Cosa succederebbe se degli
alieni del pianeta Dar, vermiformi, che bevono acqua ossigenata e che girano
per la Galassia su un cubo spazio-temporale alla ricerca di forme viventi di
schiavizzare, giungessero sulla Terra e catturassero un umano alcolizzato
cronico, il cui unico scopo nella vita è stare attaccato alla bottiglia del
whisky? È ciò che ci spiega Fredric Brown in questo umoristico e divertente
racconto del 1951; titolo originale “Man of Distinction”.
Si chiamava Hanley, Al Hanley, e a guardarlo non avreste certo scommesso
sul suo avvenire. Quanto al passato, se aveste conosciuto le peripezie della
sua vita fino al giorno in cui vennero i dariani, non avreste mai immaginato di
dovergli, da quel giorno in poi, infinta riconoscenza.
Quando il fatto si verificò, Hanley era sbronzo. Non che questa fosse per
lui una condizione insolita; era sbronzo da tempo immemorabile e aspirava a
restare così all’infinito, sebbene la cosa diventasse ogni giorno sempre più
difficile. Aveva esaurito i soldi, e aveva esaurito gli amici a cui chiederne
in prestito. Gli restavano i conoscenti, ma anche qui era quasi arrivato al
fondo della lista e si considerava fortunato se riusciva a scroccare una media
di due bicchieri pro capite.
Aveva raggiunto la fase in cui era costretto a farsi dei chilometri a
piedi per scovare qualcuno che conosceva appena e tentare di spillargli un
dollaro o anche solo un mezzo dollaro. La lunga camminata annullava però
l’effetto dell’ultimo bicchiere – be’, non completamente, ma quasi – per cui Al
finiva per trovarsi nella situazione di Alice quando stava con la Regina Rossa
e doveva correre con tutte le sue forze per restare nello stesso posto.
Chiedere l’elemosina per le strade era rischioso: i poliziotti s’erano
messi in testa di eliminare “la piaga dell’accattonaggio” e se Hanley ci si
fosse provato, prima o poi avrebbe finito per passare una notte asciutta in
commissariato, cosa che temeva sopra ogni altra. Aveva ormai raggiunto lo
stadio in cui dodici ore senza bere gli procuravano i Supermostri, che stanno
al delirium tremens come un ciclone sta a uno zefiro.
Il D.T. vi dà soltanto delle allucinazioni. Se siete in gamba, sapete che
è tutto per finta. Anzi, vi tengono perfino compagnia, se vi piace quel genere
di cose. Ma i Supermostri sono un’altra faccenda. Per farseli venire bisogna
aver bevuto una quantità di alcool superiore alla capacità di molti che si
credono grandi bevitori, e vengono soltanto quando un uomo che è sbronzo da
tanto tempo da non ricordarsi più quando ha cominciato a esserlo, viene
lasciato di colpo completamente all’asciutto per un periodo di tempo
prolungato, come per esempio in prigione. Solo a pensarci Hanley si sentiva
capace di qualsiasi cosa, come abbracciare un carissimo amico, un compagno del
cuore che aveva visto tre volte in vita sua e per di più in circostanze non
troppo favorevoli. Il carissimo amico si chiamava Kid Eggleston ed era un
gigantesco ex pugile, mezzo suonato, che negli ultimi tempi s’era ridotto a
fare il buttafuori in un locale dove Hanley lo aveva appunto incontrato
nell’esercizio delle sue funzioni.
Ma non è il caso che vi sforziate di tenere a mente il suo nome e tanto
meno che vi interessiate alla sua storia, perché, per quanto riguarda questa
faccenda, il Kid non resterà in scena per molto. A essere precisi, tra un
minuto e mezzo esattamente caccerà un urlo terribile, piomberà a terra svenuto,
e non ne sentirete parlare mai più.
Ma mi sia lecito accennare di sfuggita che se Kid Eggleston non avesse
urlato e non fosse svenuto, voi che leggete non vi trovereste qui, in questo
momento. Sareste probabilmente occupati a estrarre a torso nudo del minerale
glanico, sotto un sole verde all’estremo limite della galassia. Posso
assicurarvi che non vi piacerebbe affatto, e perciò ricordatevi che fu Hanley a
tener lontano da voi un simile destino, e che tuttora continua a tenerlo
lontano. Non giudicatelo troppo severamente. Se invece di lui Tre e Nove
avessero preso il Kid le cose oggi sarebbero molto diverse.
Tre e Nove venivano dal pianeta Dar, che è il secondo (e il solo
abitabile) pianeta della suddetta stella verde al limite estremo della
galassia. Tre e Nove non erano, naturalmente, i loro nomi completi. I nomi
dariani sono numeri e il nome completo di Tre era 389.057.792.869.223. O per lo
meno, questa sarebbe la traduzione nel sistema decimale.
Nel momento in cui Hanley cercava di abbracciare il suo carissimo amico,
il Kid, Tre e Nove erano ancora lontani circa un chilometro sulla verticale.
Non erano su un aeroplano e neppure in un’astronave (e meno che mai in un disco
volante; certo, so tutto sui dischi volanti ma ve ne parlerò un’altra volta.
Adesso voglio parlare dei dariani). Erano dentro un cubo spazio-temporale.
Immagino che dovrò spiegarvi di che cosa si tratta. I dariani avevano
sperimentato praticamente – come forse un giorno riusciremo a fare anche noi –
la teoria di Einstein; avevano constatato, cioè, che la materia non può viaggiare
più in fretta della luce senza mutarsi in energia. E voi non ci terreste a
essere mutati in energia, vi pare? Non ci tenevano neppure i dariani, quando
cominciarono le loro esplorazioni da un capo all’altro della galassia.
Così scoprirono che in realtà si può viaggiare a una velocità superiore a
quella della luce se simultaneamente si viaggia attraverso il tempo. Attraverso
il continuum spazio-temporale, cioè, invece che attraverso il solo spazio. Il
loro viaggio dal pianeta Dar copriva una distanza di 163.000 anni luce.
Ma dato che simultaneamente avevano viaggiato nel passato di 1630 secoli,
la durata effettiva del viaggio era ridotta a zero. Al ritorno avevano
viaggiato 1630 secoli nel futuro ed erano arrivati al punto di partenza nel
loro continuum spazio-temporale. Capite cosa voglio dire, spero.
In ogni modo, c’era questo cubo, invisibile ai terrestri, circa mille
metri sopra Philadelphia (e non chiedetemi perché avessero scelto Philadelphia;
non so come possa venire in mente di scegliere Philadelphia per qualsiasi
cosa). Era sospeso lassù da quattro giorni mentre Tre e Nove intercettavano e
studiavano le trasmissioni radio, per farsi un’idea della lingua e imparare a
parlarla.
Non che s’interessassero alla nostra civiltà in quanto tale, e ai nostri
usi e costumi in quanto tali. Niente di simile. Vi pare che si possa avere
un’idea della vita che fanno gli abitanti della Terra ascoltando i concorsi
musicali, gli indovinelli a premio e i comunicati pubblicitari?
No, quel che volevano sapere era se la nostra civiltà fosse abbastanza
evoluta da rappresentare una minaccia per loro, e alla fine di quei quattro
giorni si convinsero che non lo era. Non si può fargliene una colpa, e del
resto non si sbagliavano.
«Allora, scendiamo?» chiese Tre a Nove.
«Sì» disse Nove a Tre. Tre si attorcigliò sui comandi.
«… certo che t’ho visto combattere» stava dicendo Hanley. «Eri un
campione, Kid. Puoi ringraziare quell’idiota del tuo manager se non sei
arrivato in cima. La stoffa ce l’avevi. Perché non andiamo a berci sopra qui
all’angolo?»
«Paghi tu o pago io, Hanley?»
«Be’, in questo momento sono un po’ a terra, Kid. Ma ho bisogno di bere.
A ricordo dei bei tempi…»
«Tu hai bisogno di bere come io ho bisogno di spararmi un colpo. Sei già
sbronzo marcio, e faresti meglio a smettere prima che ti salti addosso il D.T.».
«Ce l’ho già» disse Hanley. «E non mi fa né caldo né freddo. Guarda,
stanno arrivando proprio dietro di te».
Senza riflettere, Kid Eggleston si volse e guardò. Gettò un urlo e cadde
svenuto. Tre e Nove si stavano avvicinando. Dietro di loro s’intravedeva la
sagoma nebulosa di un cubo gigantesco, dieci metri almeno di lato. Un cubo che
c’era e non c’era nello stesso tempo, questa era la cosa più strana. E fu
probabilmente il cubo, soprattutto, a spaventare il Kid.
Perché Tre e Nove non avevano proprio niente di spaventoso. Erano
vermiformi, lunghi circa cinque metri (quando si stiravano) e spesi un trenta
centimetri nel mezzo, affusolati alle due estremità. Erano di un bel colore
azzurrino e non avevano organi sensoriali visibili, per cui non si poteva
sapere quale fosse la testa e quale la coda, del resto non aveva nessuna
importanza dato che entrambe le estremità erano esattamente identiche.
E sebbene si stessero avvicinando a Hanley e al Kid (afflosciato a terra)
non sembravano neppure avere un davanti e un dietro. Erano nella loro normale
posizione inanellata e fluttuante.
«Salve ragazzi» disse Hanley. «Avete messo paura al mio amico. E lui mi
avrebbe offerto da bere. Così adesso tocca a voi offrire».
«Reazione illogica», disse Tre a Nove. «Come quella dell’altro esemplare,
del resto. Li prendiamo tutti e due?»
«No. L’altro, per quanto più grosso, è chiaramente più debole. E un
esemplare solo basterà ampiamente. Vieni con noi».
Hanley fece un passo indietro. «Se avete intenzione di offrirmi da bere,
va bene. Altrimenti voglio sapere, dove?»
«Dar».
«Per me è tutto lo stesso, purché prima mi offriate da bere».
«Dobbiamo usare la forza?» disse Tre a Nove.
«Non è necessario, se viene di sua volontà. Vuoi entrare nel cubo di tua
volontà?»
«C’è roba da bere là dentro?»
«Sì. Entra».
Hanley camminò spontaneamente fino al cubo ed entrò. Beninteso, non
credeva che ci fosse davvero, ma che cosa aveva da perdere? E quando uno ha le
allucinazioni, è meglio non contrariarle. Il cubo era solido, niente affatto
amorfo e neppure trasparente dall’interno. Tre si avviticchiò intorno ai
comandi e prese a manipolare delicatamente certi delicati meccanismi con le due
estremità.
«Siamo nell’inter-spazio» disse a Nove. «Direi di restare qui fermi
finché non abbiamo esaminato a fondo queste esemplare e non sappiamo se è
adatto o no ai nostri scopi».
«Ehi, dico, ragazzi non s’era parlato di bere?» Hanley cominciava a
innervosirsi. Le mani gli tremavano e sentiva dei ragni corrergli su e giù lungo
la spina dorsale, dal di dentro.
«Si direbbe che stia soffrendo» osservò Nove. «Forse di fame, o di sete.
Che cosa bevono queste creature? Acqua ossigenata, come noi?»
«La superficie del loro pianeta è quasi tutta ricoperta di un liquido che
contiene del cloruro di sodio. Potremmo preparargliene una dose».
Hanley gridò: «No! E nemmeno senza
sale! Non ho bisogno d’acqua, io, ho bisogno di whisky».
«Possiamo analizzare il suo metabolismo» disse Tre. «Con
l’intrafluoroscopio sarà questione di un momento». Si srotolò dai comandi e si
appressò a una strana macchina. Lampeggiarono luci colorate. Tre disse: «Che
strano. Il suo metabolismo dipende dal C₂H₅OH».
«C₂H₅OH?»
«Sì, alcool; fondamentalmente, almeno. Con una certa quantità di H₂O
diluita e senza il cloruro di sodio presente nei loro mari, oltre a dosi minime
di altri ingredienti, sembra che sia stato l’unico nutrimento di questa
creatura per un periodo piuttosto lungo».
«Ragazzi» implorò Hanley «muoio se non mi date da bere. Perché non la
piantate di parlar arabo e non fate passare la bottiglia?»
«Un momento, prego» disse Nove. «Ti preparerò la bevanda di cui hai
bisogno. Prima devo applicare la scala Vernier sull’intrafluoroscopio e usare
lo psicometro». Due minuti dopo era già di ritorno con in mano un recipiente
graduato che conteneva circa un litro di un liquido ambrato e limpido.
Hanley lo annusò, poi lo assaggiò. Mandò un profondo sospiro.
«Sono morto» disse. «Questa è ambrosia, il nettare degli dèi. Non esiste
un liquore come questo. Non c’è, sulla Terra». Bevve un lunghissimo sorso e non
gli bruciò neppure la gola.
«Che cos’è, Nove?» chiese Tre.
«Una formula piuttosto complessa, che risponde esattamente a tutte le sue
necessità. C’è il cinquanta per cento di alcool e il quarantacinque per cento di
acqua. Ma gli ingredienti che compongono il restante cinque per cento sono
numerosissimi; comprendono tutte le vitamine e i minerali di cui il suo
organismo ha bisogno, in proporzioni calibratissime e tutti insapori. Poi ci
sono altri ingredienti in quantità infinitesimali, per migliorare il gusto. Per
noi sarebbe atroce, anche se potessimo bere acqua o alcool».
Hanley sospirò e tornò a bere lungamente. Barcollò leggermente. Guardò
Tre e rise. «Adesso lo so che non esistete» disse.
«Che cosa intende dire?» chiese Nove a Tre.
«I suoi processi mentali sembrano privi di qualsiasi logica. Non so se la
sua specie ci darebbe dei buoni schiavi; ne dubito. Comunque dovremo
assicurarcene». Si rivolse a Hanley. «Come ti chiami?» chiese. «Hai un nome?»
«Che cos’è un nome, amico?» chiese Hanley. «Dammi il nome che vuoi. Tu e
il tuo amico siete i miei più cari amici. Potete portarmi dove vi pare e piace,
ditemi solo quando siamo arrivati».
Bevve un altro lungo sorso, e si sdraiò sul pavimento. Subito cominciò a emettere
strani rumori, ma né Tre né Nove riuscirono a capire se fossero o no parole…
«Zzzzzz-glup… Zzzzzz-glup… Zzzzzz-glup…» Cercarono di svegliarlo, di smuoverlo,
ma non ci fu verso.
Rimasero ad osservarlo, raccogliendo tutti i dati che poterono. Solo dopo
parecchie ore Hanley si svegliò. Si rizzò a sedere e li guardò a occhi
sgranati. Disse: «Non ci credo. Voi non siete qui. Per l’amor di Dio, datemi da
bere, presto».
Gli diedero la bottiglia graduata. Nove l’aveva di nuovo riempita, questa
volta fino all’orlo. Hanley bevve. I suoi occhi si chiusero, la sua espressione
si fece estatica. Disse: «Non svegliatemi».
«Ma sei già sveglio!»
«Allora non fatemi dormire. Ho capito cosa dev’essere. Ambrosia… la roba
che bevono gli dèi».
«Chi sono gli dèi?»
«Non esistono. Ma è questo che bevono. Sull’Olimpo».
Tre disse: «Processi mentali del tutto privi di logica».
Hanley alzò la bottiglia. Disse: «Lui è mio amico e io sono suo amico.
Anche lui è mio amico. Siamo tutti amici».
«Che razza di discorso fa?» disse Nove a Tre.
«Amico fa rima con dito. No… con… con…»
«Troppo stupido perché lo si possa addestrare ad altro che al più
elementare lavoro fisico» disse Tre. «Ma se fosse abbastanza robusto per i
lavori pesanti potremmo pur sempre consigliare una incursione in forze su
questo pianeta. Ci sono probabilmente non meno di tre o quattro miliardi di
abitanti. E abbiamo bisogno di manodopera non qualificata… tre o quattro
miliardi ci sarebbero di grande aiuto».
«Hurrà!» disse Hanley.
«Non coordina molto bene, a quanto sembra» disse Tre, pensieroso. «Ma
forse è dotato di notevole forza fisica. Creatura, come dobbiamo chiamarti?»
«Chiamatemi Al, ragazzi». Hanley stava cercando di alzarsi in piedi.
«È il tuo nome o la tua specie? E in ogni caso, è la tua denominazione
completa?»
Hanley si appoggiò al muro, riflettendo: «È la specie» disse alla fine.
«Sta per… Ora ve lo traduco in latino». Lo tradusse in latino.
«Vogliamo misurare la tua forza fisica. Corri avanti e indietro da questo
lato del cubo all’altro finché non sei stanco. Da’ a me la bottiglia del tuo
cibo».
Tolse di mano a Hanley la bottiglia graduata. Hanley annaspò con le mani.
«Ancora un sorso. Solo un piccolo sorso. Poi correrò quanto volete».
«Forse ne ha bisogno» disse Tre. «Ridaglielo, Nove».
Poteva esser l’ultima per un pezzo, e così Hanley fece una bella bevuta.
Poi, agitando allegramente le mani, salutò i quattro dariani che sembrava lo
stessero guardando. Disse: «Ci vediamo alle corse, ragazzi. Vi aspetto tutti. E
puntate su di me. Vi farò vincere. Ancora un sorsino, prima del via?»
Mandò giù ancora un sorsino – una goccia sola, questa volta meno di un
quarto di litro.
«Basta» disse Tre. «Adesso corri».
Hanley fece due passi e stramazzò con la faccia per terra. Si rotolò
sulla schiena e rimase lì, un sorriso di beatitudine sul volto.
«Incredibile!» disse Tre. «Forse sta cercando di ingannarci. Controlla un
po’, Nove».
Nove controllò. «Incredibile!» disse. «Assolutamente incredibile dopo uno
sforzo così breve; eppure ha perso del tutto conoscenza, al punto che è
diventato insensibile al dolore. E non è certo un simulatore. Questo tipo di
creatura non può essere di nessuna utilità al nostro pianeta. Metti in moto;
torniamo a fare il nostro rapporto. Lo prenderemo con noi, secondo gli ordini,
come esemplare per il giardino zoologico. Ne vale la pena. Fisicamente è
l’essere più strano che abbiamo scoperto fra milioni di pianeti».
Tre si avvoltolò intorno ai comandi e con le due estremità avviò vari
meccanismi. Centosessantatremila anni luce e milleseicentotrenta secoli
trascorsero, annullandosi a vicenda così totalmente e perfettamente che né il
tempo né la distanza sembrarono essere stati attraversati.
Nella città capitale di Dar, che governa migliaia di pianeti utili e ne
ha visitati milioni di inutili, come la Terra, Al Hanley occupa una grande
gabbia di vetro collocata al posto d’onore, come meritano gli esemplari più
stupefacenti.
Al centro della gabbia c’è una vasca, alla quale egli si abbevera
frequentemente e nella quale è stato visto fare il bagno. La vasca viene
continuamente e automaticamente rifornita di una bevanda che sta al miglior
whisky terrestre come il miglior whisky terrestre sta all’acqua di
rigovernatura. Per di più è rinforzata – senza il minimo sapore – con tutte le
vitamine e i minerali che il suo metabolismo richiede.
Non dà il mal di testa e non provoca altri spiacevoli effetti. È una
bevanda che manda in visibilio Hanley esattamente come la strabiliante
conformazione di Hanley manda in visibilio i visitatori dello zoo, che lo
guardano con occhi attoniti e poi leggono la targhetta sotto la gabbia, che
comincia, in latino, con la denominazione della specie che Al rivelò a Tre e
Nove:
ALCOOLICUS ANONIMUS
Vive di una dieta di C₂H₅OH, integrata con vitamine e minerali. Capace,
a tratti, di manifestazioni intelligenti, ma privo di qualsiasi senso
logico.
Prestazioni fisiche: capace di muovere alcuni passi senza cadere.
Privo di qualsiasi valore commerciale,
costituisce tuttavia un interessante esemplare della più strana
orma di vita finora scoperta nella Galassia.
Luogo d’origine: Pianeta n. 3 del sole JX6547-HG908.
Così strano, anzi, che l’hanno sottoposto a un trattamento speciale che
lo rende praticamente immortale. E meno male, perché come esemplare zoologico è
così interessante che se mai venisse a morire potrebbero tornare sulla Terra
per catturarne un altro. E potrebbero beccare voi o me, e voi, o io, secondo il
caso, potremmo, in quel momento, essere perfettamente sobri. E questo sarebbe
un bel guaio per tutti.
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