Nella letteratura
fantascientifica i marziani sono presentati come particolarmente evoluti, dotati
di una tecnologia superiore a quella umana, o come super-cattivi, o dalle forme
strane e orripilanti. E perché – si deve essere domandato Fredric Brown – non presentarli
anche come deficienti?
Il racconto venne pubblicato
nel 1950 (il titolo originale è “The Last Martian”).
Era una sera come tutte le sere, ma più morta del solito. Ero tornato al
giornale dopo aver presenziato d’ufficio a un noiosissimo banchetto, dove per
giunta il menu era così scadente che, sebbene non mi fosse costato nulla, m’ero
sentito defraudato. Per ammazzare il tempo stavo scrivendo un lungo ed
entusiastico resoconto della cerimonia, di due colonne almeno. Prima che
andasse in macchina me l’avrebbero scorciato a un paio di paragrafi freddi
freddi, naturalmente.
Slepper sedeva coi piedi sulla scrivania, perché fosse ben chiaro che non
faceva niente, e Johnny Hale stava cambiando il nastro alla sua macchina per
scrivere. Gli altri cronisti erano in giro coi soliti incarichi.
Cargan, il capocronista, uscì dal suo ufficio privato e si avvicinò a noi.
«Qualcuno di voi ragazzi conosce Barney Welch?» domandò.
Una domanda stupida. Barney è il padrone del Barney’s Bar proprio in
faccia alla «Tribune», dall’altra parte della strada. Non c’è un solo cronista
della «Tribune» che non conosca Barney abbastanza bene da chiedergli un
prestito. Così tutti noi facemmo segno di sì.
«M’ha telefonato adesso» disse Cargan. «C’è un tizio giù nel suo locale
che dice di essere un marziano».
«Sbronzo o matto?» volle sapere Slepper.
«Barney non l’ha ancora capito, ma dice che forse si potrebbe tirare
fuori un pezzo, se qualcuno di voi ha voglia di andare giù a parlare con
l’amico. Dato che l’abbiamo proprio di faccia, e dato che voi tre poverini
siete qui a morire di noia, uno può anche scendere a dare un’occhiata. Ma
nemmeno una goccia in conto al giornale, siamo intesi?»
Slepper disse: «Ci vado io», ma gli occhi di Cargan s’erano fermati su di
me. «Sei libero, Bill?» chiese. «Può essere una storia spassosa, e tu hai un
tocco speciale nel genere brillante» .
«Va bene», borbottai «Ci vado».
«Forse è solo un ubriaco che vuol fare lo spiritoso, ma se l’amico è
matto chiama la polizia, a meno che riesca a tirarci fuori un pezzo umoristico.
Se invece lo arrestano, puoi mettere insieme un pezzo umano».
Slepper disse: «Cargan, tu saresti capace di far arrestare tua nonna, per
tirar fuori un pezzo. Posso andare con Bill, giusto per cambiare aria?»
«No, tu e Johnny restate qui. Non ho nessuna intenzione di trasferire
tutta la sala cronaca nel locale di Barney». Cargan rientrò nel suo ufficio.
Infilai la cronaca del banchetto nel tubo pneumatico, e presi cappello e
soprabito. Slepper disse: «Bevi anche per conto mio, Bill. Ma non bere tanto da
perdere quel tocco speciale».
«Come no» risposi, andai alla porta e scesi le scale.
Entrai da Barney e mi guardai intorno. Non c’era nessuno della «Tribune»,
salvo due linotipisti che giocavano a carte a uno dei tavoli. Oltre a Barney,
che se ne stava dietro al banco, c’era solo un’altra persona nel locale. Era un
uomo alto, magro, dal colorito giallognolo, che sedeva tutto solo in uno dei
séparé, gli occhi perduti in un bicchiere di birra semi vuoto.
Pensai prima di tutto di sentire la campana di Barney, così mi avvicinai
al banco e tirai fuori un dollaro. «Uno speciale» dissi. «Liscio, acqua a
parte. E il marziano che hai segnalato a Cargan è lo spilungone laggiù, con la
faccia da funerale?»
Annuì e mi versò da bere.
«Da che parte lo devo prendere?» chiesi. «Sa che sono un giornalista che
vuole intervistarlo? O mi limito a offrirgli da bere e lo faccio cantare? Fino
a che punto è pazzo?»
«A me lo chiedi. Dice che è arrivato da Marte due ore fa, e sta ancora
cercando di orizzontarsi. Dice che è l’ultimo marziano vivente. Non sa che sei
un giornalista, ma muore dalla voglia di parlarti. L’ho montato a dovere».
«E come?»
«Gli ho detto che avevo un amico intelligentissimo, che poteva dargli un
buon consiglio. Non ho fatto nomi, perché non sapevo chi avrebbe mandato
Cargan. Ma non chiede altro che mettersi a piangere sulla tua spalla».
«E il suo nome lo sai?»
Barney fece una smorfia. «Yangan Dal, dice. Senti bene, cerca di non
farlo andare in smanie qui dentro. Non voglio guai».
Vuotai il bicchiere d’un colpo solo e ci bevvi sopra un sorso d’acqua.
Dissi: «D’accordo, Barney. Facciamo così, dammi due birre e le porto io al suo
tavolo».
Barney spillò due birre. Fece suonare sessanta centesimi sul
registratore, mi diede il resto e io partii per l’intervista.
«Il signor Dal?» dissi. «Mi chiamo Bill Everett. Barney mi dice che siete
in difficoltà. Spero di potervi essere d’aiuto».
L’uomo alzò gli occhi dal bicchiere. «Siete voi l’amico al quale ha
telefonato? Sedete, signor Everett. E grazie per la birra».
M’infilai sul sedile accanto a lui. L’uomo tracannò in fretta l’ultimo
sorso di birra che gli era rimasto e strinse le dita nervose intorno al
bicchiere che gli avevo portato.
«Voi penserete che sono pazzo» disse. «E forse avete ragione, ma il fatto
è… non ci capisco niente nemmeno io. Il barista crede che io sia matto,
immagino. Sentite, siete un medico voi?»
«Non esattamente» dissi. «Diciamo che sono un consulente psicologico».
«Credete che io sia pazzo?»
Dissi: «Quasi tutti quelli che lo sono non vogliono ammetterlo. Ma ancora
non ho sentito che cosa vi è successo».
L’uomo bevve un lungo sorso di birra e rimise giù il bicchiere, ma non
staccò le mani dal vetro, forse perché, stingendo qualcosa, non tremavano più.
Disse: «Sono un marziano. L’ultimo
dei marziani. Tutti gli altri sono morti. Ho visto i loro cadaveri solo due
ore fa».
«Eravate su Marte due ore fa? E come siete arrivato fin qui?»
«Non lo so. È questo il terribile. Non lo so. Tutto quel che so è che gli
altri erano morti, i morti cominciavano già a imputridire. Era una cosa
spaventosa. Eravamo cento milioni, e adesso sono rimasto soltanto io».
«Cento milioni. È la popolazione di Marte?»
«All’incirca. Forse un po’ di più. Ma ormai è finita, sono morti tutti,
tranne io. Ho visitato tre città, le tre principali. Mi trovavo a Skar, e
quando ho scoperto che là erano morti tutti ho preso un targan, non c’era
nessuno per fermarmi, e in volo ho raggiunto Undanel. Non avevo mai pilotato un
targan in vita mia, ma i comandi erano molto semplici. Anche a Undanel erano
tutti morti. Ho rifatto il pieno e sono ripartito. Volavo basso e guardavo giù,
ma non ho visto altro che morti. Ho volato fino a Zandar, la città più grande,
più di tre milioni di abitanti. Ed erano tutti morti fino all’ultimo, e
cominciavano a decomporsi. Era uno spettacolo orribile vi dico. Orribile. Non
riesco a dimenticarlo».
«Immagino» dissi.
«Non potete immaginarlo. Certo
il nostro era ormai un mondo condannato; al massimo saremmo durati ancora per
una dozzina di generazioni. Due secoli fa eravamo tre miliardi… e quasi tutti
morivano di fame. Fu il kryl, il morbo portato dal vento del deserto, e che i
nostri scienziati non riuscirono a curare. In due secoli ridusse la popolazione
di due terzi, e continuava a far vittime».
«E così il vostro popolo è stato sterminato da questo… kryl?»
«No. Quando un marziano muore di kryl, il suo corpo si raggrinza tutto,
rimpicciolisce. I cadaveri che ho visto non erano così». Rabbrividì e bevve
quel che restava nel bicchiere. Mi accorsi di aver trascurato il mio e lo vuotai.
Alzai due dita verso Barney, che guardava verso di noi e sembrava preoccupato.
Il mio marziano continuò a raccontare. «Cercammo di realizzare il volo
interplanetario, ma non ci riuscimmo. Pensavamo che almeno una parte di noi
avrebbe potuto salvarsi dal kryl emigrando sulla Terra o in qualche altro
mondo. Tentammo ma senza successo. Non riuscimmo neppure a raggiungere Deimos o
Phobos, le nostre due lune».
«Ma se non siete riusciti a realizzare il volo interplanetario, come
mai...»
«Non lo so. Vi dico che non lo so! È questo che mi fa impazzire. Non so
come sono arrivato qui. Io sono Yangan Dal, un
marziano. E mi trovo qui, dentro questo corpo. Vi dico che c’è da impazzire».
Barney portò altre due birre.
Aveva l’aria sempre più preoccupata, così aspettai che si fosse allontanato
prima di chiedere: «Dentro questo corpo? Volete dire che...»
«Ma certo! Questo non sono io, questo corpo in cui mi trovo. Non
penserete che i marziani siano esattamente simili ai terrestri, no? Io sono
alto un metro, il mio peso sulla terra sarebbe una decina di chilogrammi. Ho
quattro braccia e mani con sei dita. Questo corpo... mi fa paura. Non lo
capisco, come non capisco come ci sono entrato».
«Ma come si spiega che parlate inglese? O questo lo sapete?»
«Be’... in un certo senso sì. Questo corpo... si chiama Howard Wilcox. È
un contabile. È sposato con una femmina della sua specie. Lavora in un posto
chiamato Humbert Lamp Company. Ho tutti i suoi ricordi e so fare tutto quello
che sapeva fare lui; so tutto quel che sapeva lui. In un certo senso io sono Howard Wilcox. Ho in tasca quanto
basta per dimostrarlo. Ma è una storia pazzesca, perché in realtà io mi chiamo
Yangan Dal e sono un marziano. Ho perfino gli stessi gusti di questo corpo. Mi
piace la birra. E quando penso alla moglie di questo corpo, io… ecco…»
Lo fissai a bocca aperta, poi tirai fuori le sigarette e gli porsi il
pacchetto. «Fumate?»
«Questo corpo... Howard Wilcox... non fuma. Grazie lo stesso. E permettete
che vi offra una birra. Ci sono dei soldi in queste tasche».
Feci un cenno a Barney.
«Quando è successo? Solo due ore fa, avete detto? Prima non avevate mai
sospettato di essere un marziano?»
«Sospettare? Ma io ero un
marziano. Che ora è?»
Guardai l’orologio appeso al muro. «Le nove e qualcosa».
«Allora è di più. Tre ore e mezzo. Saranno state le cinque e mezzo quando
mi sono trovato dentro questo corpo, perché in quel momento stavo tornando a
casa dal lavoro e dai suoi ricordi ho saputo che aveva lasciato l’ufficio da
mezz’ora, alle cinque».
«E siete andato... è andato a casa?»
«No, ero troppo sconvolto. Non era la mia casa. Io sono un marziano. Non
lo capite? Be’, non posso farvene una colpa, perché non capisco nemmeno io. Ma
ho cominciato a camminare. Poi m’è... voglio dire questo Wilcox ha avuto sete
ed è... sono...» s’interruppe e ricominciò dal principio. «Questo corpo sentì
una grande sete e si fermò a bere in questo locale. Dopo due o tre birre ho
pensato che forse il barista avrebbe potuto darmi un consiglio e gli ho
raccontato tutto».
Mi sporsi attraverso il tavolo. «Ascoltami, Howard», dissi «Siete
aspettato a casa per la cena. Chissà come sarà in ansia vostra moglie, a
quest’ora. Avete pensato a telefonarle?»
«No di certo. Io non sono Howard Wilcox». Ma un nuovo problema gli si era
affacciato alla mente, glielo leggevo in faccia.
«Fareste bene a farle una telefonata», dissi. «Che avete da perdere?
Chiunque siate, Yangan Dal o Howard Wilcox, c’è una donna che vi aspetta a
casa, in ansia per voi o per lui. Siate generoso, telefonatele. Il numero lo
sapete?»
«Si capisce. È il mio numero... cioè, il numero di Wilcox...»
«Smettetela di impelagarvi in questi pasticci grammaticali e andate a
farle questa telefonata. Per ora non cercate di spiegarle niente; siete ancora troppo
confuso. Ditele solo che le racconterete appena tornate a casa, ma che state
benissimo e che non deve preoccuparsi».
Si alzò come un uomo in trance e si avviò verso la cabina. Io tornai al
banco e mandai giù un altro whisky, liscio. Barney disse: «Che te ne pare?
Credi che sia...»
«Ancora non lo so» dissi. «C’è qualcosa che non riesco a capire».
Tornai al tavolo.
Il marziano sorrise debolmente. Disse: «Mi ha investito come un ciclone.
Se torno a... se Howard Wilcox torna a casa, farà bene a inventare una storia
che stia in piedi». Bevve un sorso di birra. «Meglio della storia di Yangan Dal
in ogni caso». Diventava più umano di minuto in minuto.
Ma poi di colpo ricominciò. «Forse avrei dovuto dirvi fin da principio
com’è andata. Ero chiuso a chiave in una stanza su Marte. Nella città di Skar.
Non so perché m’avessero messo là dentro, ma comunque ero chiuso a chiave. E
poi per molto tempo non mi hanno portato niente da mangiare, e alla fine avevo
così fame che ho tolto una pietra dal pavimento e ho cominciato a scavare con
le unghie sotto la porta. Morivo letteralmente di fame. Mi ci sono voluti tre
giorni, giorni marziani, circa sei dei vostri. per aprirmi un passaggio; poi mi
sono messo a girare per l’edificio finché ho trovato il magazzino. Non c’era
nessuno, e mi sono sfamato. Poi...»
«Continuate» dissi. «Vi ascolto».
«Sono uscito dall’edificio e le strade erano piene di morti in
putrefazione». Si coprì gli occhi con le mani. «Sono entrato in due o tre case.
Non so perché, non so cosa cercassi, ma nessuno era morto in casa. Tutti i
cadaveri erano all’aperto, e nessuno era rinsecchito; così ho capito che non
erano morti di kryl.
«Poi, come vi ho detto, ho rubato il targan… anzi, non l’ho nemmeno
rubato, perché non c’era più nessun proprietario… e sono partito a cercare
qualche superstite. Fuori, in campagna, era la stessa cosa: tutti stesi all’aperto,
vicino alle case, morti. E a Undanel e a Zandar, lo stesso.
«Vi ho già detto che Zandar è la nostra città più grande, la capitale? Al
centro di Zandar c’è un immenso spiazzo, il Campo dei Giochi, almeno due
chilometri di lato, secondo le misure terrestri. E tutti gli abitanti di Zandar
erano là, o per lo meno sembrava che ci fossero tutti. Tre milioni di corpi,
ammucchiati là come se fossero radunati per morire insieme, all’aperto. Come se
avessero saputo che dovevano morire.
«Ho visto tutto dall’alto, mentre sorvolavo la città. E al centro dello
spiazzo c’era qualcosa, sopra una piattaforma. Ho planato, ho tenuto il targan
sospeso in aria (è un po’ come i vostri elicotteri), l’ho sospeso sopra la
piattaforma per vedere cos’era. Era una specie di colonna di rame massiccio. Il
rame su Marte è come l’oro sulla terra. Nel corpo della colonna ho visto un
pulsante, montato su pietre preziose. E un marziano con indosso una tunica
azzurra giaceva morto ai piedi della colonna, proprio sotto il pulsante, come
se l’avesse premuto e poi fosse morto. E tutti gli altri erano morti nello
stesso momento, insieme a lui. Tutti, su Marte, erano morti tranne io.
«Così sono atterrato sulla piattaforma, sono uscito dal targan e ho
schiacciato il pulsante. Volevo morire anch’io; tutti gli altri erano morti e
volevo morire anche io. Ma non ci sono riuscito. Ero in tram, sulla Terra,
mentre tornavo a casa dall’ufficio, e mi chiamavo…»
Feci un segno a Barney.
«Statemi a sentire, Howard» dissi «Ci berremo ancora una birra e poi voi
tornerete a casa da vostra moglie. Già ora vi farà una scenata, e più aspettate
peggio sarà. E se volete un consiglio, compratele dei dolci o dei fiori, e
mentre andate a casa inventate una scusa che sia veramente convincente. Non
come quella che avete raccontato a me».
Lui cominciò: «Ma...»
Lo interruppi: «Non ci sono ma. Vi chiamate Howard Wilcox e fareste bene
a tornare a casa. Vi dirò quel che può essere successo. Sappiamo ancora ben
poco della mente umana, e molti strani fenomeni si verificano in questo campo. Forse
la gente del medioevo non si sbagliava poi troppo a credere neo posseduti. Volete
sapere che cosa vi è capitato?».
«Che cosa? Per l’amore del cielo, datemi una qualsiasi spiegazione...
purché non mi veniate a dire che sono pazzo...»
«Credo che finirete davvero per impazzire se continuate a pensarci,
Howard. Mettetevi in mente che una spiegazione naturale ci dev’essere per forza
e poi cercate di dimenticare tutto. Tiro a indovinare, si capisce, ma potrebbe
essere andata così».
Barney arrivò con le birre e aspettai che fosse tornato dietro il banco.
Dissi: «Howard, può darsi che un uomo, voglio dire un marziano, di nome
Yangan Dal, sia effettivamente morto oggi su Marte. Può darsi che fosse davvero
l’ultimo marziano. E può darsi che in qualche modo la sua mente sia entrata in
contatto con la vostra nel momento in cui moriva. Non dico che sia andata
proprio così, ma non è possibile crederlo. Fate conto che la spiegazione sia
questa, Howard, e tenete duro. Comportatevi come se foste Howard Wilcox… e
tutte le volte che vi viene un dubbio guardatevi nello specchio. Tornate a casa
e fate la pace con vostra moglie; domattina andate in ufficio come se niente
fosse e cercate di dimenticarvi tutta questa storia. Non vi pare che sia questa
l’idea migliore?»
«Be’, forse avete ragione. Alla prova dei fatti…»
«È quella che conta. Finché non avrete una prova migliore attenetevi a
quella».
Finimmo le nostre birre, lo accompagnai fuori e lo misi su un tassì. Gli ricordai
di comprare dolci o fiori e di escogitare un alibi convincente, invece a
continuare a pensare a quel che m’aveva raccontato.
Poi tornai nel palazzo della «Tribune», salii da Cargan, e entrando nel
suo ufficio chiusi la porta dietro di me.
Dissi: «È tutto a posto, Cargan. L’ho calmato».
«Cos’era successo?»
«È proprio un marziano. Ed era l’ultimo marziano rimasto su Marte. Solo
che non sapeva che noi eravamo venuti qui; credeva che fossimo morti tutti».
«Ma come… come è possibile che sia stato dimenticato là? Com’è possibile
che non sapesse niente?»
Dissi: «È un mezzo deficiente. Era in una clinica per minorati a Skar e
qualcuno s’è dimenticato di lui; era chiuso a chiave nella sua stanza quando è
stato azionato il pulsante che ci ha spediti qui. Non era fuori all’aperto e
così non ha potuto ricevere i raggi mentaport che hanno trasmesso la nostra
psiche attraverso lo spazio. È scappato dalla stanza, a Zandar ha trovato la
piattaforma dove si è svolta la cerimonia, e ha schiacciato il pulsante anche
lui. Ci doveva essere ancora abbastanza energia da farlo arrivare fin qui».
Cargan fischiò piano tra i denti. «Gli hai detto la verità? Ed è un tipo
che sa tenere la bocca chiusa?»
Scossi il capo. «No a tutte e due le domande. Il suo quoziente
intellettivo non dev’essere più di quindici, direi. Ma è il livello medio dell’intelligenza
terrestre, e perciò qui se la caverà benissimo. Sono riuscito a convincerlo che
è veramente il terrestre in cui la sua psiche s’è infilata per caso.»
«Meno male che è entrato da Barney. Ora gli telefono per dirgli che è
tutto a posto. Mi stupisce che non gli abbia dato qualche sonnifero prima di
telefonarci».
Dissi: «Barney è uno di noi. Non l’avrebbe mai lasciato scappare.
L’avrebbe trattenuto in un modo o nell’altro fino al nostro arrivo».
«Ma tu l’hai lasciato scappare. Sei sicuro che non ci sia pericolo? Non
sarebbe stato meglio…»
«Andrà tutto benissimo» dissi. «Mi prendo io la responsabilità di tenerlo
d’occhio finché non abbiamo tutto in mano noi. Dopo, credo che dovremo di nuovo
rinchiuderlo in qualche istituto. Ma sono contento di non averlo dovuto
uccidere. È pur sempre uno di noi, deficiente o no. E probabilmente sarà così
felice quando scoprirà di non essere l’ultimo
dei marziani che non gli importerà di finire di nuovo in manicomio».
Tornai in sala cronaca e sedetti alla mia scrivania. Slepper non c’era,
l’avevano mandato in qualche posto per qualche cosa. Johnny Hale alzò gli occhi
dal rotocalco che stava leggendo. «Un bel caso?» domandò.
«Figurati» dissi, «un ubriaco che voleva rendersi interessante. Mi
stupisce che Barney ci abbia scomodati».
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