aveva vista, a bordo? Una ragazza graziosa, di quella bellezza
stereotipata e un po' sciocca che rende le fidanzate tutte uguali, almeno in
fotografia. Stuart si era detto che, se fosse stato una donna, avrebbe
preferito un tipo più mascolino di Leblanc.
Rimaneva
soltanto Randolph Mullen. Stuart, in verità, non aveva la più pallida idea di
che cosa tirar fuori da Mullen. Era l'unico dei sei che avesse vissuto per un
certo tempo sui pianeti del sistema di Arturo. Lo stesso Stuart, per esempio,
vi era rimasto soltanto il tempo necessario per tenere una serie di conferenze
di ingegneria astronautica al Politecnico Arturiano. Windham c'era stato
durante un viaggio turistico; Porter aveva cercato di importare verdure
extraterrestri per le sue industrie di cibi in scatola della Terra; i fratelli
Polyorketes avevano tentato di stabilirsi nel sistema di Arturo come
agricoltori indipendenti e, dopo due stagioni di raccolti, avevano venduto
tutto con un certo margine di profitto ed erano ripartiti per la Terra.
Randolph Mullen, invece, aveva vissuto nel sistema
arturiano per diciassette anni. Come facevano i viaggiatori a scoprire tante
cose l'uno dell'altro, in così poco tempo? Da quanto ne sapeva Stuart,
quell'ometto non aveva quasi aperto bocca, da quando aveva messo piede a bordo.
Era gentilissimo, sempre pronto a farsi da parte per lasciar passare un altro,
ma tutto il suo vocabolario, evidentemente, consisteva soltanto in «Grazie» e
«Scusi». Pure, tutti sapevano, a bordo, che quella era la prima volta che
Mullen ritornava sulla Terra, da diciassette anni.
Era un ometto minuto, molto preciso, così preciso da
riuscire quasi irritante. Svegliatosi, quella mattina, s'era rifatto il letto
con molta cura, si era raso, aveva fatto il bagno e si era vestito. Le
abitudini di anni e anni non erano state minimamente scalfite dal fatto che ora
si trovava prigioniero dei Kloro. Era olimpico, e bisognava anche riconoscere
che non aveva l'aria di condannare lo spettacolo penoso dato dalla disperazione
dei suoi compagni di prigionia. Se ne stava tranquillamente seduto, quasi con
l'aria di chiedere scusa, infagottato negli abiti antiquati e con le mani
mollemente intrecciate e abbandonate in grembo. I baffi sottilissimi che si era
lasciato crescere, invece di aggiungere rilievo alla faccia, ne accentuavano il
carattere scialbo.
Tutto sommato, faceva venire in mente la caricatura di
un contabile. E il buffo era che, nella vita, l'ometto faceva proprio il
contabile. Stuart l'aveva letto sul registro di bordo: Randolph Fluellen
Mullen, di professione contabile; impiegato presso la Prime Paper Box Co.,
Tobias Avenue 27, Nova Varsavia, Arturo II.
«Signor Stuart?»
Stuart alzò gli occhi. Era Leblanc, il labbro
inferiore un po' tremante. Stuart cercò di ricordare che cosa si deve fare
quando si vuol essere gentili. «Che c'è, Leblanc?» domandò.
«Mi dica, quando saremo liberati?»
«Come faccio a saperlo?»
«Tutti dicono che lei ha vissuto su un pianeta kloro,
e poco fa l'ho sentita dire che si tratta di esseri corretti e leali.»
«Sì, ma anche gli esseri corretti e leali combattono
le guerre per vincerle. Probabilmente, saremo internati per tutta la durata
della guerra!»
«Ma potrebbe durare anni e anni! Margaret mi aspetta.
Crederà che io sia morto!»
«Immagino che ci permetteranno di spedire qualche
messaggio, quando saremo sbarcati sul loro pianeta.»
Si udì la voce di Porter, resa roca dall'agitazione:
«Dica un po', visto che la sa così lunga su questi diavoli, che cosa ci faranno
durante l'internamento? Come ci daranno da mangiare? Dove andranno a prendere
l'ossigeno per noi? Ci ammazzeranno tutti, ve lo dico io.» Poi, dopo un istante
di riflessione, aggiunse: «Ho una moglie che mi aspetta, oltre tutto!»
Ma Stuart l'aveva già udito parlare della moglie, nei
giorni precedenti all'attacco, e quella frase non lo impressionò. Le dita di
Porter, dalle unghie rosicchiate, gli stavano tirando l'orlo della manica.
Stuart si ritrasse con un senso di ripugnanza: non poteva sopportare quelle
mani orribili. Lo irritava fino alla disperazione che tali mostruosità
dovessero essere vere, mentre le sue belle mani bianche e affusolate erano
soltanto imitazioni, fatte con una sostanza plastica originaria di un altro
pianeta.
«Stia tranquillo» disse «non ci ammazzeranno. Se
avessero voluto farlo, ci avrebbero ammazzati prima. Scusi, anche noi facciamo
prigionieri i kloro, ed è questione di buon senso, in fondo: trattare bene i
prigionieri nemici, se si vuole che siano trattati bene i propri. Vedrà,
faranno del loro meglio. Il cibo che ci daranno non sarà molto buono, forse, ma
conoscono la chimica meglio di noi, anzi, è la scienza in cui eccellono, e
sapranno ben presto quali sostanze e quante calorie, esattamente, ci occorrono.
Vivremo. E sarà loro premura che noi si viva.»
«Più passa il tempo, più lei, Stuart, si mostra un
accanito sostenitore di quei verdoni maledetti» brontolò Windham. «Mi si
rivolta lo stomaco nel sentire un terrestre parlare così bene di quelle
creature verderame; ma insomma, dico io, dov'è la sua fedeltà?»
«La mia fedeltà è dalla parte di chi se la merita, Va
all'onestà e alla dignità, dovunque si trovino, indipendentemente dall'aspetto
e dal colore della pelle.» Stuart mostrò le mani. «Le vede queste? Sono stati i
Kloro a farmele. Mi trovavo da sei mesi su uno dei loro pianeti. Le mani mi
rimasero impigliate nell'impianto di condizionamento della mia abitazione. Mi
sembrava che l'ossigeno che ci fornivano non fosse sufficiente, e avevo cercato
di organizzarmi per conto mio. Fu il più grave errore della mia vita. Non bisogna
mai toccare macchine prodotte da extra-terrestri. Quando finalmente uno dei
Kloro riuscì a mettersi uno scafandro atmosferico e ad accorrere in mio aiuto,
per le mie mani era troppo tardi.
«Ebbene, i Kloro hanno costruito per me queste mani
plastiche e poi mi hanno operato. Sapete che cosa significava tutto questo per
loro? Significava studiare attrezzature e soluzioni nutrienti che potessero
operare in un'atmosfera a base di ossigeno. Significava che i loro chirurghi
dovevano eseguire un intervento particolare, complesso e delicato, vestiti di
scafandri atmosferici. Ma significava anche ridarmi un paio di mani perfette:
eccole qua, vede?» Scoppiò a ridere, strinse debolmente i pugni. «Mani...»
«E lei» disse Windham, «per questo rinuncerebbe alla
sua fedeltà verso la sua razza?»
«Rinunciare alla mia fedeltà? Ma lei è pazzo! Per anni
ho odiato i Kloro proprio per questo. Ero il primo pilota delle Astrolinee
Transgalattiche, prima che mi capitasse la disgrazia. Mentre ora, tutto quello
che posso fare è un lavoro di tavolino, più qualche conferenza di tanto in
tanto. Mi ci sono voluti anni, le ripeto, prima di ammettere che la disgrazia
era stata tutta colpa mia e che i Kloro si erano comportati nei miei riguardi
in modo più che lodevole. Hanno un loro codice morale che equivale al nostro,
anche se non è il nostro. Se non fosse per l'idiozia di alcuni di loro - e,
gran Dio, di alcuni dei nostri - ora non saremmo in guerra. E quando tutto sarà
finito...»
Polyorketes si era alzato. Le sue grosse dita erano
contratte a pugno, gli occhi mandavano lampi. «Non mi piace quello che sta
dicendo, amico...»
«E perché?»
«Perché parla troppo bene di questi maledetti ramarri.
I Kloro, lei, l'hanno trattata bene, eh? Ma mio fratello no, non l'hanno
trattato bene. L'hanno ammazzato. E io ho una mezza idea di ammazzare te,
maledetto spione dei verdi.»
E gli si buttò addosso.
Stuart ebbe appena il tempo di alzare le braccia per
tenere a bada il contadino inferocito. Riuscì a dire, ansimando: «Ma che
diavolo...» e intanto afferrava l'altro per il polso e, con una spalla, cercava
di allontanare la mano che voleva afferrarlo alla gola.
Il suo arto di plastica cedette. Polyorketes si liberò
quasi senza sforzo.
Windham blaterava parole incoerenti, mentre Leblanc
urlava con voce stridula: «Finitela! Finitela!» Ma fu il piccolo Mullen che
afferrò il contadino per il collo dal di dietro, tirandolo a sé con tutta la
sua forza. Non riuscì a far molto: Polyorketes sembrava non accorgersi nemmeno
del peso esercitato dall'ometto sulla sua schiena. Nel chinarsi, lo sollevò da
terra, e Mullen si ritrovò a scalciare nel vuoto; ma non allentò la stretta,
che tutto sommato riuscì a intralciare Polyorketes quel tanto da permettere a
Stuart di liberarsi e afferrare il bastone di alluminio di Windham.
«Indietro, Polyorketes» intimò Stuart, ansimando.
Temeva che l'altro tornasse alla carica. Il cilindro
cavo di alluminio non pesava tanto da rappresentare una grande difesa, ma era
sempre meglio di un paio di povere mani di plastica.
Mullen aveva mollato la presa e stava girando
cautamente intorno all'aggressore, il respiro un po' affannoso e gli abiti in
disordine.
Polyorketes, per un momento, non si mosse. Se ne stava
là, con la testa scarmigliata protesa in avanti. «È inutile» disse poi. «Devo
ammazzare qualche Kloro. Ma attento a come parli, Stuart. Tieni la lingua a
freno. Se continui a parlare così, rischi qualche grosso guaio. Ho detto
grosso, bada!»
Stuart si passò l'avambraccio sulla fronte e gettò il
bastone a Windham, che lo prese al volo con la sinistra, mentre con la destra
si asciugava vigorosamente la testa pelata.
«Signori» disse infine il colonnello, rimettendosi in
tasca il fazzoletto, «dobbiamo evitare scene di questo genere. Degradano il
nostro prestigio. Ricordiamoci del comune nemico. Siamo tutti terrestri e
dobbiamo comportarci per quello che siamo: la razza dominante della Galassia.
Badiamo bene a non sminuirci davanti agli inferiori.»
«Sì, colonnello» disse Stuart in tono stanco,
«rimandiamo il resto del discorso a domani.»
Si rivolse a Mullen: «Debbo ringraziarla.»
Gli seccava, ma doveva farlo. Il piccolo contabile lo
aveva letteralmente sorpreso.
Ma Mullen, con una voce secca, ch'era poco più di un
sussurro, replicò: «Non è il caso di ringraziarmi, signor Stuart. Era la sola
cosa logica da farsi. Se dovremo essere internati, avremo forse bisogno di lei
come interprete, ci servirà una persona che conosca bene i Kloro.»
Stuart s'irrigidì. Era il modo di ragionare di un
contabile, c'era una logica troppo meschina, uno spirito utilitaristico troppo
gretto. Colonna del "dare" e dell' "avere". Partita doppia,
utili e perdite. Stuart avrebbe preferito che Mullen fosse intervenuto in sua
difesa obbedendo a... ebbene, obbedendo a che cosa? a un istinto di puro,
onorevole altruismo?
Stuart rise silenziosamente di sé. Era dunque arrivato
al punto di aspettarsi dagli esseri umani prove di idealismo, anziché
dimostrazioni di egocentrismo profondo, aperto, dichiarato?
Polyorketes era come inebetito. Il dolore e la rabbia
agivano come un acido dentro di lui, ma non avevano parole per uscire. Se fosse
stato come Stuart, dalla parola facile, dalle mani troppo bianche, avrebbe
potuto anche lui parlare e parlare, e forse si sarebbe sentito meglio. E invece
doveva starsene seduto là, con la metà di sé stesso distrutta; senza più suo
fratello, senza più Aristides...
Era accaduto tutto così rapidamente. Se soltanto egli
avesse potuto tornare indietro, avere un solo secondo di più a disposizione per
lanciare un altro avvertimento, così da salvare Aristides, trattenerlo,
strapparlo al pericolo...
Ma era soprattutto l'odio per i Kloro, il pensiero che
lo dominava. Due mesi fa, quasi non li conosceva, e ora li odiava con tale
forza che sarebbe stato felice di morire, se prima avesse potuto ucciderne
qualcuno.
Domandò, senza alzare gli occhi: «Si può sapere,
insomma, chi è stato a far scoppiare questa guerra?»
Temeva che fosse la voce di Stuart, a rispondergli.
Odiava la voce di Stuart. Ma era quella di Windham, il calvo.
«La causa immediata» disse il vecchio, «è stata una
disputa sulle concessioni minerarie nel sistema planetario di Wyandotte. I
Kloro avevano interferito in quelle che erano proprietà terrestri.»
«C'era posto per tutti, colonnello!»
A quelle parole Polyorketes guardò in su, furente.
Stuart! Non c'era verso di farlo star zitto. Ecco che aveva ripreso a parlare,
quello storpio, quel Kloromane saccente.
«Le pare che valesse la pena di far scoppiare una
guerra per così poco, colonnello?» stava dicendo Stuart. «Noi non possiamo sfruttare
i loro pianeti e loro non possono sfruttare i nostri. I loro, con atmosfera a
base di cloro, sono inutili per noi così come lo sono i nostri per loro. Non
esistono motivi per un'ostilità permanente. Le nostre razze non hanno niente in
comune, non coincidono. C'è dunque qualche seria ragione per combatterci solo
perché le nostre due razze vogliono estrarre il ferro dagli stessi planetoidi
privi di atmosfera, quando ce ne sono milioni di altri simili, nella Galassia?»
«C'è la questione» disse Windham, «dell'onore
planetario...»
«Concime planetario, direi. Come può l'onore
giustificare una guerra ridicola come questa? La si può combattere soltanto
sugli avamposti. Tutto si riduce a una serie di scaramucce e presto si dovrà
giungere a negoziati che si sarebbero potuti intavolare in partenza, prima
delle ostilità. Né i Kloro né noi ci avremo guadagnato niente.»
Polyorketes si accorgeva, suo malgrado, d'essere
d'accordo con Stuart. Importava qualcosa, a lui o ad Aristides, che fosse la
Terra o i Kloro ad avere quel ferro?
Valeva la pena che, per quel ferro, Aristides ci
rimettesse la vita?
Si udì il ronzio del campanello.
Polyorketes sollevò la testa di scatto e si alzò
lentamente, le labbra tirate fino a scoprire i denti. Soltanto una di quelle
creature poteva essere dietro la porta. Aspettò, le braccia tese e i pugni
contratti. Stuart si stava spostando lentamente verso di lui. Polyorketes se ne
accorse e rise tra sé. Lascia che il Kloro entri, pensò, e né Stuart né gli
altri potranno fermarmi.
Aspetta, Aristides, aspetta un istante solo e almeno
una parte di vendetta sarà compiuta.
La porta si aprì e sulla soglia apparve una figura
completamente nascosta entro l'involucro voluminoso ed informe di uno scafandro
spaziale.
Una voce strana, innaturale ma non del tutto
sgradevole, cominciò a dire: «È con qualche apprensione, uomini della Terra,
che il mio compagno ed io...»
S'interruppe bruscamente nell'istante in cui
Polyorketes, con un vero e proprio muggito, caricò di nuovo, a testa bassa,
come un bisonte infuriato. Stuart venne scaraventato in là con tanta forza che
andò a finire su una delle cuccette, prim'ancora di poter intervenire.
Il Kloro avrebbe potuto, senza sforzo, fermare il
terrestre con la sola pressione delle braccia tese, o farsi semplicemente da
parte, lasciando che quella catapulta umana venisse trascinata via dal proprio
impeto. Ma non fece né una cosa né l'altra. Con gesto rapido, puntò un piccolo
radiodiffusore, e un filo sottilissimo di luce rossa collegò l'arma con il corpo
del terrestre. Polyorketes incespicò e si abbatté sul pavimento, il corpo
ancora inarcato, un piede sollevato a mezz'aria, come colpito da una fulminea
paralisi. Era rotolato su un fianco e rimase in quella posizione, gli occhi
vivi e fiammeggianti di furore.
«Non è leso in modo permanente» disse il Kloro. Non
sembrava risentito per la tentata aggressione. Riprese: «È con qualche
apprensione, uomini della Terra, che il mio compagno e io ci siamo resi conto
di una certa agitazione in questa cabina. Avete per caso qualche necessità che
noi possiamo soddisfare?»
Stuart si stava massaggiando rabbiosamente il
ginocchio, sbucciatosi nell'urto contro la sponda del lettino. «No, grazie,
Kloro» disse.
«Ehi, un momento» proruppe Windham. «Cos'è questo
sopruso di tenerci imprigionati qui dentro? Chiediamo che si provveda al nostro
rilascio.»
La piccola testa da insetto del Kloro si volse in
direzione del vecchio. L'extra-terrestre non aveva certo un aspetto gradevole,
per chi non vi fosse abituato. Alto circa come un terrestre, la parte superiore
del suo corpo era formata da uno stelo sottilissimo, che in cima si dilatava in
una minuscola testa. Questa comprendeva una proboscide triangolare sul davanti
e due occhi laterali, molto sporgenti. Non c'era altro. Né scatola cranica né
cervello. Quello che in un Kloro corrispondeva al cervello umano era situato là
dove un terrestre ha l'addome, per cui la testa non era altro che un semplice
organo sensorio. Lo scafandro kloriano seguiva i contorni della testa con
sufficiente aderenza, e i due occhi erano messi in mostra da due semicerchi di
una sostanza vetrosa, trasparente, che l'atmosfera interna a base di cloro
rendeva verdastra.
Uno degli occhi fissava ora con forza Windham che, pur
sentendosi a disagio sotto quello sguardo disumano, trovò la forza di
insistere. «Non avete nessun diritto di tenerci prigionieri. Noi non siamo
combattenti.»
La voce del Kloro, dal timbro meccanico e artificiale,
proveniva da un piccolo apparecchio di cromo applicato a quello che si poteva definire
il torace della creatura. La cassa sonora era manipolata dai delicatissimi
tentacoli biforcuti che si irradiavano da due cerchi posti nella parte
superiore del corpo e nascosti, per fortuna, dallo scafandro.
«Parli sul serio, terrestre?» disse la voce. «Avrai
pur sentito parlare di guerra e di norme relative ai prigionieri di guerra.»
Si guardava intorno, spostando il capo con rapidi
scatti e fissando ogni oggetto prima con un occhio e poi con l'altro. Stuart
sapeva che ogni occhio trasmetteva un messaggio diverso al cervello addominale,
che doveva poi coordinare le immagini ricevute per avere l'informazione
completa.
Windham non sapeva che cosa rispondere. Nessuno lo
sapeva. Il Kloro, con le sue quattro membra principali - due paia d'arti, l'uno
superiore e l'altro inferiore - aveva un aspetto vagamente umano sotto lo
scafandro, se non lo si guardava più su del torace, ma non c'era modo di capire
come la pensasse.
I prigionieri lo videro voltarsi e uscire.
Porter tossì e disse con voce strozzata: «Dio, che
puzza di cloro! Se non provvedono in qualche modo, qui finiremo tutti con i
polmoni a pezzi.»
«Ma la smetta» disse Stuart. «Non c'è abbastanza
cloro, nell'aria, da far starnutire una zanzara, e quella minima quantità che
vi si trova si dissiperà entro un minuto o due. Senza contare che un po' di
cloro non fa male, anzi: uccide il virus dell'influenza.»
Windham tossì a sua volta. «Stuart» disse, «mi sembra
che avrebbe potuto dire qualcosa al suo amico Kloro, in merito al nostro
rilascio. In loro presenza, non ha neppure la metà della parlantina che tira
fuori appena rimaniamo tra noi.»
«Ha pur sentito che cos'ha detto il Kloro, colonnello.
Noi siamo prigionieri, e in base alle norme di guerra gli scambi di prigionieri
avvengono tramite negoziati diplomatici. Dovremo aspettare.»
Leblanc, che all'entrare del Kloro si era fatto più
bianco di un panno lavato, si alzò e corse in bagno. Gli altri lo sentirono dar
di stomaco.
Un silenzio penoso scese sul gruppo, mentre Stuart
cercava qualcosa da dire per coprire quei rumori sgradevoli. Fu Mullen a
venirgli in aiuto. Stava frugando in una scatoletta che aveva tratto da sotto
il cuscino.
«Forse» disse, «il signor Leblanc dovrebbe prendere un
calmante, prima di coricarsi. Ho ancora qualche pillola. Sarei lieto di
dargliene una.» Spiegò immediatamente il motivo della sua generosità.
«Diversamente, potrebbe tenerci tutti quanti svegli, non vi pare?»
«Più che logico» osservò seccamente Stuart. «E farà
bene a tenerne una anche per il nostro Sir Lancillotto, qui; anzi, teniamone da
parte una mezza dozzina.» Si avvicinò a Polyorketes, sempre disteso al suolo, e
gli si inginocchiò accanto: «Stai comodo, piccolo?».
«Non è di buon gusto parlare così, Stuart» s'indignò
Windham.
«Be', visto che le sta tanto a cuore, perché non si fa
aiutare da Porter a stenderlo sul letto?»
Li aiutò a fare quanto aveva suggerito. Le braccia di
Polyorketes tremavano spasmodicamente, ora. Da quello che Stuart sapeva delle
armi dei Kloro, Polyorketes doveva essere ora in preda a una serie di fitte
acutissime, sparse per tutto il corpo.
«E cercate anche di non essere troppo gentili con lui,
ora» aggiunse. «Quest'idiota poteva farci ammazzare tutti. E a quale scopo?»
Spinse il corpo irrigidito di Polyorketes sull'altro
lato della cuccetta e si sedette sulla sponda. «Mi senti, Polyorketes?»
Gli occhi del contadino scintillarono. Polyorketes
tentò di alzare un braccio ma non vi riuscì; il braccio ricadde sul letto.
«Benissimo, allora stammi a sentire. Non tentare mai
più una cosa del genere. La prossima volta potrebb'essere la fine per tutti
noi. Se tu fossi stato un Kloro e lui un terrestre, a quest'ora saremmo tutti
morti. Perciò, mettiti bene in testa una cosa sola: siamo tutti molto
addolorati per tuo fratello ed è atroce che sia finito così, ma la colpa è
stata sua.»
Polyorketes cercò di sollevarsi, ma Stuart lo
costrinse a rimanere disteso.
«No, devi starmi a sentire, ora. Forse questa è
l'unica volta che possa parlarti mentre sei costretto ad ascoltare. Tuo
fratello ha fatto molto male ad abbandonare l'alloggio dei passeggeri. Non
c'era un solo posto, su questa nave, dove rifugiarsi. È andato a cacciarsi tra
i nostri uomini e i Kloro. Non sappiamo nemmeno con certezza se sia stato un
disintegratore nemico, a ucciderlo. Potrebbe essere stato anche uno dei
nostri.»
«Oh, andiamo, Stuart» protestò il colonnello.
Stuart si voltò di scatto verso Windham. «Ha forse le
prove che non sono stati i nostri? Ha visto per caso sparare il colpo? Può
stabilire, dai resti di quel poveretto, se si trattava di energia kloro o di
energia terrestre?»
Polyorketes ritrovò la voce, mentre la sua lingua
intorpidita farfugliava in tono ringhioso: «Maledetta sporca spia dei verdi!»
«Io, eh?» disse Stuart. «So benissimo quello che ti
passa per la mente Polyorketes. Pensi che, quando la paralisi ti sarà passata,
potrai rifarti un po', dandomele di santa ragione. Bene, ti avverto che, se lo
farai, sarà probabilmente la fine di tutti noi.»
Si alzò e andò ad appoggiarsi con le spalle alla
parete. Per il momento, li aveva tutti contro. «Nessuno di voi conosce i Kloro
come li conosco io. Le differenze fisiche che avete visto, non sono importanti.
Lo sono, invece, le differenze di temperamento. Loro non capiscono, per
esempio, il nostro punto di vista sui rapporti sessuali. Per loro, si tratta di
un riflesso biologico, come respirare. Non danno perciò più importanza alla
cosa di quanta ne meriti. Ma danno invece la massima importanza ai gruppi
sociali. Non dimenticate che i loro progenitori, sotto il profilo
dell'evoluzione biologica, avevano molto in comune con i nostri insetti più
evoluti. Presumono sempre, quando trovano un gruppo di terrestri riuniti, che
questi formino un'unità sociale.
«Per loro, questo rappresenta quanto c'è di più
importante al mondo. Io non capisco esattamente, e nessun altro terrestre
potrebbe capire. Ma il risultato di tale concetto è che i Kloro non dividono
mai un gruppo, così come noi non separiamo una madre dai suoi piccoli, se
appena appena è possibile. Uno dei motivi per i quali ci trattano con tanta
delicatezza è perché sono convinti che siamo sconvolti e disintegrati come
gruppo, dato che hanno ucciso uno di noi: e se ne sentono colpevoli.
«Ma c'è una cosa che dobbiamo sempre tenere presente:
saremo internati e tenuti insieme per tutta la durata della nostra prigionia.
Non è un'idea che mi sorrida molto. Non avrei scelto nessuno di voi come
compagno di prigionia, così come sono convinto che nessuno di voi avrebbe
scelto me. Ma non c'è niente da fare. I Kloro non potranno mai capire che il
nostro trovarci insieme su questa nave è stato puramente accidentale.
«Ragion per cui, dovremo rassegnarci ad andare
d'accordo, in un modo o nell'altro. E intendiamoci, non ve lo dico per ragioni
sentimentali. Sapete che cos'avrebbero fatto, i Kloro, se fossero entrati qui e
avessero trovato Polyorketes e me mentre tentavamo di ammazzarci a vicenda? Voi
che cosa pensereste, che so...?, di una madre sorpresa nell'atto di uccidere i
suoi figli?
«Be', è lo stesso. Ci avrebbero eliminati, uno a uno,
come una manica di pervertiti e di mostri. Avete capito bene? E tu,
Polyorketes, hai capito come stanno le cose? Per cui insultiamoci pure, se
proprio non possiamo farne a meno, ma teniamo le mani a posto. E ora, se
permettete, massaggerò un po' le mie per ridare loro la forma giusta... queste
povere mani sintetiche che mi hanno dato i Kloro, e che uno della mia specie ha
cercato di maciullarmi un'altra volta.»
Per Claude Leblanc, il peggio era passato. Si era
sentito tanto male, per tante ragioni, ma soprattutto per avere avuto la
pessima idea di allontanarsi dalla Terra. Certo, andare a studiare su un altro
pianeta gli era sembrata una cosa bellissima: un'avventura, prima di tutto, e
poi un modo per affrancarsi dal dominio materno. Il primo mese, be', si era
sentito disorientato, ma una volta assuefatto era stato felicissimo di
quell'iniziativa.
Poi, durante le vacanze estive, non si era più sentito
Claude, lo studente timido, ma Leblanc, il viaggiatore spaziale. E come l'aveva
sbandierata, la sua esperienza di viaggiatore. Si era sentito un vero uomo a
poter parlare di stelle, di tragitti interplanetari, di dogane, di ambienti
d'altri mondi; gli aveva dato coraggio anche con Margaret. Lei lo aveva amato e
preso sul serio proprio per i rischi che aveva corso...
Salvo che quello era stato il primo, in realtà, e per
giunta lui l'aveva affrontato malissimo. Lo sapeva, ne aveva vergogna, e avrebbe
dato chissà che cosa per essere come Stuart.
Prese la scusa del pasto per tentare un approccio.
«Signor Stuart?» disse.
Stuart gli lanciò un'occhiata e borbottò: «Come va,
meglio?»
Leblanc si sentì arrossire. Arrossiva facilmente e lo
sforzo di non darlo a vedere lo faceva diventare addirittura paonazzo. «Sì,
molto meglio, grazie» rispose.
«Stiamo mangiando. Ho pensato di portarle la sua razione.»
Stuart prese la scatola che gli veniva offerta. Si
trattava delle solite razioni distribuite a bordo: alimenti sintetici,
concentrati, nutrienti e, in certo qual modo, i più insipidi dell'universo. Si
riscaldavano automaticamente, quando la scatola veniva aperta, ma potevano
essere mangiati anche freddi se necessario. Sebbene un utensile che combinava
in sé la duplice funzione di cucchiaio e di forchetta fosse incluso nella
scatola, la razione era di una consistenza che rendeva l'uso delle dita pratico
e, tutto sommato, anche igienico.
«Ha sentito il mio discorsetto?» domandò Stuart.
«Sì, signor Stuart. Volevo appunto dirle che può
contare su me.»
«Ah, bene. Vada pure a mangiare, ora.»
«Posso rimanere qui?»
«Prego, si accomodi.»
Mangiarono per qualche istante in silenzio. A un
tratto, Leblanc proruppe: «Lei è così sicuro di sé, signor Stuart! Dev'essere
meraviglioso, sentirsi così.»
«Sicuro di me? Grazie della stima, ma se cerca uno
sicuro di sé, eccolo là.»
Leblanc guardò sorpreso nella direzione che l'altro
indicava con un cenno. «Il signor Mullen? Quell'omino? Oh, no!»
«Non le sembra un uomo sicuro di sé?»
Leblanc scosse la testa. Guardò Stuart attentamente,
non sapendo se scherzasse o parlasse sul serio. «Quella è soltanto freddezza,»
disse. «Mullen è incapace di reazione. È come una macchinetta. Per conto mio,
lo trovo repellente. Lei è diverso, signor Stuart. Lei sì, è capace di reagire,
ma sa anche controllarsi. Mi piacerebbe essere come lei.»
Come attratto dall'essere stato nominato, Mullen, che
pure non aveva sentito niente, si avvicinò. La sua razione era quasi intatta.
Dalla scatoletta si levava ancora un po' di vapore, mentre l'omino si
accoccolava di fronte a loro.
La voce di Mullen ricordava il fruscio caratteristico
che si sente tra il fogliame del sottobosco. «Quanto pensa che durerà il
viaggio, signor Stuart?»
«Non saprei, Mullen. Ma non c'è dubbio che i Kloro
eviteranno le solite rotte commerciali e faranno più balzi nell'iperspazio di
quanto sia necessario, per evitare eventuali inseguimenti. Non mi
sorprenderebbe che il viaggio durasse ancora una settimana. Perché vuole
saperlo? Immagino che avrà un motivo logico e pratico, vero?»
«Oh, sì, certo.» L'ometto sembrava ignorare ogni forma
di sarcasmo. «Avevo pensato che potrebb'essere prudente razionare i viveri, per
così dire.»
«Abbiamo cibo e acqua sufficienti per un mese. È la
prima cosa di cui ho voluto assicurarmi.»
«Vedo. In questo caso, posso dare fondo alla mia
scatola.» E così fece, usando con molto garbo la posata multipla e pulendosi
ogni tanto le labbra con il fazzoletto, elegantemente, sebbene non ve ne fosse
bisogno.
Un paio d'ore dopo, Polyorketes riuscì ad alzarsi in
piedi, barcollando. Sembrava uno che si riprenda, dopo una ubriacatura solenne.
Non cercò di avvicinarsi a Stuart, ma parlò da dove si trovava.
«Attento a quello che fai, sporca spia dei verdi.»
«Non hai sentito quello che ti ho detto prima,
Polyorketes?»
«Ho sentito, sì. Ma ho sentito anche quello che hai
detto di Aristides. Non voglio occuparmi di te, perché non sei che una vescica
piena d'aria, che farà rumore. Ma aspetta un po', e vedrai che un giorno o
l'altro la tua aria farà troppo rumore, e troverai chi ti fa scoppiare come un
pallone.»
«Vedremo» disse Stuart.
Windham si fece avanti, zoppicando appoggiato al suo
bastone. «Su, su» esortò, con una sorta di forzata allegria che metteva in
risalto, invece di nasconderla, l'ansia da cui era pervaso. «Siamo tutti figli
della Terra, perdiana! Ricordiamocelo! Questo pensiero dev'essere la luce
ispiratrice di ogni nostro gesto. Mai scendere in basso davanti ai maledetti
Kloro! Dobbiamo dimenticare le nostre rivalità personali e ricordarci soltanto
che siamo dei terrestri, uniti come un sol uomo contro il nemico comune.»
Stuart se ne usci in un commento irriferibile.
Porter si teneva alle spalle del colonnello: i due
erano rimasti in disparte a confabulare per più di un'ora, e ora la voce di
Porter vibrava d'indignazione: «Non giova a nessuno prendere quel tono, Stuart.
Cerchi piuttosto di dare ascolto al colonnello. Windham e io abbiamo studiato a
lungo la situazione.»
«Benissimo, colonnello» disse Stuart. «Che cos'ha
intenzione di fare?»
«Preferirei che ci riunissimo tutti» disse Windham.
«Benissimo, chiami anche gli altri.»
Leblanc accorse subito; Mullen si avvicinò con la
solita calma.
«Vuole anche quello là?» domandò Stuart, accennando
col mento a Polyorketes.
«Sì, certo. Signor Polyorketes, possiamo averla con
noi, caro amico?»
«Oh, lasciatemi in pace.»
«Su, sentiamo» disse Stuart al colonnello. «Lo lasci
perdere. Non ce lo voglio, qui.»
«No e no» protestò Windham. «Questa è una cosa che
riguarda tutti i terrestri. Signor Polyorketes, è necessario che ascolti anche
lei.»
Polyorketes, disteso sulla brandina, si girò su un
fianco. «Sono abbastanza vicino. Sento benissimo anche da qui.»
Windham guardò Stuart. «Pensa che quelli... i Kloro,
voglio dire, abbiano installato un microfono?»
«No» rispose Stuart. «E a che scopo, poi?»
«Ne è sicuro?»
«Sicurissimo. Non sapevano che cosa fosse successo,
quando Polyorketes mi è saltato alla gola. Hanno sentito soltanto il rumore
della colluttazione, ma nient'altro.»
«Forse hanno voluto darci l'impressione che la cabina
non era sotto controllo.»
«Senta, colonnello, non ho mai visto un Kloro mentire
volutamente...»
Polyorketes lo interruppe, calmo calmo. «Quel pallone
pieno d'aria è addirittura innamorato dei Kloro.»
Windham s'intromise immediatamente. «Ora non ricominciamo.
Senta, Stuart, Porter e io abbiamo analizzato la situazione e siamo convinti
che lei conosca i Kloro quanto basta per trovare un modo di tornarcene sulla
Terra.»
«Purtroppo si sbaglia. Non conosco nessun modo per
tornare sulla Terra.»
«Pure dovrebb'esserci un modo che ci permetta di
riprendere la nave a questi maledetti verdi» tornò a insistere Windham.
«Qualche debolezza insita nella loro natura. Insomma, Stuart, sa benissimo
quello che voglio dire.»
«Mi dica, colonnello, che cosa le preme di più? La sua
pelle o gli interessi del nostro pianeta?»
«Considero offensiva questa domanda. Desidero lei
sappia che, mentre mi preoccupo della mia incolumità personale, come è diritto
di tutti, è alla Terra che penso, in primo luogo. E penso che questo valga per
ognuno di noi.»
«Perfetto» disse subito Porter. Leblanc era
preoccupato, Polyorketes risentito, e Mullen si manteneva inespressivo come
sempre.
«Bene» disse Stuart. «Naturalmente, non credo che noi
possiamo riprendere possesso della nave. I Kloro sono armati e noi no. E poi
c'è un'altra cosa. Sapete tutti perché i Kloro hanno catturato questa nave
senza colpirla, vero? Perché hanno bisogno di navi. Come chimici saranno anche
migliori dei terrestri, ma i terrestri sono migliori ingegneri navali. Noi
abbiamo navi più grandi, migliori e più numerose. Anzi, se l'equipaggio di
questa nave avesse tenuto nel rispetto dovuto le norme della strategia
militare, avrebbe fatto saltare in aria la nave non appena si fosse profilato
il pericolo che i Kloro potessero abbordarla.»
Leblanc sembrava inorridito. «Uccidendo così tutti i
passeggeri?»
«E perché no? Ha sentito quello che il nostro
colonnello ha detto un minuto fa? Ognuno di noi deve anteporre gli interessi
del pianeta alla sua piccola esistenza miserabile. Di che utilità siamo sulla
Terra, ora? Nessuna. Mentre questa nave, in mano ai Kloro, sarà probabilmente
causa di danni enormi per i nostri fratelli.»
«Ma allora perché» domandò Mullen, «i nostri uomini
non hanno fatto saltare in aria la nave? Ci sarà stata bene una ragione.»
«Certo. Secondo le tradizioni militari della Terra,
non deve mai esserci uno squilibrio sfavorevole nelle perdite. Se la nostra
nave fosse saltata in aria, venti militari e sette civili sarebbero morti,
mentre le perdite del nostro nemico sarebbero assommate a zero. Per cui, che
cosa si è fatto? Si è lasciato che salissero a bordo, ne abbiamo uccisi
ventotto - non uno di meno, sarei pronto a giurarlo - e abbiamo lasciato che
s'impadronissero della nave.»
«Parole, parole, parole» sbuffò Polyorketes.
«C'è una morale, a tutto questo» disse Stuart. «Non
possiamo riprendere la nave ai Kloro. Ma potremmo riuscire ad attaccarli, e a
tenerli impegnati abbastanza a lungo da permettere a uno di noi di provocare un
corto circuito nei motori.»
«Che cosa?» urlò Porter, e Windham lo zittì,
spaventato.
«Provocare un corto circuito nei motori» ripeté
Stuart. «Si distruggerebbe la nave, naturalmente, ma è quello che noi vogliamo,
no?»
Leblanc aveva le labbra livide. «Non credo che il
piano possa riuscire.»
«Come possiamo dirlo, se prima non tentiamo? E che
cos'avremo da perdere, in fondo, se tentassimo?»
«La vita, la nostra pelle, accidenti!» urlò Porter.
«Fanatico maledetto, pazzo da manicomio che non è altro!»
«Se sono pazzo e fanatico» osservò Stuart, «va da sé
che sono da manicomio. Vorrei farvi notare, però, che se dovessimo rimetterci
la pelle, cosa molto probabile, non toglieremmo niente di prezioso alla Terra;
mentre, se distruggiamo la nave, come potremmo fare con qualche probabilità di
riuscita, faremmo molto bene al nostro pianeta. Quale patriota esiterebbe? Chi di
noi preferirebbe anteporre sé stesso al suo mondo?» Si guardò intorno, in un
silenzio di piombo. «Non certo lei, colonnello Windham.»
Windham venne colto da un accesso di tosse. «Mio caro
giovanotto, non è questo il punto. Il punto è: c'è un modo di salvare la nave
per il nostro pianeta, senza per questo rimetterci la pelle?»
«D'accordo. Lo dica lei, se c'è.»
«Pensiamoci tutti. Al momento, a bordo della nave ci
sono soltanto due Kloro. Se uno di noi potesse portarsi furtivamente alle loro
spalle e attaccarli...»
«E come? Il resto della nave è immerso in un'atmosfera
di cloro. Dovremmo indossare le tute spaziali. E la gravità, nella parte della
nave occupata da loro, è stata portata ai valori cui sono abituati, per cui
quello di noi che dovesse avere a che fare con loro dovrebbe trascinarsi
lentamente, pesantissimo, strisciando sul pavimento. Una cosa da niente, per
chi dovesse attaccarli di sorpresa, giocando di astuzia e di... agilità.»
«E allora bisognerà abbandonare l'idea.» A Porter
tremava la voce. «Stia a sentire, Windham, non si parli neppure di distruggere
la nave. Io alla vita ci tengo, e molto! Se c'è qualcuno di voi deciso a
tentare colpi di testa, chiamerò i Kloro: siete avvertiti tutti!»
«Bene» disse Stuart, «ecco qui l'eroe numero uno.»
«Io voglio tornarmene sulla Terra» disse Leblanc, «ma
non vedo...»
«Non credo» lo interruppe Mullen, «che ci siano molte
probabilità di riuscire a distruggere la nave, a meno che...»
«Ed ecco gli eroi numero due e tre» disse Stuart. «E
tu, Polyorketes? Avresti una buona ccasione per ammazzare due Kloro.»
«Io voglio ammazzarli con le mie stesse mani» ruggì il
contadino, agitando freneticamente i pugni. «Sul loro pianeta li farò fuori a
dozzine.»
«Ecco un bel progettino, che per ora non costa niente.
E lei, colonnello? Non vuole marciare con me verso la morte e la gloria?»
«Parla con un cinismo e un'arroganza riprovevoli,
Stuart. Il fatto è che, se gli altri non sono disposti ad agire, il suo piano
rimarrà lettera morta.»
«A meno che non cerchi di metterlo in esecuzione io,
eh?»
«Lei non muoverà un dito, intesi?» scattò
immediatamente Porter.
«Certo che non lo muoverò» lo tranquillizzò Stuart.
«Non ho mai preteso di passare per un eroe, io. Sono un patriota di mezza
tacca, più che disposto a far rotta per il primo pianeta dove mi si voglia
portare, ad aspettare in pace che la guerra sia finita.»
Fu Mullen a rompere il silenzio. «Volendo» disse,
pensosamente, «il modo di cogliere di sorpresa i Kloro ci sarebbe.» Stuart,
alzando gli occhi sull'ometto, vide che Mullen si rivolgeva proprio a lui.
«Potremmo attaccare i Kloro dall'esterno. Anche questa cabina, ne sono sicuro,
deve avere il Condotto "C".»
«Cosa sarebbe il Condotto "C"?» domandò
Leblanc.
«Be', si tratta» cominciò a dire Mullen, e non ebbe il
coraggio di continuare.
Stuart disse, sogghignando: «È il solito eufemismo,
ragazzo mio. La denominazione completa è: Condotto per Cadaveri. È un argomento
sul quale si tace, in genere, ma tutte le astronavi ne hanno uno, nella cabina
principale. Sono piccole camere di decompressione automatiche, nelle quali si
lascia scivolare il cadavere, quando c'è un morto a bordo. Sepoltura nello
spazio. Atmosfera solenne, di circostanza, e il capitano che fa un bel
discorso, di quelli che a Polyorketes non piacciono.»
Leblanc fece una smorfia. «Dovremmo servirci di quello,
per lasciare la nave?»
«Perché no? Superstizioso?... Continui, Mullen.»
L'ometto stava aspettando, pazientemente, di
riprendere la parola. «Una volta all'esterno, si potrebbe rientrare
nell'astronave attraverso i tubi di scarico del vapore. È una cosa che si può
fare... con un po' di fortuna. E se si riesce, si arriva inaspettati nella
cabina di comando.»
Stuart lo fissava, incuriosito. «Scusi ma... come ci
ha pensato? Che cosa ne sa, lei, di tubi di scarico del vapore?»
Mullen si schiarì la gola. «Perché sono impiegato in
una fabbrica di scatole, dice? Vede...» Arrossì, prese tempo, poi ricominciò a
parlare con voce distaccata e incolore. «La mia ditta, che fabbrica scatole per
dolci e contenitori fantasia, aveva ideato, tempo fa, una scatola di dolciumi a
forma di nave spaziale destinata ai consumatori più giovani. Mediante un
sistema di sfiatatoi ad aria compressa, appena si scioglieva la cordicella che
la legava, la scatola saltava per aria e si metteva a svolazzare per la stanza,
sparpagliando dolci qua e là. In teoria, i ragazzi, oltre a divertirsi a
giocare con la nave, avrebbero fatto a gara a raccattare i dolciumi.
«In pratica, fu un fallimento completo. La
scatola-astronave rompeva piatti e finiva di solito negli occhi di qualcuno. E
i ragazzi, invece di divertirsi a raccattare caramelle e cioccolatini, si
prendevano a pugni, aumentando il disastro. Fu la peggiore idea commerciale che
si potesse avere, e costò alla mia ditta molti milioni.
«Tuttavia, la fase sperimentale, diremo così, aveva
creato negli uffici commerciali della ditta un grande entusiasmo per la tecnica
astronautica. Per un po', diventammo tutti specialisti della propulsione
spaziale mediante getti di vapore. Ricordo d'aver letto io stesso molti
trattati sull'argomento. Ma a casa, intendiamoci, non nelle ore d'ufficio.»
Stuart sembrava affascinato. «Sa» disse, «sembra una
cosa presa a prestito da un romanzo di fantascienza, ma è un'idea che potrebbe
funzionare, se soltanto avessimo a disposizione il solito eroe superuomo. Ma...
l'abbiamo?»
«Perché non si fa avanti lei?» scattò subito Porter,
risentito. «Non fa che prenderci in giro, con le sue frecciate maligne. Però di
offrirsi volontario si guarda bene, ho notato.»
«Proprio perché non sono un eroe, Porter. Lo ammetto.
Il mio scopo è di restare vivo e vegeto, e strisciare giù per gli sfiatatoi a
vapore non è il sistema migliore per vivere a lungo. Ma voialtri siete tutti
patrioti ardenti. Il colonnello dice di esserlo. Vero, colonnello? Lei è l'eroe
capo, qui.»
«Se fossi più giovane, per la miseria» disse Windham,
«e se lei avesse le mani, Stuart, sarebbe per me un raffinato piacere torcerle
il collo e farle ingoiare il suo sarcasmo.»
«Non ne dubito, ma questa non è una risposta.»
«Sa benissimo che, alla mia età e con una gamba in
queste condizioni...» batté la mano aperta sul ginocchio rigido, «... non sono
in grado di fare niente di tutto questo, anche se lo vorrei.»
«Eh, sì» disse Stuart, «e anch'io, con le mie povere
mani, sono soltanto uno storpio, come mi ha fatto notare Polyorketes. Noi due,
perciò, siamo da escludere. E il resto dei presenti, da quali malaugurate
infermità è afflitto?»
«Sentite un po'» interruppe Porter, «intendo capirci
qualcosa di tutta questa faccenda. Come si fa a infilarsi dentro quei tubi di
scappamento? E se poi i Kloro li usano proprio mentre c'è dentro uno di noi?»
«Eh, caro Porter, quello è il coefficiente di rischio,
per così dire. Sta tutto lì, il bello dell'avventura.»
«Ma si va a rischio di venire lessati con tutto il
guscio, come un'aragosta.»
«L'immagine è pittoresca, ma non è esatta.
Innanzitutto, il vapore avvolgerebbe il malcapitato per un secondo o due, al
massimo, e il tessuto isolante della tuta lo difenderebbe a dovere, per un così
breve spazio di tempo. Ma il vapore, vede, viene lanciato negli sfiatatoi a una
velocità di molte centinaia di miglia al minuto, per cui lei, mettiamo,
verrebbe scagliato fuori dalla nave prim'ancora di sentirne il calore. Anzi,
verrebbe scaraventato molti chilometri lontano, nello spazio, dopo di che non
avrebbe più niente da temere, da parte dei Kloro; in compenso, non potrebbe
nemmeno ritornare sull'astronave.»
Porter sudava freddo. «Non s'illuda di spaventarmi,
Stuart.»
«No? Allora ha deciso di offrirsi come volontario? È
sicuro d'avere capito bene che cosa significa trovarsi alla deriva nello spazio
interstellare? Significa essere soli, capisce; assolutamente soli. Il getto di
vapore le avrà probabilmente impresso un movimento rotatorio, a capriola; ma
lei non se ne accorgerà: le sembrerà di essere completamente immobile. Ma le
stelle intorno a lei gireranno, gireranno, tanto che per lei non saranno che
strisce di luce. E non si fermeranno mai. Non rallenteranno nemmeno. Poi, il
suo radiatore cesserà di emanare calore, la riserva di ossigeno si esaurirà e
lei morirà, con estrema lentezza. Avrà tutto il tempo di pensare. Oppure, se
deciderà di farla finita alla svelta, potrà aprire la tuta. Neppure questo sarà
piacevole, intendiamoci. Ho visto facce di individui ai quali, per disgrazia,
si era lacerata la tuta mentre si trovavano nello spazio, e le assicuro che non
erano belle da vedere. Ma, se non altro, sarebbe una fine più rapida, e...»
Porter gli voltò le spalle e si allontanò con passo
malfermo.
Allegramente, Stuart commentò: «Un'altra defezione.
L'atto di eroismo è qui che aspetta d'essere aggiudicato al miglior offerente,
ma a quanto pare nessuno si lascia tentare.»
Polyorketes volle dire la sua, e la voce rozza rendeva
le parole ancora più volgari. «Continua pure a blaterare, Signor Linguacciuto.
Continua pure, a battere sul tamburo. Quando meno te l'aspetti, troverai chi ti
farà ingoiare i denti. Conosco un tale che muore dalla voglia di farlo, eh,
signor Porter?»
L'occhiata che Porter lanciò a Stuart confermò la
verità delle osservazioni di Polyorketes, ma non venne accompagnata da alcun
commento.
«Oh, a proposito, Polyorketes» disse Stuart. «Mi stavo
dimenticando di te! Tu sei quello che ammazza a mani nude, appena si presenta
l'occasione. Vuoi che ti aiuti a entrare dentro una tuta spaziale?»
«Quando vorrò il tuo aiuto, te lo farò sapere.»
«E lei, Leblanc?»
Il giovane si ritrasse, inorridito.
«Nemmeno per tornare da Margaret?»
Ma Leblanc poté soltanto scuotere la testa.
«Mullen?»
«Be'... tenterò io.»
«Cosa farà?»
«Ho detto di sì, che farò il tentativo. L'idea è mia,
alla fin fine.»
Stuart sembrava sinceramente sbalordito. «Dice sul
serio? E come mai si è offerto?»
Mullen sporse le labbra in una smorfia. «Visto che
nessun altro se la sente...»
«Ma non è una ragione. Specie per lei.»
Mullen si strinse nelle spalle.
Stuart udì dietro di sé il battere di una mazza sul
pavimento. Poi, si sentì spingere in là da Windham.
«Davvero è deciso ad andare, Mullen?» domandò il
colonnello.
«Sì, certo.»
«In questo caso, per Giove, mi permetta di stringerle
la mano. Lei mi piace. È un vero... un vero terrestre! La fortuna l'accompagni
e, che lei vinca o che muoia, ci sarò io a testimoniare del suo valore!»
Mullen ritirò la mano, un po' impacciato, dalla
stretta sentita e vibrante dell'altro.
E Stuart rimase là, a guardare. Si trovava in una
situazione veramente insolita, per lui: così insolita, anzi, come mai gli era
capitato in vita sua. Non aveva niente da dire.
La tensione era di tutt’altra natura, ora. Lo sconforto
e l’abbattimento erano passati, e al loro posto era subentrataun'ansia
febbrile, da cospiratori. Perfino Polyorketes esaminava le tute spaziali,
facendo brevi e rauchi commenti su quella che gli sembrava la più adatta.
Mullen era alle prese con le prime difficoltà. La tuta
gli pendeva addosso come un sacco, e sì che era stata stretta al massimo in
tutti i punti dov'era possibile regolarla. Ora stava là, ad aspettare che gli
avvitassero il casco. Tirava il collo, ogni tanto, come se si sentisse
soffocare.
Stuart reggeva il casco con un certo sforzo. Era
pesante, e le sue mani di plastica facevano fatica a reggerlo. «Si gratti pure
il naso, se le prude. Dopo non potrà più farlo, per un po' di tempo.» Non
aggiunse: "Forse in eterno" ma lo pensò.
Mullen osservò, con voce incolore: «Forse sarà meglio
che prenda con me un serbatoio d'ossigeno di scorta.»
«Ottima idea.»
«Con una valvola di riduzione.»
Stuart assentiva. «Sì, capisco a che cosa sta
pensando. Se mai venisse scagliato lontano dalla nave, potrebbe tentare di
riavvicinarsi, usando il serbatoio come motore a reazione.»
Gli avvitarono il casco e gli agganciarono alla vita
il serbatoio supplementare di ossigeno. Polyorketes e Leblanc lo sollevarono
fino all'apertura sbadigliante del Condotto "C". L'interno era
paurosamente buio, dato che le pareti metalliche del condotto erano state
verniciate di nero. Stuart aveva l'impressione che l'interno emanasse un odore
di putrido, ma sapeva benissimo che era soltanto frutto della sua fantasia.
Fermò l'operazione di calo, quando Mullen era già per
metà dentro il tubo, per battere sulla visiera trasparente del casco.
«Mi sente?»
Dall'interno, arrivò un cenno d'assenso.
«L'aria filtra normalmente? Nessun inconveniente
dell'ultimo minuto?»
Mullen sollevò il braccio rivestito di plastica in un
gesto che voleva essere rassicurante.
«Allora mi raccomando, una volta fuori non usi la radio
della tuta. I Kloro potrebbero captare i segnali.»
A malincuore, Stuart si trasse indietro. Poi, le mani
abbronzate di Polyorketes ripresero a calare Mullen, finché si sentirono le
suole metalliche risonare contro la porta esterna del compartimento stagno.
Poi, quella interna prese a chiudersi con un movimento implacabile, definitivo,
finché, con una sorta di sibilo sordo, il portello di silicone rientrò tra le
sue scanalature. I morsetti vennero rimandati a posto.
Stuart stava davanti al quadro di controllo della
valvola esterna. Azionò una leva e il manometro che indicava la pressione
dell'aria all'interno del tubo, scese a zero. Un puntino di luce rossa si
accese all'improvviso, avvertendo che la valvola esterna era aperta. Poi la
luce si spense, la valvola si richiuse e la lancetta del manometro risalì
lentamente verso le quindici libbre.
Riaprirono il portello dalla parte interna e videro
che il condotto era vuoto.
Il primo a parlare fu Polyorketes. «Quel piccolo
tanghero, chi se lo sarebbe immaginato! È andato davvero!» Guardava gli altri,
quasi incredulo. «Un ometto da niente, pensate che fegato!»
«Sentite, sarà bene che ci teniamo pronti, qui dentro.
Non è escluso che i Kloro si siano accorti dell'apertura e della chiusura dei
due portelli. In tal caso verranno subito qui, a indagare, e noi dovremo
cercare di tenere nascosta la cosa.»
«In che modo?» domandò
Windham.
«Noteranno l'assenza di Mullen. Diremo che è andato al
gabinetto. I Kloro sanno che è una delle caratteristiche dei terrestri quella
di esigere la massima discrezione quando si tratta di necessità del genere, e
non si prenderanno la briga di controllare. Se riusciamo a trattenerli fino
a...»
«Già, ma... e se decidessero di aspettare, o se si
mettessero a contare le tute?» obiettò Porter.
Stuart allargò le braccia. «Speriamo di no. E mi
raccomando, Polyorketes, cerca di non commettere imprudenze, nel caso i Kloro
venissero qui.»
«Con quell'ometto là fuori?» borbottò Polyorketes. «Ma
per chi mi hai preso?» Fissò Stuart senza alcuna animosità, poi si grattò
vigorosamente la testa ricciuta. «Sai, me la ridevo di lui. Lo credevo proprio
una donnetta. Ora me ne vergogno.»
Stuart si schiarì la voce. «Senti, ho detto cose che
non erano poi tanto spiritose, ora che ci penso. Ecco, vorrei dirti che me ne
dispiace, sinceramente.»
Si girò, con fare irsuto, e si allontanò verso la sua
cuccetta. Udì dei passi dietro di sé, si sentì toccare la manica. Si voltò: era
Leblanc.
Il ragazzo disse a bassa voce: «Continuo a pensare che
Mullen è un uomo d'età, in fondo.»
«Per lo meno, non è più un bambino. Avrà i suoi
quarantacinque o cinquant'anni.»
«Signor Stuart» disse Leblanc, «pensa che avrei dovuto
andare io, al posto suo? Sono il più giovane, qui. Non mi va l'idea d'aver
lasciato andare un vecchio al posto mio. Mi fa sentire un verme.»
«Lo so. Se dovesse morire, non potremo mai
perdonarcelo.»
«Ma si è offerto lui di andare. Non siamo stati noi a
costringerlo, vero?»
«Non cercare di scaricarti delle responsabilità,
Leblanc. Non ti darà il minimo sollievo. Non c'è nessuno, qui tra noi, che non
avesse motivi più seri dei suoi per andare.» E Stuart, seduto là sul suo letto,
si chiuse nel silenzio, a meditare.
Mullen sentì il portello sotto di lui aprirsi e le
pareti tutt'intorno scivolar via rapidamente, troppo rapidamente. Capì che era
l'aria a trascinarlo con sé, nello sfuggire dal condotto, e puntò
disperatamente braccia e gambe contro le pareti, per frenarsi. Il condotto era
studiato in modo che i cadaveri venissero scagliati il più lontano possibile
dalla nave, ma lui non era un cadavere... almeno per il momento.
I suoi piedi incontrarono il vuoto e si misero a
scalciare. Udì il rumore sordo di uno scarpone magnetico contro lo scafo,
mentre il resto del suo corpo schizzava fuori, come un tappo da una bottiglia
di spumante. Barcollò paurosamente sull'orlo del compartimento - si era
improvvisamente capovolto, e ora si trovava a fissare quella buca ai suoi piedi
- poi fece un passo indietro perché già il portello stava per richiudersi
automaticamente, fino a combaciare in modo perfetto con la superficie esterna
della nave.
Era sopraffatto da un senso di irrealtà. Non era
possibile, non era lui a starsene ritto sopra la superficie esterna di
un'astronave. No che non era lui, Randolph F. Mullen. Erano pochissimi gli
esseri umani che potevano dire d'essersi trovati in una situazione del genere,
perfino tra quelli che attraversavano continuamente gli spazi cosmici.
A poco a poco, si rendeva conto d'essere tutto
indolenzito. A schizzar fuori così da quel buco mentre, con un piede, era
praticamente incollato allo scafo, per poco non si era spezzato in due. Tentò
di muoversi, con precauzione, e scoprì che i suoi movimenti erano dissociati e
quasi impossibili da controllare. Non c'era niente di rotto, o almeno non
sembrava, ma i muscoli del lato sinistro avevano subìto un brutto stiramento.
Infine ritrovò la padronanza di sé e notò che le luci
dei polsi della tuta erano accese. Appunto grazie a quelle luci aveva potuto
guardare dentro le tenebre del Condotto "C". Trasalì, innervosito, al
pensiero che i Kloro potessero scorgere quelle due luci gemelle che si
muovevano proprio rasente all'astronave. Poi, si affrettò a far scattare
l'interruttore che si trovava nella parte centrale della tuta.
Mullen non avrebbe mai immaginato che, standosene
ritto all'esterno di un'astronave, non sarebbe riuscito a vederne lo scafo. Ma
il buio era totale, in basso come in alto. C'erano le stelle, piccoli punti
brillanti, senza dimensione. E nient'altro. Niente altro da nessuna parte.
Sotto di lui, nemmeno le stelle... nemmeno i suoi stessi piedi!
Gettò il capo all'indietro per vedere le stelle. La
testa gli girava. Si movevano lentamente. O meglio, le stelle stavano ferme ed
era la nave che ruotava, ma per i suoi occhi era esattamente l'inverso. Erano
le stelle a spostarsi. Provò a seguirle con lo sguardo... scendevano fino a
sparire dietro la nave. Nuove stelle sorgevano e salivano dal lato opposto. Un
orizzonte nero. La nave esisteva soltanto come una zona in cui non vi erano
stelle.
Eppure una c'era, sì, quasi ai suoi piedi. Fece quasi
il gesto di chinarsi a toccarla; poi, si rese conto che si trattava di un
semplice riflesso scintillante nel metallo lucido come uno specchio.
Si movevano a migliaia di chilometri all'ora. Le
stelle. L'astronave. Lui. Ma tutto questo non aveva alcun significato. Per i
suoi sensi, c'era soltanto oscurità, silenzio, e quel lento ruotare delle
stelle. I suoi occhi seguivano incantati quel lento ruotare...
E la sua testa, chiusa nel casco, urtò contro lo scafo
con un rintocco smorzato, simile a quello di una campana.
Tastò attorno a sé, in preda al panico, con i grossi
guanti insensibili. I suoi piedi erano ancorati fermamente allo scafo dalle
piastre magnetiche, ma il resto del corpo, dalle ginocchia in su, era piegato
all'indietro ad angolo retto. Non c'era la gravità, all'esterno della nave. Se
uno si piegava all'indietro, non c'era niente ad attirare verso il basso la
parte superiore del busto e ad avvertire le giunture che si stavano piegando.
Il corpo stava così, come uno lo metteva.
Mullen si diede disperatamente la spinta,
puntellandosi contro lo scafo, e subito il busto schizzò verso l'alto e, una volta
ritto, rifiutò di fermarsi. Mullen si sentì cadere in avanti.
Ritentò, stavolta più lentamente, puntando le mani
contro lo scafo per ritrovare l'equilibrio e riuscendo, alla fine, a mettersi
acquattato. Cominciò allora a tirarsi su. Piano piano, con le braccia stese in
fuori per bilanciarsi.
Ecco, era ritto, ma in preda a un senso di nausea e di
capogiro. Si guardò attorno. Santo Dio, dov'erano gli sfiatatoi del vapore? Non
riusciva a vederli. Erano nero su nero, il niente sul niente.
Si affrettò ad accendere le luci dei polsi. Nello
spazio, non c'erano raggi luminosi, le luci erano soltanto chiazze ellittiche e
ben definite di un chiarore azzurro acciaio, che ammiccavano verso di lui. Là
dove investivano una saldatura, si vedeva soltanto un'ombra breve, tagliente e
nera come lo spazio, e la zona era illuminata da una luce cruda, senza
diffusione.
Mullen mosse le braccia e il suo corpo oscillò
dolcemente nella direzione opposta: azione e reazione. La visione di un tubo di
sfiatamento, dalle pareti lisce e cilindriche, gli balzò incontro.
Tentò di muoversi a quella volta. Il suo piede aderiva
saldamente allo scafo. Mullen tirò, e il piede cominciò a cedere, lottando
contro una viscosità tenace, da sabbie mobili. Su, su, per un palmo, ed ecco,
il piede si era quasi liberato di quel risucchio; un altro palmo, e Mullen
provò la sensazione che il piede gli volasse via.
Lo spinse in avanti e lo lasciò ricadere, lo sentì
sprofondare di nuovo nelle sabbie mobili. Poi, arrivata a cinque centimetri
dallo scafo, la suola, sfuggendo al controllo, venne attirata all'ingiù e si
stampò sulla piastra metallica. La tuta spaziale trasmise a Mullen le
vibrazioni prodotte dall'urto, amplificandole.
Lui si arrestò, paralizzato dal terrore. I
disidratatori che eliminavano l'eccesso di umidità all'interno della tuta non
riuscirono ad assorbire l'improvviso fiotto di sudore che gli inzuppava la
fronte e le ascelle.
Aspettò, poi tentò nuovamente di sollevare il piede:
di due soli centimetri, tenendolo sospeso con tutte le sue forze e spostandolo
in senso orizzontale. Il moto in senso orizzontale non comportava alcuno
sforzo; era perpendicolare alle linee di forza magnetica. Ma bisognava tenere
il piede in tensione, per impedirgli di farsi tirar giù di colpo, e poi calarlo
con molta lentezza.
Ansimava per la fatica. Ogni passo era una tortura. I
tendini delle ginocchia gli scricchiolavano e aveva l'impressione d'avere dei
coltelli piantati nei fianchi.
Si fermò, per dar tempo al sudore di asciugarsi. Non
era prudente lasciare che la visiera del casco si appannasse. Riaccese le luci
dei polsi e vide che lo sfiatatoio era a un passo da lui.
La nave ne aveva quattro, a intervalli di novanta
gradi: sporgevano dalla fascia mediana, formando un angolo. Erano i
"normalizzatori di rotta" dell'astronave. La forza di propulsione
vera e propria era rappresentata dai potenti getti di prua e di poppa, che
stabilivano la velocità desiderata mediante la loro forza di accelerazione e di
decelerazione, nonché dal motore iperatomico, che entrava in funzione quando
l'astronave doveva compiere un balzo nello spazio.
Ma la rotta, di tanto in tanto, doveva essere corretta
lievemente, e allora entravano in azione i getti a vapore. Ogni getto poteva,
isolatamente, innalzare o abbassare l'astronave, spostarla a destra o a
sinistra. A coppie, dosando proporzionalmente la spinta, potevano far compiere
alla nave qualsiasi manovra.
Da secoli, il sistema non aveva subito modifiche,
essendo troppo semplice per essere perfezionato. La pila atomica riscaldava
l'acqua contenuta in un apposito serbatoio, trasformandola in vapore e portando
poi il vapore, in meno d'un secondo, a temperature che ne provocavano la
scissione in idrogeno e ossigeno e, infine, lo trasformavano in un miscuglio di
elettroni e di ioni. Nessuno si era mai preso la briga di controllare se la
scissione avvenisse davvero; il sistema funzionava e, in fondo, l'essenziale
era questo.
Al punto critico, una valvola di sicurezza cedeva e il
vapore si lanciava fuori a velocità folle, con uno sbuffo breve ma di una
potenza incredibile. E l'astronave, sotto la spinta inesorabile, cambiava
maestosamente direzione, girando attorno al proprio centro di gravità. Quando
il numero di gradi necessari era stato raggiunto, veniva lanciato un getto
uguale e opposto, e il movimento di rotazione si arrestava. L'astronave
continuava il suo viaggio alla velocità originaria, ma in una nuova direzione.
Mullen era riuscito ormai a trascinarsi sull'orlo
dello sfiatatoio. Si vide, macchiolina scura, oscillare paurosamente
all'estremità di una struttura sporgente da uno scafo ovoidale lanciato nello
spazio a quindicimila chilometri al secondo.
Ma non c'era nessuna corrente che tendesse a
strapparlo via dallo scafo, e le suole magnetiche lo tenevano ancorato alla
nave ancor più saldamente di quanto desiderasse.
Con le luci accese, si chinò a scrutare dentro il tubo
e, avendo mutato il suo orientamento visivo, provò l'impressione che la nave
gli sfuggisse di sotto. Tese un braccio, per aggrapparsi istintivamente a
qualcosa, ma non stava cadendo. Non c'era alto e basso, nello spazio; c'erano
soltanto le impressioni errate della sua mente confusa.
Il cilindro era largo a sufficienza per contenere un
uomo, e questo per consentire i lavori di manutenzione. Le luci misero in
mostra le intaccature proprio di fronte al punto in cui egli si trovava, presso
l'orlo della cavità. Con quel po' di fiato che gli restava, Mullen trasse un
sospiro di sollievo. Molte astronavi non avevano scalette, all'interno degli
sfiatatoi.
Vi si diresse lentamente, mentre la nave sembrava
scivolare e torcersi sotto di lui, ad ogni suo movimento. Sollevò un braccio oltre
l'orlo dello sfiatatoio, cercando il primo scalino a tentoni; sollevò prima un
piede, poi l'altro, e si issò nell'interno.
Il nodo allo stomaco che l'aveva tormentato fin dal
principio divenne ora uno spasimo quasi insostenibile. E se avessero deciso
proprio ora di modificare la rotta, e il vapore fosse esploso all'improvviso,
sibilando...?
Lui non avrebbe fatto in tempo né a vederlo né ad
accorgersene. Un istante prima sarebbe stato appeso a un gradino, brancolando
lentamente con un braccio per trovare il piolo superiore; l'istante dopo si
sarebbe ritrovato solo nello spazio, la nave una nera, indistinguibile nullità
perduta per sempre tra le stelle. Vi sarebbe stata, forse, una girandola
effimera di cristalli di ghiaccio roteanti, lanciati nello spazio insieme a lui
e scintillanti nella luce che aveva ai polsi; cristalli che, lentamente, gli si
sarebbero avvicinati con progressivo modo rotatorio, attratti dalla sua massa
come microscopici pianeti attorno a un sole assurdamente piccolo e freddo.
Ecco che ricominciava a sudare, e per di più la sete
cominciava a torturarlo. Decise risolutamente di non pensarci. Non c'era
speranza di bere se non quando fosse uscito dalla tuta... ammesso che ne fosse
uscito.
Un piolo; poi un altro; un altro ancora. Quanti erano?
La mano gli scivolò ed egli si accorse di fissare, incredulo, lo scintillio che
tremolava sotto la sua luce.
Ghiaccio?
Perché no? Il vapore, per bollente che potesse essere,
nell'uscire veniva a contatto con il metallo la cui temperatura era prossima
allo zero assoluto. Nella frazione di secondo in cui durava il getto, il
metallo non aveva il tempo di riscaldarsi oltre il punto di congelamento
dell'acqua. Si formava perciò uno strato di ghiaccio, che poi si dissolveva
lentamente nel vuoto assoluto. Era la velocità con cui si produceva il getto di
vapore a impedire che i tubi e la stessa caldaia si fondessero per il calore.
La sua mano brancolante trovò finalmente l'ultimo
scalino. Mullen tornò ad accendere le luci delle maniche e fissò, con orrore
crescente, il tubo di sbocco dello sfiatatoio vero e proprio, dal diametro di
un centimetro o poco più. Visto così sembrava freddo, inerte; ma era l'aspetto
che aveva sempre, fino a un microsecondo prima del getto...
Attorno ad esso c'era il portello di chiusura esterna,
che girava su di un perno montato su molle dal lato esterno e su vite da quello
interno. Le molle gli permettevano di cedere al primo urto irresistibile della
pressione del vapore, prima che la gigantesca forza d'inerzia della nave potesse
essere vinta. Il vapore veniva fatto passare nella camera interna in modo da
spezzare la forza dell'urto, lasciando immutata l'energia totale ma graduandola
nel tempo, così da eliminare il pericolo che nello scafo potesse aprirsi una
falla.
Mullen si puntellò contro uno scalino e fece
energicamente forza contro il portello esterno, tanto che quello cedette un
poco. Era durissimo, ma non occorreva che cedesse molto; solo quel tanto che
bastava a ingranare la vite. Sentì che ingranava, infatti.
Spinse ancora con tutta la forza e la girò, sentendo
il proprio corpo torcersi nella direzione opposta. Ecco, ora teneva, la vite
assorbiva lo sforzo e lui poteva azionare con cura la piccola manopola di
controllo che liberava le molle. Come si ricordava bene di quello che aveva
letto nei manuali, per divertimento!
Era nel compartimento tra le due valvole, ora, uno
spazio abbastanza largo da ospitare un uomo comodamente, sempre per ragioni di
manutenzione. Non rischiava più di venire scaraventato lontano dalla nave. Se
il getto fosse stato aperto ora, l'avrebbe semplicemente spinto contro il
portello interno del compartimento... con una violenza tale da ridurlo in
poltiglia. Una morte così rapida da non dargli nemmeno il tempo di
accorgersene.
Lentamente, si sganciò dalla cintura il serbatoio di
scorta. C'era soltanto il portello interno, ora, tra lui e la cabina di
comando. Quel portello si apriva verso l'esterno, rispetto alla cabina,
affinché il getto di vapore potesse al massimo chiuderlo ancora di più, anziché
rischiare di spalancarlo. E combaciava in modo perfetto. Non c'era
assolutamente modo di aprirlo dall'esterno.
Si sollevò al di sopra del portello, spingendo forte
con la schiena incurvata contro la superficie interna del compartimento.
Respirare, in quella posizione, gli era difficile. Il serbatoio d'ossigeno di
scorta gli pendeva dalla cintola con una strana inclinazione. Mullen afferrò il
cannello a due mani e lo raddrizzò, puntandolo contro il portello interno e
bombardandolo con un getto di ossigeno, così da farlo vibrare. Ancora...
ancora...
Doveva assolutamente attirare l'attenzione dei Kloro.
Prima o poi, sarebbero stati costretti a indagare su quel rumore.
Mullen non avrebbe avuto modo di capire quando un
fatto del genere si sarebbe verificato. In circostanze normali, prima di aprire
il portello interno veniva immessa aria nel compartimento, per chiudere
ermeticamente quello esterno. Ma ora il portello esterno era avvitato al perno
centrale e ben discosto dal suo orlo. L'aria sarebbe stata risucchiata fuori,
perdendosi nello spazio.
Mullen continuò a dirigere il getto sul portello.
Chissà se i Kloro, osservando il manometro dell'aria, si sarebbero accorti che
segnava ben poco al di sopra dello zero, o se avrebbero preso per scontato che
tutto andava bene?
«Ormai è assente da un'ora e mezzo» disse Porter.
«Lo so» mormorò Stuart.
Erano tutti in uno stato di estrema tensione,
sussultavano per un nonnulla, ma ogni rancore tra loro era scomparso. Era come
se tutte le loro capacità emotive fossero orientate verso lo scafo della nave.
Porter era perplesso. Aveva sempre avuto una
concezione della vita molto semplice: bada a te stesso, perché nessun altro lo
farà. Lo sconvolgeva vedere la sua filosofia distrutta dai fatti.
«Crede che l'abbiano preso?» domandò.
«Se così fosse, a quest'ora lo sapremmo» rispose
Stuart, sbrigativo.
Porter si era accorto che gli altri poco ci tenevano a
parlare con lui, e questo lo avviliva, anche se poteva capirlo: non aveva fatto
molto per meritarsi il loro rispetto. Per il momento, la sua mente era sommersa
da un torrente di autogiustificazioni. Anche gli altri avevano avuto paura, non
solo lui. E un uomo aveva diritto, in fondo, d'avere paura. Non piace a
nessuno, rimetterci la pelle. Lui, se non altro, non aveva perso la testa come
Aristides Polyorketes. Non si era messo a piangere, come Leblanc. Non...
Ma c'era Mullen, là fuori sullo scafo.
«Sentite, voialtri» gridò, «perché l'ha fatto?» Si
girarono tutti a guardarlo, senza capire, ma Porter non se ne curò. Era
talmente disorientato che doveva cercare di comprendere. «Voglio sapere perché
Mullen sta rischiando la vita.»
«Mullen» disse Windham, «è un patriota...»
«Macché, non è così!» Porter era sull'orlo di una
crisi isterica. «Quell'ometto non è tipo da agire per dei sentimentalismi. Ha
delle ragioni concrete, e io voglio sapere quali sono, queste ragioni,
perché...»
Non finì la frase. Poteva forse dire che, se quelle
ragioni erano valide per un piccolo ragioniere di mezz'età, tanto più valide
dovevano esserlo per lui?
«Perché è un omino coraggioso» disse Polyorketes.
Porter si alzò di scatto. «Sentite» disse. «Può darsi
che sia nei guai, là fuori. Qualsiasi cosa stia facendo, può darsi che da solo
non sia in grado di portarla a termine. Io... mi offro volontario per andare a
dargli una mano.»
Tremava, mentre lo diceva, e aspettava timoroso di
sentirsi frustare da una risposta sarcastica di Stuart. In realtà Stuart lo
stava fissando, probabilmente per la sorpresa, ma Porter non osava affrontarne
lo sguardo, per accertarsene.
«Diamogli un'altra mezz'ora» propose gentilmente
Stuart.
Potter guardò in su, meravigliato. Non c'era scherno,
nell'espressione di Stuart. Il comportamento era anzi quello di un amico.
Tutti, avevano un comportamento da amici.
«E poi...?» domandò.
«Poi tutti quelli che si saranno offerti volontari
tireranno a sorte tra loro, o qualcosa del genere. L'importante è che sia una
scelta democratica. Chi si offre volontario, oltre Porter?»
Tutti alzarono la mano; perfino Stuart.
Ma Porter era felice. Era stato il primo ad offrirsi e
adesso non vedeva l'ora che quei trenta minuti passassero.
Mullen venne colto di sorpresa. Il portello si
spalancò e il lungo collo da rettile e quasi acefalo di un Kloro,
impossibilitato a opporre resistenza all'aria che sfuggiva dalla cabina di
comando, venne risucchiato verso l'esterno.
Il cilindro dell'ossigeno scappò di mano a Mullen, e
per poco non si staccò anche dalla tuta, finendo nel vuoto. Passato il primo
istante di panico, Mullen lottò per riafferrarlo, lo sollevò al di sopra del
violento getto d'aria; infine, dopo avere aspettato il più possibile che il
primo impeto di quel tornado perdesse di intensità con il diminuire dell'aria
all'interno della cabina, lo calò con forza.
Il cilindro si abbatté in pieno sul collo del Kloro,
schiacciandolo. Mullen, rannicchiato al di sopra del portello, quasi
completamente al riparo dalla corrente impetuosa, sollevò di nuovo il cilindro
e tornò a calarlo, colpendo stavolta la testa e spappolando quegli occhi fissi
fino a ridurli in poltiglia. Da quello che restava del collo, sangue verde
sfuggiva ora nel semi-vuoto del compartimento.
Mullen era assalito da una nausea tremenda, ma non
osava lasciarsene travolgere.
Distogliendo lo sguardo, indietreggiò, afferrò con una
mano il portello esterno e gli impresse una spinta. Per diversi secondi, la
piastra continuò a roteare come una trottola. Arrivata al termine della vite,
venne automaticamente riafferrata dalle molle e si richiuse. Quel poco di
atmosfera che rimaneva ne aumentò la tenuta, rendendola ermetica, per cui il
lavorio delle pompe poteva ora tornare a riempire d'aria la cabina di comando.
Mullen strisciò al di sopra del corpo maciullato del
Kloro ed entrò nel locale. Era deserto.
Ebbe sì e no il tempo di accorgersene che si ritrovò
in ginocchio. Si rialzò, con molta difficoltà. Il passaggio dall'assenza di
peso di poc'anzi a uno stato gravitazionale l'aveva colto alla sprovvista.
Senza contare, poi, che si trattava di gravità kloriana, il che voleva dire per
lui, con quel po' po' di tuta addosso, sostenere un peso che era una volta e
mezzo quello normale. In compenso, però, le pesanti suole metalliche non
aderivano più in modo così esasperante all'impiantito. All'interno
dell'astronave, paratie e pavimenti erano di una lega d'alluminio ricoperta di
sughero.
Girò lentamente su sé stesso. Il Kloro decollato
giaceva in un mucchio e soltanto qualche occasionale sussulto indicava che era
stato, fino a poco prima, un organismo vivente. Mullen lo scavalcò, con
disgusto, e azionò il congegno che richiudeva il portello interno della cabina.
Il locale era immerso in una deprimente atmosfera
verdastra e le luci mandavano un chiarore giallognolo. L'atmosfera dei Kloro,
naturalmente.
Suo malgrado, Mullen provava un vago senso di sorpresa
e di ammirazione. Evidentemente i Kloro avevano un loro modo di trattare i
materiali, così da renderli refrattari all'effetto ossidante del cloro. Perfino
la mappa murale della Terra, di lucida carta plastificata, sembrava fresca e
intatta. Mullen si avvicinò alla parete, attratto dai contorni familiari dei
continenti...
In quel momento, con la coda dell'occhio, colse un
movimento improvviso. Si girò, con tutta la rapidità che la tuta gli
consentiva, poi mandò un grido. Il Kloro che lui aveva creduto morto si stava
rialzando.
Il collo pendeva inerte, ammasso di tessuti spappolati
e di umori, ma le braccia si tendevano qua e là, brancolando alla cieca, e i
tentacoli all'altezza del petto vibravano rapidamente, come innumerevoli lingue
di serpi.
Era cieco, naturalmente. La distruzione del collo a
stelo lo aveva privato di tutti i suoi organi sensori, e inoltre era in uno
stato di semiasfissìa. Ma il cervello, all'interno dell'addome, era ancora
indenne. Il Kloro era malconcio ma vivo.
Mullen indietreggiò. Voleva tenersi alla larga e, al
tempo stesso, si sforzava goffamente e inutilmente di camminare in punta di
piedi, pur sapendo che il Kloro, oltre che cieco e mutilato, era sordo. Infatti
si moveva a tentoni, finché andò a sbattere contro una parete e, dopo averne
tastata la base, prese a strisciare lungo quella.
Mullen si guardò disperatamente attorno alla ricerca
di un'arma, ma non la trovò. C'era la fondina del Kloro, ma lui non osava
allungare una mano per impossessarsene. Perché non se n'era impadronito al
primo momento? Che idiota!
La porta della cabina di comando si aprì, quasi senza
rumore. Mullen si voltò, tremando come una foglia.
L'altro Kloro entrò, indenne, perfettamente sano. Si
arrestò per un attimo sulla soglia, i tentacoli del petto rigidamente tesi e
immobili; il collo a stelo si protese in avanti, gli occhi orribili fissarono
prima Mullen poi il compagno moribondo.
Di scatto, l'extra-terrestre si portò la mano al
fianco.
Mullen, senza rendersene conto, si mosse altrettanto
rapidamente, come per un riflesso condizionato. Afferrò il tubo del cilindro
d'ossigeno di riserva che, da quando era entrato nella cabina di comando, aveva
riappeso all'apposito gancio della tuta, e lo puntò, aprendo contemporaneamente
la valvola del serbatoio. Non si era nemmeno curato di regolare la pressione.
Lasciò che il getto uscisse incontrollato, tanto che barcollò sotto la spinta
improvvisa.
Riusciva a vedere materialmente il getto di ossigeno.
Era un pallido sbuffo, che si gonfiava e si diffondeva nel verde diffuso del
cloro. Il getto investì il Kloro nell'attimo in cui stava per estrarre l'arma.
Mullen vide il mostro alzare le mani. Il piccolo becco
in cima alla testa a pomolo si aprì come per mandare un grido d'allarme ma
senza che ne uscisse alcun suono. Poi, l'essere barcollò e cadde, si contorse
per qualche istante, infine giacque immobile. Mullen s'avvicinò e continuò a
investirlo con il getto dell'ossigeno, come se stesse azionando un estintore.
Infine, alzò il piede appesantito dallo scarpone di ferro e lo calò con forza
sul collo a stelo, schiacciandolo ben bene al suolo.
Si girò allora verso il primo e lo vide disteso a
terra, stecchito.
L'intero locale era saturo di ossigeno, ora, ce n'era
abbastanza da annientare intere legioni di Kloro, e il cilindro era vuoto.
Mullen scavalcò il Kloro morto, uscì dalla cabina di
comando e si diresse, seguendo il corridoio principale, lungo la cabina dei
prigionieri.
Era subentrata la reazione nervosa, ora. Mullen stava
singhiozzando, in preda a un terrore cieco, che lo faceva sragionare.
Stuart era stanco. Nonostante le mani artificiali, si
ritrovava ancora una volta a pilotare un'astronave. Due incrociatori leggeri
erano già partiti dalla Terra per venire a rimorchiarli. Da quasi
ventiquattr'ore, stava ai quadri di comando, praticamente da solo. Aveva dovuto
smontare l'impianto di clorizzazione, riattivare quello dell'ossigeno, fare il
punto per individuare la posizione della nave nello spazio, tentare di
calcolare una rotta e trasmettere una serie di segnali, preoccupandosi che non
venissero intercettati: segnali che, per fortuna, erano stati raccolti da chi
di dovere.
Così, quando sentì che la porta della cabina di
comando si apriva, provò un lieve senso di irritazione. Era troppo stanco per
scambiare le solite quattro chiacchiere oziose. Si voltò, e vide che stava
entrando Mullen.
«Per amor di Dio, Mullen» gridò, «torni subito a
letto!»
«Non ho più voglia di dormire» disse Mullen, «anche se
c'è stato un momento in cui ho creduto che non avrei più chiuso occhio in vita
mia.»
«Come si sente?»
«Ancora tutto indolenzito. Da un lato, in modo particolare.»
Fece una smorfia e, involontariamente, si guardò attorno.
«Che cosa cerca, i Kloro?» domandò Stuart. «Li abbiamo
gettati nello spazio, poveracci.» Scosse la testa. «Facevano pena, tutto
sommato. Mettiamoci nei loro panni: dal loro punto di vista, i mostri eravamo
noi. Intendiamoci, con questo non voglio dire che avrei preferito che fossero
stati loro a farle la pelle.»
«Lo so, capisco benissimo.»
Stuart guardò di sottecchi l'omino, che si era seduto
davanti alla mappa murale della Terra. «Le devo delle scuse particolari e
personalissime, Mullen» aggiunse. «Confesso che non mi ero fatto una grande
opinione di lei.»
«Era nel suo diritto» assicurò Mullen, con la sua voce
asciutta. Il tono era indifferente.
«No, invece. Nessuno ha il diritto di disprezzare un
altro, se non dopo una lunga esperienza di dure prove che gliene accordino il
privilegio.»
«È a questo che stava pensando?»
«Sì, ed è tutto il giorno che ci penso. Non so se
riuscirò a spiegarmi. Vede, sono queste mani.» Le teneva allargate davanti a
sé. «Era un tormento, capisce, sapere che gli altri avevano le loro mani
normali, vive. Non potevo fare a meno di odiarli, per questo. Istintivamente,
facevo di tutto per sminuire le loro qualità, mettere in mostra i loro difetti,
dare rilievo alle loro debolezze. Insomma, dovevo fare il possibile per
dimostrare a me stesso che non valeva la pena di invidiarli.»
Mullen si mosse, a disagio. «Mi creda, non è affatto
tenuto a giustificarsi. Non è necessario.»
«Oh, lo è. Lo è!» Stuart frugava nei propri pensieri,
si sforzava di tradurli in parole. «Da anni, ormai, avevo abbandonato la
speranza di trovare negli altri un minimo di dignità, di onestà. Ed ecco che
arriva lei, e s'infila dentro quel condotto per i cadaveri.»
«Chiariamo subito un particolare» disse Mullen, «e
cioè che io ho agito spinto unicamente da considerazioni pratiche ed
egoistiche. Non posso accettare, perciò, che lei mi presenti a me stesso come
un eroe.»
«Non è mia intenzione, gliel'assicuro. So che non
avrebbe alzato un dito, senza un motivo. Io mi riferisco all'effetto che la sua
azione ha avuto su tutti voi. Ha trasformato una manica di buffoni e di idioti
in gente per bene. E non per magia, al contrario! Erano già persone per bene
fin dal primo momento, solo che avevano bisogno di un incentivo per
dimostrarlo, e lei gliel'ha offerto. E io... sono anch'io uno di loro. È merito
suo, lei mi è stato di esempio, capisce? Un esempio che mi basterà per tutta la
vita, probabilmente.»
Mullen volse la faccia altrove, impacciato. Si
lisciava le maniche, che non erano per niente gualcite. Poi, posò il dito sulla
mappa.
«Sa» disse, «io sono nato a Richmond, nella Virginia.
Qui, ecco. Sarà il primo posto dove andrò. E lei di dov'è?»
«Di Toronto» disse Stuart.
«Toronto è... qui. Non sono molto distanti, vero,
viste sulla mappa?»
«Posso farle una domanda?» disse Stuart.
«Sentiamo.»
«Perché, esattamente, si è avventurato là fuori?»
Mullen sporse le labbra. Seccamente, osservò: «Non
teme che la mia ragione piuttosto prosaica possa rovinare l'effetto
ispiratore?»
«La chiami pure curiosità intellettuale, se crede.
Ognuno di noi aveva i suoi motivi, tutti molto ovvi. Porter tremava al pensiero
di venire internato; Leblanc voleva tornare dalla fidanzata; Polyorketes voleva
accoppare dei Kloro; e Windham, secondo lui, era un patriota. Quanto a me, mi
ritenevo una specie di nobile idealista, temo. Tuttavia, in nessuno di noi la
motivazione era sufficientemente forte da indurci a entrare in una tuta
spaziale e a calarci poi giù per quel condotto. Che cosa ha indotto proprio
lei, fra tanti, a farlo?»
«Perché dice, "fra tanti"?»
«Non se l'abbia a male ma... ha un'aria così freddina,
lei, così poco emotiva.»
«Le sembra?» La voce di Mullen non era cambiata di
tono. Si manteneva precisa, sommessa, e tuttavia tradiva ora una certa
tensione. «È tutta auto-disciplina, signor Stuart; continua, paziente
auto-disciplina, perché di natura non ero affatto così. Un uomo piccolo di
statura non può avere stati d'animo degni di rispetto. Che c'è di più ridicolo
di un piccoletto come me che si arrabbia, eh? Sono alto un metro e
cinquantadue, peso quarantasei chili e duecento grammi, se ci tiene alla
precisione. Insisto sui due centimetri e sui duecento grammi.
«Posso darmi arie di dignità, io? Posso mostrarmi
orgoglioso? Ergermi in tutta la mia statura, senza suscitare il riso? Dove
posso trovare una donna che non mi liquidi subito con una risatina?
Naturalmente, ho dovuto imparare a mascherare ogni mio sentimento.
«Lei parla di deformità! Alle sue mani nessuno
baderebbe, nessuno si accorgerebbe che sono diverse dalle altre se lei stesso
non si affrettasse a parlarne con tutti quelli che ha occasione di conoscere.
Crede che i dieci centimetri di statura che mancano a me si possano nascondere?
Che non siano la prima e, nella maggior parte dei casi, la sola cosa di me di
cui gli altri si accorgono?»
Stuart era mortificato. Aveva invaso un'intimità che
non avrebbe dovuto violare. «La prego di scusarmi» mormorò.
«Perché?»
«Non avrei dovuto costringerla a parlare di queste
cose. Avrei dovuto capirlo da me che lei... che lei...»
«Che io... cosa? Avevo tentato di mettere alla prova
me stesso? Di dimostrare che, pur essendo piccolo come persona, avevo un cuore
da gigante?»
«Io non intendevo mettere la cosa sotto una luce di
scherno.»
«Perché no? Sarebbe stata un'idea sciocca, senza
niente a che fare con la vera ragione che mi ha spinto. Se davvero avessi avuto
questo, in mente, cosa crede che avrei concluso? Pensa che adesso, sulla Terra,
mi metteranno davanti alle telecamere - bene abbassate, s'intende, per
inquadrarmi la faccia, a meno che non facciano salire me su una sedia - e mi
appunteranno addosso delle medaglie?»
«Eh, be', è proprio quello che faranno, secondo me.»
«E cosa crede che me ne verrà in tasca? Tutti diranno:
"Ma pensa, piccolo com'è!" E poi? Dovrò dire a tutti quelli che
incontro: "Sapete, io sono quel tale che è stato decorato al valore il
mese scorso?" Signor Stuart, quante medaglie pensa che ci vorrebbero per
farmi aumentare di dieci centimetri nonché di una ventina di chili?»
«Se la mette così» ammise Stuart, «sì, capisco
benissimo.»
Mullen parlava un tantino più in fretta, ora; un po'
di fervore, sia pure ben controllato, era entrato nelle sue parole, rendendole
leggermente più calde. «Ci fu un tempo in cui pensavo: "Gliela farò vedere
io, chi sono!" intendendo riferirmi, con questo, al mondo intero. Avrei
lasciato la Terra, sarei andato alla conquista di nuovi mondi. Sarei stato un
novello Napoleone, anche più piccolo di quell'altro. E così, un bel giorno
lasciai la Terra e me ne andai su Arturo. E che cos'ho fatto, su Arturo, che
non avrei potuto fare anche sulla Terra? Niente. Tengo il bilancio di una
società commerciale. Come vede, caro signor Stuart, ho rinunciato da un pezzo
alla vanità di sollevarmi sulla punta dei piedi.»
«Ma perché lo ha fatto, allora?»
«Avevo ventotto anni quando lasciai la Terra e mi
stabilii nel Sistema Arturiano. Non mi sono più mosso di là. Questo viaggio
doveva essere la mia prima vacanza, la mia prima rimpatriata, sulla Terra, dopo
tanti anni. Avevo in progetto di restare sulla Terra sei mesi. Invece i Kloro
ci hanno fatto prigionieri e chissà per quanto tempo ci avrebbero tenuti
internati. Ma io non potevo, capisce... proprio non potevo permettere loro di
mandare a monte il mio viaggio. A costo di qualunque cosa, dovevo impedire loro
di interferire nei miei programmi. Volevo tornare sulla Terra, e a spingermi ad
agire non era l'amore di una donna, o la paura, o l'odio, o l'idealismo, o che
so io. Era qualcosa di più forte di tutti questi sentimenti.»
S'interruppe, allungò una mano come per accarezzare la
mappa sulla parete.
«Signor Stuart» domandò sommessamente, «ha mai
sofferto la nostalgia di casa?»