domenica 27 novembre 2016

22 Orlando furioso - Canto ventesimoterzo: ottave 100-136 (di Ludovico Ariosto)




LA PAZZIA D'ORLANDO

Angelica, la principessa del Catai di cui tutti sono innamorati, fugge da ciascuno dei suoi spasimanti, finché anche lei incontra Medoro, un giovanetto che ella accudisce ferito e poi se ne innamora. Quando Orlando viene a sapere, prima attraverso le scritte che Angelica e Medoro hanno lasciato sulle cortecce degli alberi, poi attraverso il racconto del pastore presso cui ha trovato riparo, che i due sono diventati amanti, impazzisce. Si abbandona alle stranezze più furiose, dimentico dell’onore cavalleresco che lo vorrebbe a combattere per Carlo Magno.

100
Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.
101
Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.
102
Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.
103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: - Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette.
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.
105
Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.
106
Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.
107
Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:
108
 - Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:
109
e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia.
110
Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.
111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.
113
L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.
114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.
115
In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.
116
Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l'armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.
117
Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.
118
Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:
119
come esso a prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:
120
e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.
121
Questa conclusion fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
122
Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.
123
In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.
125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:
126
- Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ’l dolore e la vita all’ore estreme.
127
Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?
128
Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza.
129
Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
L’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.
130
Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe' le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.
132
Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.
133
Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
L’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.


PARAFRASI:

100
L’insolito corso che il cavallo del Saracino [si tratta di Mandricardo, con cui Orlando si è precedentemente scontrato a duello, finché il cavallo del moro è fuggito via spaventato: Orlando lo sta inseguendo] tenne nel bosco senza lasciare traccia della via seguita, fece sì che Orlando andò per due giorni invano, senza trovarlo, senza averne indizio. Egli giunse ad un fiume che pareva cristallo, sulle cui sponde fioriva un bel praticello, grazioso e dipinto dei colori naturali e ornato di molti alberi belli.
101
Il meriggio rendeva gradevole l’ombra ventilata agli animali induriti [dalle intemperie] e ai pastori ignudi; tanto che neppure Orlando sentiva alcuna spiacevole sensazione di freddo, pur indossando la corazza, l’elmo e lo scudo. Qui in mezzo egli entrò per riposare; ma vi trovò dolorosa e crudele dimora, e soggiorno più funesto di quanto si possa dire, quell’infelice e sfortunato giorno.
102
Volgendosi qui intorno, vide sull’ombrosa riva molti alberelli scritti [cioè che recavano delle scritte nella corteccia]. Non appena fermò gli occhi su di essi e poi li fissò attentamente, fu sicuro che fossero di mano della sua Dea [cioè Angelica]. Questo era uno di quei luoghi già descritti [nel canto XIX], dove la bella donna regina del Catai veniva spesso con Medoro dalla casa del pastore lì vicina.
103
Vede i nomi di Angelica e Medoro intrecciati assieme in cento nodi diversi e in cento luoghi [praticamente, ovunque]. Quante sono le lettere, tanti sono i chiodi con i quali Amore gli punge il cuore e lo ferisce. Va cercando con il pensiero in mille modi di non credere a quello a cui a suo dispetto crede: si sforza di credere che sia un’altra Angelica, quella che ha scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: - Pure io conosco questa scrittura: l’ho veduta e letta tante volte. Forse ella può aver immaginato questo Medoro: forse ha messo a me questo cognome. - Con simili opinioni ben lontane dalla verità, ingannando sé stesso, lo scontento Orlando stette nella speranza che egli seppe procurare a sé stesso.
105
Ma quanto più cerca di spegnere il doloroso sospetto, tanto più lo riaccende e lo rinnova: come l’incauto uccello che si ritrova ad essere incappato nella rete o nel vischio, quanto più batte le ali e prova a districarsene, tanto più vi si lega stretto. Orlando giunge dove il monte si incurva formando una specie di arco sulla chiara sorgente.
106
Sull’entrata edere e viti flessibili con i loro rami storti avevano adornato il luogo. Qui erano soliti starsene abbracciati nelle ore più calde del giorno i due felici amanti. Vi avevano scritto i loro nomi dentro e d’intorno, più che negli altri luoghi circostanti, o con il carbone o con il gesso, o lo avevano impresso con la punta di un coltello.
107
L’afflitto conte a piedi qui discese; e vide sull’entrata della grotta un gran numero di parole, che di sua mano aveva tracciate Medoro, che sembravano state scritte proprio allora. Del grande piacere che aveva ricevuto nella grotta, aveva scritto in versi questa sentenza. Io penso che fosse espressa nella sua lingua e questo ne era il senso nella nostra:
108
- Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelonca oscura e gradevole per le fredde ombre, dove la bella Angelica, che nacque da Galafrone, amata invano da molti, spesso giacque nuda tra le mie braccia; del piacere che qui mi è stato dato, io povero Medoro non posso ricompensarvi con altro, che con le mie lodi:
109
e con il pregare ogni signore amante, i cavalieri, le damigelle, qualunque persona, del luogo o viandante, qui condotta per sua volontà o per caso fortuito, di dire alle erbe, alle ombre, all’antro, al ruscello, alle piante: abbiate benigni e sole e luna, e il coro delle ninfe, che provveda affinché il pastore non porti mai qui il proprio gregge –
110
Era scritto in arabo, che il conte intendeva bene quanto il latino: tra molte e molte lingue ch’egli conosceva bene, il paladino conosceva benissimo quella, e ciò più volte gli aveva evitato danni e vergogne, quando si trovò tra il popolo saraceno. Ma non si vanti, se ne ebbe altre volte giovamento; perché ora ne ha un danno, che può fargli ripagare tutto.
111
Quell’infelice lesse lo scritto tre volte e quattro e sei, e ogni volta cercando invano che non ci fosse scritto quel che c’era scritto; e lo vedeva sempre più chiaro e preciso: e ogni volta sentiva in mezzo al petto, afflitto, stringersi il cuore con fredda mano. Infine rimase con gli occhi e con la mente fissi nel sasso, non differente dal sasso [cioè anche lui pietrificato].
112
Fu allora sul punto di uscire totalmente di sé: così tutto in preda al dolore si abbandona. Credete a chi ne ha fatto esperienza, che questo è il dolore che supera tutti gli altri. Il mento gli era caduto sul petto, la fronte priva di baldanza e abbassata; e non poté avere (tanto il dolore lo oppresse) voce per lamentarsi, o lacrime per piangere.
113
L’affanno impetuoso gli rimase dentro, che voleva uscire tutto con troppa fretta. Così vediamo l’acqua restare nel vaso, che abbia largo il ventre e stretta la bocca; se lo capovolgiamo, il liquido che vorrebbe uscire tanto s’affretta, e nello stretto passaggio tanto s’intralcia, che ne esce fuori a goccia a goccia e a fatica.
114
Poi ritorna un poco in sé e pensa se è possibile che la cosa non sia vera: crede che qualcuno abbia voluto in quel modo infamare il nome della sua Donna e lo brama e lo spera, oppure che abbia voluto gravarlo di tanto insopportabile peso di gelosia, da farlo morire; e che quello, chiunque sia stato, abbia imitato molto bene la mano [la grafia] di lei.
115
Con così poca, con così debole speranza rianima lo spirito e un poco si rinfranca; quindi preme il dorso al suo Brigliadoro [sale sul suo cavallo e lo preme con il suo peso], mentre il Sole lascia il posto alla sua sorella [= la Luna]. Non fa molta strada ed ecco che da sopra i tetti [= dai camini delle case] vede uscire il vapore del fuoco [cioè il fumo], sente cani che abbaiano, mandrie che muggiscono; giunge alla casa e vi prende alloggio:
116
Languido smonta e lascia Brigliadoro a un garzone esperto, perché ne abbia cura. Altri gli tolgono le armi, altri gli speroni d’oro gli levano, altri vanno a pulire l’armatura. Questa era la casa dove Medoro giacque ferito e vi trovò una grande fortuna. Orlando si corica e non chiede di cenare, sazio di dolore e non di altre vivande.
117
Quanto più cerca di trovare quiete, tanto più trova affanno e pena; perché vede pieni delle scritte odiate ogni parete, ogni uscio, ogni finestra. Ne vorrebbe chiedere [informazioni]: poi tiene le labbra quiete; perché teme di rendere a se stesso troppo limpida, troppo chiara la cosa che cerca di velare di nebbia, affinché gli debba nuocere di meno.
118
Gli giova poco imbrogliare se stesso; perché, senza che egli lo domandi, c’è chi gliene parla. Il pastore, che lo vede così oppresso dalla sua tristezza, e che vorrebbe levargliela, cominciò senza rispetto [cioè senza considerarne le conseguenze sull’animo del paladino] a raccontargli la storia a lui ben nota di quei due amanti che egli ripeteva spesso a chi voleva ascoltarla:
119
com’egli in seguito alle preghiere di Angelica aveva portato nella sua casa Medoro; che era ferito gravemente ed ella curò la piaga e la guarì in pochi giorni: ma Amore ferì lei nel cuore d’una piaga maggiore di quella; e da una piccola scintilla l’accese tanto fuoco e così cocente, che ne ardeva tutta e non trovava pace;
120
e senza avere riguardo per la sua condizione di figlia del più grande re che ci sia in Oriente, spinta da troppo amore si ridusse a farsi moglie d’un povero fante. La conclusione della storia fu che il pastore fece portare davanti [a Orlando] la gemma che, alla sua partenza, per ringraziarlo della buona ospitalità, Angelica gli aveva dato [è lo stesso anello con pietra preziosa che Orlando aveva donato ad Angelica].
121
Questa conclusione fu la scure che con un colpo solo gli levò la testa dal collo, dopo che il manigoldo Amore lo aveva ripetutamente battuto [i manigoldi erano i carnefici che decapitavano il condannato dopo averlo battuto con la frusta]. Orlando cerca di celare il dolore; eppure è quello che lo sforza e malamente lo può nascondere: per lacrime e sospiri dalla bocca e dagli occhi conviene, voglia o non voglia, che infine prorompa.
122
Allorché può togliere il freno al suo dolore (poiché resta solo, senza ritegno per la presenza di altri) sparge un fiume di lacrime, rigando le gote giù dagli occhi e fino al petto: sospira e geme e con continui rivolgimenti va di qua di là per tutto il letto: è più duro d’un sasso e se lo sente più pungente che se fosse d’ortica.
123
In tanto aspro dolore gli sovviene che nello stesso letto in cui giaceva, l’ingrata donna doveva essere venuta a porsi più volte con il suo amante. Ora abborrisce quel letto di piume non diversamente, né con minore sveltezza se ne leva, di quanto faccia un contadino che si sia fatto un giaciglio d’erba per dormire e subito ne veda uscire una serpe.
124
Quel letto, quella casa, quel pastore subito gli vengono in tanto odio, che, senza aspettare che la Luna [tramonti], o che l’alba, che precede il nuovo giorno, sorga, piglia le armi e il destriero ed esce fuori in mezzo al bosco dove le frasche sono più buie; e quando poi è sicuro di essere da solo, con grida ed urli offre una via di sfogo al dolore.
125
Non cessa mai di piangere, mai di gridare; non si dà pace mai né di notte né di giorno: fugge da città e da borghi e giace nella foresta sul duro terreno all’aperto. Si meraviglia di sé, d’avere nella testa una così vivace sorgente d’acqua [cioè di lacrime] e di come possa mai sospirare così tanto; e spesso dice così a se stesso mentre piange:
126
- Queste non sono più lacrime, che mando fuori dagli occhi in maniera così copiosa. Le lacrime non sono bastate a sfogare il dolore: sono finite, quando il dolore era appena a metà. Spinta dal fuoco l’essenza vitale ora fugge per quella via [quella delle lacrime] che porta agli occhi; ed è essa [cioè l’essenza vitale] quella che sto versando e che porterà alle ore estreme [alla fine] insieme il dolore e la mia vita.
127
Questi che manifestano il mio tormento non sono sospiri, perché i sospiri non sono fatti così. Quelli hanno tregua talvolta; io non sento mai che il mio petto mandi fuori la sua pena con minore intensità. Amore che mi arde il cuore provoca questa vento, mentre batte le sue ali intorno al fuoco [cioè, l’Amore, che brucia e consuma il mio cuore, produce questi apparenti sospiri, che in realtà sono il vento prodotto dalle sue ali agitate intorno al fuoco da lui stesso acceso e alimentato]. Amore, con quale stratagemma lo fai, di tenere il mio cuore nel fuoco e non lo consumi mai?
128
Non sono, non sono io quel che sembro in viso: quello che era Orlando è morto ed è sotto terra; la sua donna ingratissima l’ha ucciso: così, mancandogli di fede, gli ha fatto guerra. Io sono il suo spirito da lui separato, che erra tormentandosi in questo inferno, affinché con la sua ombra, la sola cosa che resta di me, sia di esempio per chi pone speranza nell’Amore. -
129
Per il bosco errò il Conte tutta la notte; e allo spuntar della fiamma diurna [= il Sole] il suo destino lo fece tornare sopra la fonte, dove Medoro aveva scolpito le sue parole. Vedere la sua ingiuria scritta nel monte lo accese a tal punto, che in lui non restò neppure una minima parte che non fosse odio, rabbia, ira e furore; non più indugiò, che tirò fuori la spada.
130
Tagliò la scritta e il sasso e fece alzare fino al cielo al volo le schegge minute. Infelice quell’antro ed ogni albero in cui si leggono i nomi di Medoro e di Angelica! Così restarono quel giorno, che non daranno mai più né ombra né fresco, né a pastore né a gregge: e quella fonte, prima così chiara e pura, fu poco sicura di salvarsi da così tanta ira;
131
che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non smise di gettare nelle belle onde, finché dalla superficie al fondo talmente le sconvolse, che non furono mai più chiare né limpide; e infine stanco, infine molle di sudore, poiché il vigore, vinto, non risponde più al suo sdegno, al grave odio, all’ira ardente, cade sul prato e sospira verso il cielo.
132
Afflitto e stanco infine cade nell’erba e punta gli occhi al cielo, e non dice una parola. Così rimane senza cibo e senza dormire, che il sole esce e tramonta per tre volte. Non cessò di crescere la pena immensa, che infine lo condusse fuor di senno. Il quarto giorno spinto da gran pazzia si stracciò di dosso maglie e piastre.
133
Qui resta l’elmo, là rimane lo scudo, lontano le varie parti dell’armatura e più lontano la corazza: tutte le sue armi, insomma vi concludo, erano sparse per il bosco. Poi si squarciò i panni e mostrò nudo il ventre peloso e tutto il petto e il dorso; e cominciò la grande follia, così orrenda, che mai nessuno sentirà parlare di una maggiore.
134
Venne in tanta rabbia, in tanto furore, che rimase offuscato in ogni senso. Non gli venne in mente di prendere in mano la spada, che penso avrebbe potuto fare cose meravigliose. Ma il suo vigore immenso non aveva bisogno né di quella né di una scure né di una bipenne [= ascia a doppio taglio]. Qui fece molte delle sue più grandi imprese; che sradicò con un solo colpo un alto pino:
135
e dopo il primo ne sradicò parecchi altri, come fossero finocchi, ebbi [= piante simili a sambuchi] o aneti [= un altro tipo di finocchi]; e fece la stessa cosa di querce e di vecchi olmi, di faggi e di orni e di elci e di abeti. Ciò che fa un uccellatore [= cacciatore di uccelli] che si prepara il campo, prima di porvi le reti, mondandolo di giunchi, stoppie e ortiche, egli faceva di cerri e di altre antiche piante.
136
I pastori che hanno sentito il fracasso, lasciando il gregge sparso nella foresta, chi di qua, chi di là, tutti a passi veloci vengono a vedere che cosa sta succedendo. Ma sono giunto a quel punto che, se io l’oltrepasso, la mia storia potrebbe diventarvi molesta; perciò piuttosto la voglio rinviare, prima che per la troppa lunghezza vi debba infastidire.

La pazzia d’Orlando, illustrazione di Gustave Doré





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