domenica 29 ottobre 2017

124 Stalin, Toscanini e la tirannia (di Julian Barnes)



Con questo terzo post da “Il rumore del tempo” (2016) concludo la presentazione di questo bel romanzo. Qui si narra il Secondo colloquio con il Potere di Dmitrij Šostakovič, una telefonata con Stalin in persona, che gli chiede di andare a New York a un Congresso culturale. Quindi il musicista riflette su che cos’è la tirannia e esprime le sue opinioni su Arturo Toscanini, il celebre direttore d’orchestra italiana, famoso anche per le sue sfuriate contro gli orchestrali. Da qui, infine, una riflessione sulla rivoluzione sovietica e sulle meraviglie che ha introdotto nella storia.

Poi, dopo un anno in disgrazia, ebbe il Secondo Colloquio con il Potere. «Il rombo del tuono viene dal cielo, non da un mucchio di sterco», come dice il poeta. Era a casa con Nita e il compositore Levitin il 16 marzo 1949, quando squillò il telefono. Rispose, stette in ascolto, assunse un’aria grave e infine disse agli altri due:
- Sta per prendere la linea Stalin.
Nita si precipitò nella stanza accanto all’altro apparecchio.
- Dmitrij Dmitrievič, - esordì la voce del Potere, - come sta?
- Grazie, Iosif Vissarionovič, tutto bene. Giusto qualche fastidio di stomaco.
- Mi dispiace sentirlo. Dovremo trovarle un dottore.
- No, grazie. Non mi occorre nulla. Ho tutto il necessario.
- Tanto meglio -. Ci fu una pausa. Poi la poderosa cadenza georgiana, la voce trasmessa da un milione di radio e di altoparlanti, gli domandò se era a conoscenza del prossimo Congresso culturale e scientifico per la pace nel mondo che si sarebbe tenuto a New York. Disse che ne era a conoscenza.
- E che cosa ne pensa?
- Penso che la pace è sempre meglio della guerra, Iosif Vissarionovič.
- Bene. Dunque sarà lieto di partecipare in nostra rappresentanza.
- No, non posso, temo.
- Non può?
- Me lo ha domandato il compagno Molotov. Ho risposto che non mi sento abbastanza bene.
- In tal caso, come ho già detto, le manderemo un dottore per farla stare meglio.
- Non è solo questo. Patisco il mal d’aria. Non posso volare.
- Non è un problema. Il dottore le prescriverà qualche pillola.
- È davvero gentile.
- Dunque ci andrà?
Tacque per un momento. Una parte di lui era consapevole che una sola sillaba sbagliata l’avrebbe portato dritto in un campo di lavoro, mentre l’altra parte, con sua grande sorpresa, aveva superato la paura.
- No, Iosif Vissarionovič, proprio non posso. Per un altro motivo.
- Cioè?
- Non possiedo un frac. Non posso suonare in pubblico senza il frac. E temo di non potermene permettere uno.
- Beh, Dmitrij Dmitrievič, non sono io a occuparmi direttamente di queste cose, ma sono certo che la sartoria dei funzionari d’amministrazione del Comitato centrale non avrà problemi a confezionargliene uno di suo gradimento.
- La ringrazio. Ma temo rimanga un’altra ragione.
- Che non mancherà di chiarirmi, giusto?
Sì, esisteva in effetti una remota possibilità che Stalin non lo sapesse.
- Il fatto è, vede, che mi trovo in una posizione molto imbarazzante. In America, la mia musica viene eseguita spesso, e qui no. Me ne chiederebbero senz’altro conto. Dunque, come dovrei comportarmi in circostanze del genere?
- In che senso, Dmitrij Dmitrievič, la sua musica non viene eseguita?
- È proibita. Come quella di tanti colleghi dell’Unione dei compositori.
- Proibita? E da chi?
- Dalla Commissione centrale per i repertori. Dal 14 di febbraio dello scorso anno. Esiste un lungo elenco di opere che non possono essere eseguite. Ma come può immaginare, Iosif Vissarionovič, il risultato è che i direttori artistici non sono invogliati a inserire in programma nemmeno altre mie composizioni. E i musicisti hanno paura di eseguirle. Perciò, di fatto, sono sulla lista nera. Come altri colleghi.
- E chi ha dato un ordine simile?
- Deve essere stato un compagno ai vertici del Potere.
- No, - rispose la voce. - Da noi quell’ordine non è partito.
Lasciò al Potere il tempo di rifletterci su.
- No, non abbiamo mai dato quell’ordine. Si tratta di uno sbaglio. E come tale deve essere corretto. Nessuna delle sue opere è stata proibita. Si possono eseguire tutte, tranquillamente. Non è mai stato vero il contrario. Ci dovrà essere una sanzione ufficiale.
Qualche giorno più tardi, assieme ad altri compositori, ricevette copia dell’ordine originale di divieto di esecuzione. Al foglio era stato pinzato un documento che sanciva l’illegalità della disposizione in oggetto e condannava la Commissione centrale per i repertori responsabile del divieto. La correzione era firmata «Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Urss, I. Stalin».
E dunque lui era andato a New York.

Nei suoi pensieri, tirannia e rozzezza erano state inseparabili. Non gli era sfuggito il fatto che Lenin, al momento di dettare il proprio testamento politico e di indicare un suo possibile successore, aveva individuato proprio nella «rozzezza» il difetto peggiore di Stalin. Quanto al suo mondo specifico, personalmente non gli andavano giù i direttori d’orchestra definiti in toni encomiastici dei «dittatori». Mostrarsi sgarbato con un orchestrale che si sforza di fare del proprio meglio era vergognoso. Ma questi tiranni, questi imperatori della bacchetta, gongolavano nel sentire utilizzare tale terminologia, quasi che un’orchestra potesse suonare bene solo se umiliata, irrisa, frustata.
Il peggiore era Toscanini. Non lo aveva mai visto in azione; lo conosceva solo dalle cronache. Ma in lui era tutto sbagliato – tempi, spirito, nuance… Toscanini tritava la musica come fosse un pasticcio di carne e poi ci scucchiaiava sopra una salsa schifosa. Il che lo faceva infuriare. Una volta, il «maestro» gli aveva mandato una registrazione della sua Settima sinfonia. Lui aveva risposto sottolineando i numerosi errori dell’illustre direttore. Non sapeva se Toscanini avesse mai ricevuto la lettera, né se, in caso affermativo, l’avesse capita. Doveva aver ritenuto che contenesse soltanto lodi, perché poco tempo dopo a Mosca giunse la trionfale notizia che lui, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, era stato eletto membro onorario dell’Associazione Arturo Toscanini! E ancora qualche tempo dopo, aveva cominciato a ricevere in dono dischi di musica rigorosamente diretti dall’insigne negriero. Lui ovviamente non li ascoltava, ma li metteva da parte per farne futuri regali. Non per gli amici, s’intende, ma per un certo tipo di conoscenti, quelli di cui era sicuro che ne sarebbero stati entusiasti.
Non era soltanto una questione di amor proprio; e neppure un problema che riguardasse soltanto la musica. Quei direttori urlavano e imprecavano, facevano scenate, minacciavano di licenziare il primo clarinetto per essersi presentato in ritardo. E l’orchestra, costretta a tollerare un simile trattamento, reagiva raccontando aneddoti alle spalle del direttore – aneddoti che lo ritraevano come un «autentico personaggio». E infine arrivavano a convincersi di ciò che credeva l’imperatore della bacchetta in persona: e cioè che suonavano bene solo in virtù delle frustate ricevute. Facevano gregge compatto, nel loro masochismo, lanciandosi di quando in quando un commento sarcastico, ma di fatto ammirando la nobiltà e l’idealismo del loro maestro, la sua determinazione, la capacità di vedere orizzonti più vasti di chi si limitava a strimpellare e soffiare dietro un leggio. Il maestro, per quanto costretto talvolta a mostrarsi duro, era un grande leader e andava seguito. A questo punto, chi avrebbe ancora potuto negare che un’orchestra fosse un microcosmo del sistema?

Dunque quando un direttore di questo tipo, impaziente perfino con la partitura che gli stava di fronte, ipotizzava un difetto o un errore, lui aveva pronta la garbata risposta formale messa a punto molto tempo addietro.
Perciò immaginava il seguente scambio di battute.
Potere: - Guardi che noi abbiamo fatto la Rivoluzione.
Cittadino Secondo Oboe: - Sì, e una rivoluzione meravigliosa, naturalmente. Enorme passo avanti rispetto al passato. Davvero un traguardo importante. Delle volte, però, mi chiedo… mi posso sbagliare, intendiamoci, ma era necessario in nome della Rivoluzione fucilare tutti quegli ingegneri, e i generali, gli scienziati, i musicologi? Spedire milioni di persone nei campi, utilizzare manodopera forzata da sfruttare fino alla morte, seminare ovunque il Terrore, estorcere false confessioni? Allestire un sistema nel quale, anche tra i più defilati, sono centinaia gli uomini che ogni notte si aspettano di essere tirati giù dal letto e trascinati alla Grande casa o alla Lubjanka (1) per subire torture o essere costretti ad apporre la propria firma sotto documenti di assoluta e completa invenzione e finire poi giustiziati con una pallottola alla nuca? Lei capirà, me lo sto solo chiedendo.
Potere: - Ma sì, ma sì, ho capito. Ha senz’altro ragione lei. Ma per adesso lasciamo perdere. Di quel cambiamento ci occuperemo la prossima volta.
[…]
Certamente la Russia aveva conosciuto altri tiranni in passato; per questo sul territorio era cresciuto tanto il senso dell’ironia. «La Russia è la patria degli elefanti», come diceva il proverbio. La Russia ha inventato ogni cosa perché… beh, in primis perché è la Russia, il paese dove le illusioni sono normale amministrazione; e secondo, perché adesso era diventata la Russia sovietica, vale a dire la nazione socialmente più all’avanguardia della storia, nella quale era naturale che si inventasse di tutto. Dunque, quando la Ford Motor Company (2) interruppe la produzione del Modello A, le autorità sovietiche rilevarono l’intero impianto manifatturiero e, meraviglia delle meraviglie, ecco atterrare sul pianeta un autobus da venti posti o furgone leggero di progetto squisitamente sovietico! Idem dicasi per le fabbriche di trattori: una linea di produzione americana, importata dall’America e assemblata da tecnici americani, che all’improvviso sfornava macchine agricole sovietiche. O ancora: la copia di una macchina fotografica Leica (3) che, voilà, si trasformava in una Fed, prendendo il nome dal suo fondatore Feliks Dzeržinskij: più sovietica di così… Chi l’aveva detto che l’era dei miracoli apparteneva al passato? Il tutto realizzato a suon di parole dal potere di trasformazione, quello sì davvero rivoluzionario. Prendiamo ad esempio il pane francese. Come tale lo conoscevano tutti, e così lo chiamavano da anni. Poi un bel giorno, il pane francese sparì dai negozi. Era invece comparso il «pane di città» - identico all’altro in tutto e per tutto, ovviamente, ma assurto al rango di patriottico prodotto della megalopoli sovietica.

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(1) Lubjanka = il nome di un palazzo di Mosca, famigerato per essere stato la sede dei servizi segreti sovietici (ancora oggi ospita tali servizi).
(2) Ford Motor Company = Industria automobilistica statunitense.
(3) Leica = marchio industriale svizzero-tedesco.

Stalin e Toscanini: un accostamento bizzarro, ma neanche tanto




123 Il Primo Colloquio con il Potere (di Julian Barnes)



Dmitrij Šostakovič, dopo che la sua opera Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk è stat stroncata dalla Pravda come “Caos anziché musica”, viene convocato per un colloquio dal Potere sovietico in un tetro palazzo di Leningrado. L’interrogatorio lo coinvolgerà provvisoriamente in un complotto per l’assassinio di Stalin e il grande compositore immagina già le conseguenze di quell’accusa.
Il brano è tratto da “Il rumore del tempo” del 2016: l’edizione italiana è stata pubblicata da Einaudi nella traduzione di Susanna Basso.

Nella primavera del ’37, ebbe il suo Primo Colloquio con il Potere. Non era certo la prima volta che comunicava con il Potere, o che il Potere comunicava con lui: c’erano stati funzionari, burocrati, membri del Partito con i loro suggerimenti, le proposte, gli ultimatum. Il Potere gli aveva parlato attraverso gli organi di stampa, a livello pubblico, e gli aveva sussurrato all’orecchio, a livello privato. Di recente, il Potere lo aveva umiliato, sottraendogli energia vitale e ingiungendogli di pentirsi. Il Potere gli aveva chiarito come ci si aspettava che componesse, e che vivesse. Ora forse insinuava l’ipotesi che, tutto considerato, fosse a questo punto più auspicabile che non vivesse affatto. Il Potere aveva optato per un faccia a faccia con lui. Il nome in rappresentanza del Potere era quello di Zakrevskij, e la sede presso la quale il Potere si rivolgeva a individui come lui a Leningrado era la Grande casa. Molti di coloro che entravano alla Grande casa sulla Liteinij Prospekt non ne uscivano più.

L’appuntamento era per un sabato mattina. Con famigliari e amici sostenne che si trattava senza dubbio di una formalità, forse una conseguenza automatica degli articoli contro di lui che continuavano a uscire sulla «Pravda». Personalmente non ci credeva, e dubitava che ci credessero gli altri. Non capitava a tanti di essere convocati alla Grande casa per discutere di teoria della musica. Va da sé che si presentò puntuale. E da principio, il Potere si mostrò civile e cortese. Zakrevskij gli chiese del suo lavoro, di come procedesse la sua vita professionale, di cosa avesse in mente di comporre nel prossimo futuro. In risposta, quasi sulla spinta di un riflesso condizionato, lui disse che stava preparando una sinfonia sul compagno Lenin, cosa peraltro del tutto plausibile. Ritenne poi prudente far cenno alla campagna di stampa contro di lui, e fu incoraggiato dal tono di quasi superficiale nonchalance dell’interrogatore sull’argomento. Poi vennero le domande sugli amici e sulle persone che frequentava con regolarità. Non sapeva che tipo di risposta fornire. Zakrevskij gli venne in soccorso.
- Ho sentito che lei conosce bene il Maresciallo Tuchačevskij. È così?
- Sì, lo conosco.
- Mi racconti come l’ha conosciuto.
Riferì dell’incontro avvenuto dietro il palco nella Sala piccola del Conservatorio di Mosca. Spiegò che il Maresciallo era un noto appassionato di musica, che aveva assistito a numerosi suoi concerti, che suonava il violino e addirittura costruiva violini per passatempo. Il Maresciallo lo aveva invitato a casa; avevano perfino suonato qualche pezzo insieme. Era un buon violinista dilettante. «Buono» davvero? Capace, sicuramente. E capace di migliorare.
- È stato a casa sua in molte occasioni?
- Di quando in quando, sì.
- Di quando in quando per un periodo di quanti anni? Otto, nove, dieci?
- Sì, più o meno.
- Dunque, diciamo quattro o cinque visite l’anno? Per un totale di quaranta, cinquanta visite?
- Meno, direi. Non ho mai tenuto il conto. Ma direi di meno.
- Ma lei è un amico intimo del Maresciallo Tuchačevskij, giusto?
Tacque per riflettere. - No, intimo no, un buon amico.
Non accennò al fatto che il Maresciallo lo avesse sostenuto finanziariamente, gli avesse offerto consigli, che avesse scritto a Stalin prendendo le sue difese. I casi erano due, o Zakrevskij lo sapeva già oppure non sapeva.
- E chi altri era presente in queste quaranta o cinquanta occasioni, a casa del suo buon amico?
- Non molte persone. Tutti membri della famiglia.
- Tutti membri della famiglia -. Il tono dell’interrogatore si era fatto comprensibilmente scettico.
- E qualche musicista. Qualche musicologo.
- Qualche politico per caso?
- No, nessun politico.
- Ne è proprio sicuro?
- Beh, vede, si trattava di riunioni talvolta piuttosto affollate. Non è che io… A dirla tutta, io ero spesso al pianoforte a suonare…
- E di cosa si parlava?
- Di musica.
- E di politica.
- No.
- Andiamo, andiamo, come si fa a non toccare l’argomento politica con un uomo dello stampo del Maresciallo Tuchačevskij?
- Diciamo che era… fuori servizio. Circondato da musicisti e da amici.
- E le risulta che fossero presenti altri uomini politici… fuori servizio?
- No, mai. In mia presenza nessuno parlò mai di politica.
L’interrogatore gli rivolse un lunghissimo sguardo. Poi la sua voce subì un cambiamento, quasi a costruire la serietà minacciosa consona al ruolo.
- Allora, io credo che le convenga rinfrescarsi bene la memoria. Non può essere che in veste di «buon amico», come si definisce, lei sia stato in casa del Maresciallo Tuchačevskij regolarmente per un arco di tempo che copre gli ultimi dieci anni senza mai parlare di politica. Prendiamo ad esempio il complotto per assassinare il compagno Stalin. Che cosa sentì dire in proposito?
Fu a quel punto che seppe di essere un uomo morto. «Ed ecco avvicinarsi l’ora di un altro», solo che questa volta era la sua. Ripeté, il più pacatamente possibile, che non si era mai parlato di politica dal Maresciallo Tuchačevskij; si trattava di serate dedicate esclusivamente alla musica; le questioni di stato restavano fuori dalla porta insieme a cappelli e cappotti. Non era certo che fosse il modo migliore per dirlo. Del resto Zakrevskij non gli prestava più ascolto.
- Le suggerisco di ripensarci bene, - disse l’interrogatore. - Sulla questione del complotto abbiamo già la testimonianza di altri ospiti.
Si rese conto che Tuchačevskij doveva essere stato arrestato, che la carriera, e la vita stessa del Maresciallo, erano agli sgoccioli; che l’indagine era appena iniziata e che chiunque orbitasse intorno al Maresciallo sarebbe presto scomparso dalla faccia della terra. La sua personale innocenza era irrilevante. Quanto era stato deciso era stato deciso. E se agli interrogatori occorreva dimostrare che la cospirazione appena scoperta o appena inventata si era già così perniciosamente diffusa da coinvolgere perfino il più celebre – ancorché di recente disonorato – compositore della nazione, ebbene, lo avrebbero dimostrato. Il che dava conto del tono sicuro con cui Zakrevskij concluse il colloquio.
- Molto bene. Oggi è sabato. In questo momento sono le dodici e lei può andare. Ma le concedo solo quarantotto ore. Entro lunedì alle dodici lei avrà senz’altro ricordato. Deve farsi tornare in mente ogni dettaglio di tutte le discussioni a proposito del complotto contro il compagno Stalin, delle quali lei è stato uno dei più importanti testimoni.
Era un uomo morto. Raccontò a Nita (1) quanto era stato detto e, al di là delle sue parole rassicuranti, capì che lei pure lo considerava un uomo morto. Sapeva di dover proteggere le persone più vicine a sé e, per farlo, aveva bisogno di restare calmo, ma riusciva solo a essere agitatissimo. Bruciò tutto ciò che potesse risultare incriminante anche se, una volta che eri stato etichettato come nemico del popolo e complice di un noto assassino, non c’era più nulla che non lo fosse. Tanto valeva appiccare il fuoco all’intero appartamento. Aveva paura per Nita, per sua madre, per Galja (2), per chiunque fosse mai entrato o uscito da casa sua.
«Al proprio destino non si sfugge». E dunque, a lui sarebbe toccato morire a trent’anni. Più di Pergolesi, in effetti, ma meno perfino di Schubert. E dello stesso Puškin (3), tra l’altro. Il suo nome e la sua musica sarebbero stati cancellati. Non avrebbe solo cessato di esistere, non sarebbe proprio mai esistito. Era stato un errore, prontamente corretto; un volto in una foto scomparso alla successiva stampa della stessa immagine. E se anche in futuro lo avessero riesumato, che cosa avrebbero trovato? Quattro sinfonie, un concerto per pianoforte, qualche suite per orchestra, due brani per quartetto d’archi ma non un solo quartetto terminato, alcuni pezzi per pianoforte, una sonata per violoncello, due opere, e qualche composizione per il cinema e per il balletto. Per che cosa lo avrebbero ricordato? Per l’opera che lo aveva compromesso, per la sinfonia che lui stesso aveva saggiamente ritirato? Forse la sua Prima sinfonia si sarebbe prestata a fare da lieto preludio ai concerti di compositori maturi che avessero avuto la fortuna di sopravvivergli.
Ma anche quella, si rese conto, era una ben magra consolazione. Quel che pensava lui era del tutto irrilevante. Al futuro decidere che decisione avrebbe preso il futuro. Ad esempio, che la sua musica non aveva alcuna importanza. O che lui avrebbe potuto affermarsi come compositore, se, per superbia, non si fosse lasciato trascinare in una proditoria cospirazione contro il capo dello stato. Chi poteva sapere come l’avrebbe pensata il futuro? Ci aspettiamo troppo dal domani, sperando che sappia contrastare l’oggi. E chi poteva prevedere quale ombra la sua morte avrebbe gettato sulla sua famiglia? Immaginava una Galja sedicenne uscire da un orfanotrofio siberiano, convinta che i suoi genitori l’avessero crudelmente abbandonata e ignara che suo padre avesse mai scritto anche una sola nota di musica.

Alle prime minacce contro di lui aveva detto agli amici: «Se anche mi dovessero mozzare tutte e due le mai, continuerò a comporre, tenendo la penna tra i denti». Parole di sfida, pronunciate per tenere alti gli animi di tutti, compreso il suo. Ma nessuno intendeva mozzargli le mani, le sue piccole mani «non-pianistiche». Forse intendevano torturarlo, e lui avrebbe ceduto all’istante su ogni cosa, perché non aveva la minima resistenza al dolore. Gli avrebbero mostrato un elenco di nomi, e lui avrebbe tradito tutti. No, avrebbe provato brevemente a dire, per passare subito a Sì, Sì, Sì e ancora Sì. Sì, ero presente in quella circostanza in casa del Maresciallo; Sì gli sentii dire tutto ciò che ritenete abbia detto; Sì il tal generale e il tal politico presero parte alla cospirazione, li aveva visti e uditi personalmente. Ma non ci sarebbe stata nessuna cruenta e teatrale amputazione delle mani, giusto un pratico colpo di pistola alla nuca.
Quelle parole erano state da parte sua nient’altro che una sciocca bravata, o alla peggio un tanto per dire. E dei tanto per dire il Potere non sapeva che farsene. Il Potere badava solo ai fatti, e parlava una lingua composta di espressioni ed eufemismi adatti ora a mettere in luce ora a nascondere i fatti stessi. Nella Russia di Stalin non c’era posto per compositori costretti a scrivere con la penna tra i denti. D’ora in poi ci sarebbero state solo due categorie di musicisti: quelli vivi e terrorizzati, e quelli morti.

Era passato così poco tempo dall’ultima volta che si era sentito dentro l’indistruttibilità della giovinezza. La sua incorruttibilità, addirittura. E al di là di ogni cosa, sullo sfondo di ogni cosa, la certezza della verità e della rettitudine di qualunque talento gli fosse toccato, di qualsiasi musica avesse scritto. Tutto questo non risultava in alcun modo sconfessato. Era solo, al momento, di una irrilevanza assoluta.

Quel sabato notte, come pure la domenica, prese sonno bevendo. Non era difficile. Non reggeva l’alcol, e un paio di bicchieri di vodka spesso bastavano a stenderlo. Tale debolezza aveva i suoi vantaggi. Mentre gli altri andavano avanti a bere, lui era costretto a dormire. E il mattino dopo si ritrovava più riposato, più in forma per il lavoro.
Anapa (4) era stata un centro famoso per la Cura dell’uva. Una volta, scherzando, aveva detto a Tanja che personalmente preferiva la Cura della vodka. E a essa dunque affidò quelle che potevano rivelarsi le ultime due notti della sua vita.

Il lunedì mattina salutò Nita con un bacio, prese Galja in braccio un’ultima volta e montò poi sull’autobus diretto al tetro edificio grigio sulla Liteinij Prospekt. Persona da sempre puntuale, sarebbe arrivato puntuale anche all’appuntamento con la sua morte. Contemplò per un istante il fiume Neva, che avrebbe continuato a scorrere dopo tutti loro. Giunto alla Grande casa si presentò alla guardia dell’ingresso. Il milite controllò l’elenco ma non ci trovò il suo nome. Gli chiese di ripeterglielo. E quando l’ebbe risentito, tornò a scorrere la lista.
- Perché è qui? Chi deve vedere?
- L’interrogatore Zakrevskij.
Il milite annuì lentamente. Poi, senza alzare gli occhi, disse: - Beh, può andarsene a casa. Lei non risulta in elenco. Oggi Zakrevskij non verrà, perciò nessuno la può ricevere.
E così ebbe fine il suo Primo Colloquio con il Potere.

Se ne tornò a casa. Immaginò dovesse trattarsi di una trappola: lo lasciavano andare per poterlo seguire e arrestare con lui tutti i suoi amici e colleghi. Scoprì invece che la vita gli aveva riservato un improvviso colpo di fortuna. Tra il sabato e il lunedì, lo stesso Zakrevskij era finito nell’elenco dei sospettati. Il suo interrogatore interrogato. L’arrestatore arrestato.

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(1) Nita = la moglie.
(2) Galja = la figlia.
(3) Pergolesi, Schubert, Puškin = Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736), compositore italiano; Franz Schubert (1797-1828), compositore austriaco; Aleksandr Sergeevič Puškin (1799-1837), scrittore russo.
(4) Anapa = città della Russia caucasica, dove Šostakovič trascorre una vacanza con Tanja (nominata subito dopo), il suo primo amore.

Dmitrij Šostakovič da giovane



sabato 28 ottobre 2017

122 Le sigarette di Stalin e gli ingegneri dell'animo umano (di Julian Barnes)



Gran bel libro questo “Il rumore del tempo” del 2016. Vi si racconta in forma romanzata, ma accurata storicamente, la vita di Dmitrij Šostakovič (uno dei massimi musicisti non solo del XX secolo, ma di sempre) nei suoi rapporti con il Potere sovietico, guastatisi la sera del 26 gennaio 1936, quando Stalin in persona volle assistere a una rappresentazione dell’opera Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, e ne ordinò una recensione (o forse la scrisse lui stesso) negativa, da pubblicare sulla Pravda, l’organo ufficiale dello Stato sovietico.
Ne trascrivo alcuni brani, tratti dall’edizione italiana pubblicata da Einaudi e tradotta da Susanna Basso.

Si accese un’altra sigaretta. Fra l’arte e l’amore, fra gli oppressori e gli oppressi, le sigarette non mancavano mai. […] A fumare Kazbek erano gli artisti, perfino l’immagine sul pacchetto suggeriva un’idea di libertà: cavallo e cavaliere lanciati al galoppo, sullo sfondo del monte Kazbek. Si diceva che Stalin avesse personalmente approvato la grafica della confezione anche se il Grande Condottiero fumava una marca di sigarette speciale, le Herzegovina Flor. Venivano realizzate apposta per lui, con la terrorizzata precisione che non è difficile immaginare. Non che Stalin si concedesse un gesto banale come stringere fra le labbra una Herzegovina Flor. No, preferiva staccare il filtro in cartoncino e sbriciolare il tabacco nel fornello della pipa. Come riferivano i fortunati addentro alle segrete cose ai meno fortunati, la scrivania di Stalin era tutta ingombra di cartastraccia, tubi di cartoncino e cenere. Lo sapeva anche lui – o comunque, gli era stato detto più di una volta – perché nulla che riguardasse il compagno Stalin era considerato troppo insignificante per fare notizia.
Nessun altro avrebbe osato fumare una Herzegovina Flor in presenza di Stalin, a meno che non fosse lui stesso a offrirgliela, nel qual caso avrebbe forse tentato con ogni astuzia di conservarla intatta per esibirla in seguito come una sacra reliquia. Gli esecutori materiali degli ordini di Stalin fumavano di norma Belomor. Le fumavano gli uomini dell’Nkvd (1). La grafica del pacchetto mostrava una mappa della Russia; un tratto rosso segnava il percorso del canale del Mar Bianco, quello che dava il nome alle sigarette. Per la costruzione della Grande Opera Sovietica dei primi anni Trenta era stata impiegata forza lavoro di detenuti. Curiosamente, il fatto ebbe un enorme rilievo in termini di propaganda. Si affermava che durante i lavori del canale i prigionieri non stessero solo collaborando al progresso della nazione, ma anche «riforgiando se stessi». Beh, i manovali impegnati furono dell’ordine del centinaio di migliaia, perciò non è escluso che qualcuno abbia tratto dall’impresa un’esperienza edificante; si dice tuttavia che un manovale su quattro morì, e per tutti costoro non si può certo dire che si fossero riforgiati. Si trattava semplicemente di trucioli volati via dal ciocco di legno che si andava sgrossando. Intanto gli uomini dell’Nkvd si accendevano l’ennesima belomorina e nella piccola nube di fumo sognavano di brandire ancora una volta la scure.
[…]
Chissà come mai, si chiedeva, adesso il Potere concentrava la propria attenzione sulla musica, e su di lui. Da sempre il maggiore interesse delle alte sfere andava alla parola scritta più che alle note: erano gli scrittori e non i compositori a essersi guadagnati il titolo di ingegneri dell’animo umano. La «Pravda» riportava le loro condanne in prima pagina, mentre ai compositori toccava la terza. Due pagine di distanza. Il che non era un nonnulla: poteva fare la differenza tra la vita e la morte.
Ingegneri dell’animo umano: espressione glaciale, meccanicistica. D’altra parte… di che cosa si occupava un artista se non dell’animo umano? A meno di voler essere puramente decorativo, nient’altro che il cane da salotto di ricchi e potenti. Personalmente era sempre stato un anti-aristocratico a livello politico, artistico e sentimentale. In quell’ora carica di ottimismo – in fondo erano passati così pochi anni – in cui il futuro dell’intera nazione, se non dell’umanità stessa, veniva rimodellato, era sembrato che tutte le arti potessero infine unire le forze al servizio di un unico grande, glorioso progetto. Musica, letteratura, cinema, teatro e architettura, danza e fotografia unite in un sodalizio dinamico, teso non soltanto a farsi specchio della società per criticarla e schernirla, quanto piuttosto a formarla. Gli artisti, di loro spontanea volontà e senza ubbidire ad alcuna direttiva di partito, avrebbero contribuito allo sviluppo e alla rinascita dell’animo umano.
Perché no? Era il più antico sogno di ogni artista. O meglio, per come la vedeva adesso, la sua più antica illusione. Giacché i burocrati si erano subito precipitati ad accaparrarsi il controllo del progetto, a svuotarlo di libertà e immaginazione e complessità e sfumature, senza le quali le arti in genere risultavano vanificate. «Gli ingegneri dell’animo umano». C’erano due grossi problemi. Il primo era che molti non volevano saperne di ingegneri alle prese con la manutenzione della loro anima, grazie lo stesso. Si accontentavano di conservare l’anima ricevuta in dotazione come era al loro ingresso nel mondo; e se uno cercava di indirizzarli, opponevano resistenza. Vieni al tale concerto all’aperto, compagno. Oh, pensiamo davvero che dovresti esserci anche tu. Sì, certo, nessun obbligo, ma non farsi vedere in giro potrebbe essere un errore…
E poi c’era il secondo problema con la manutenzione da parte degli ingegneri dell’animo umano, un problema ancor più sostanziale: chi si occupava della manutenzione degli addetti alla manutenzione?
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(1) Nkvd = Commissariato del popolo per gli affari interni, un dicastero sovietico attivo nella repressione di chiunque fosse considerato in qualche modo “nemico del popolo.



venerdì 27 ottobre 2017

121 Carmen Votivum (di Gabriele D'Annunzio)



Non c’è poeta (giustamente) più odiato del D’Annunzio dai liceali italiani; repellente come uomo (a me ricorda un noto e insopportabile critico d’arte col ciuffo dei giorni nostri), come poeta e scrittore è tronfio e illeggibile e andrebbe comunque abolito dai programmi scolastici. Studiarlo ancora, magari solo per far comprendere l’aria del suo tempo o per spiegare la reazione nei suoi confronti che si manifestò in poeti della generazione successiva, è una pura perdita di tempo e uno spreco di energie.
Ne riporto in questo blog questa poesia (non famosa né importante, ma sostanzialmente fedele al suo modo di poetare) solo perché sollecitato da quanto ne dice Luigi Meneghello nei suoi “Fiori italiani” (vedi post 120); naturalmente non intendo né commentarla, né parafrasarla, soltanto invito a leggerla nel modo definito da Meneghello, cioè come se fosse “una lunga barzelletta”. Ricordando che «D'Annunzio è oltre a tutto un pagliaccio».

Elena, è vano il gemito. non odo.
Se forte sii come le schiere achèe,
io giovine ti dómo. non ti lodo
come il vegliardo in su le Porte Scee.
Nell’anelito madida io t’agogno:
nova ti fanno il desiderio e il sogno.

Elena, il tuo madore è una rugiada
stillante sopra uno stillante miele.
Un alito d’amor sopra una spada?
O Spada dell’arcangelo Ariele!
Ma il céspite che l’ìnguine t’infiora
non è come l’ascella dell’Aurora?

Piacente sopra te, quanto mi piaci!
Assai più d’ogni frutto e d’ogni fiore,
assai più d’ogni fonte. ne’ tuoi baci
la musica e il silenzio del sapore
s’avvicendan così che tu m’insegni
l’arte dell’ape ne’ suoi favi pregni.

Frutteto modulato dal mio flauto,
scandito brolo dalla mia misura,
munifico piacere, amore lauto
di freschezza ora acerba ora matura,
Hělěnē, io sono alla divina mensa
una divinità breve et immensa.

Non mi disseto né mi sazio. è scarsa,
ahi, la sorgente della tua saliva.
Non cavo, se la gola m’è riarsa,
gora di sangue dalla carne viva.
Se abbocco i pomi, se i ginocchi lisci
ródo, tanto urli che m’impietosisci.

Così talor m’è l’ìnguine coltello
di furibondo contro furibonda.
Il bene scosso amplesso m’è macello
che non di sangue il vasto letto inonda.
Il non bevuto nèttare si spande
e il non vermiglio eccidio è gaudio grande.

Verso i lavacri, tu ti snodi e t’alzi
e balzi, molle nube ove celato
sia l’arco dèlio. i tuoi be’ piedi scalzi
fanno de’ miei tappeti un fresco prato.
Pur invertita m’ardi in ogni vena,
alta Aphrodita dalla ricca schiena.

Forma che così pura t’arrotondi,
là dalla pura falce delle reni,
e nella man che ti ricerca abbondi
avanzando in tua copia tutti i seni,
la parabola io solva della Cruna
e del Cammello, o specie della Luna!

Via d’oro che nel tuo cominciamento
lanuginosa come l’albicocca
t’avvalli, forse valico al portento
ambiguo t’offri. al dardo che t’imbrocca,
‘Ελένη forse giova il curvo errore,
se il dubbio nel ferir giovi all’Amore.

La tua divinità biforme strazia
il desiderio. fra il tuo mento e il pollice
del tuo piede una melodia si spazia
quasi pimplèa. ma tra la nuca e il poplite
insino al tuo calcagno tinto in minio
la dolosa Pertunda ha il suo dominio.

Bìfora, non tra il ritto et il rovescio
d’alcuna sua medaglia il Pisanello
mai mi partì come tu suoli, a sbiescio
atteggiata nel lepido tranello.
Perché dita sol m’ebbi cinque e cinque
e l’undecimo solo? utrinde, utrinque.

Così con studio strenuo m’ingegno
di circondurti come il chiaro fiume
che te creata levigò per segno
della progenie, o tu color di fiume.
Nella greca mia mente Euclide istesso
tra circolo e triangolo è perplesso.

‘Ω κάλα, ώ χαρίεσσα, ώ χρύσω
χρυσοτέρα la lingua degli Iddii
ti parlo. e tu mi ridi. il tuo sorriso
è un modo eolio che di Psappha udii
in Mitylana, oplìte non fuggiasco.
Μελλιχόμειδε. parlo, e in te mi pasco.

Μελλιχόμειδε. colan nelle vene,
quasi studio d’ancor disgiunte bocche,
le liquefatte sillabe. Παρθένε
τὰν κεφαλάν, o dalle Intonse ciocche
tu, τὰ δ’έ̀νερθε νύμφα . tu m’intendi
e mi ridi e m’eludi, e t’avvicendi.

Io, non oplìte Alceo che targa ed asta
lasci al nemico, io ben da modo eolio
appresi ὰλλ ὰ πα̃ν τόλματον . mi basta
‘Osare l’inosabile’ è il mio scolio
d’eroe, che insano illustra le parole
di Psappha tessitrice di viole.

‘Ελένη Μου̃σα φίλα, non ti sazia
questo mio canto carico di frutti?
Πάγκαρπον ὰοιδάν vico di grazia
Maleagro, per te che non rilutti,
δολόπλοκε per te che mi secondi,
e ti alterni, e m’eludi in dove abbondi.

Ma che val Meleagro avere io vinto
per vincer di freschezza ogni tuo gioco?
Per te non tesso il giglio col giacinto,
non intreccio l’anèmone et il croco.
Spargo il miei freschi frutti al chiaro fiume
del nome tuo, pome color di fiume.

Tu parli: ‘Io generata fui diurna
dal fiume che dà il nome alla mia gente.
Tal fiume non il cubito su l’urna
preme, né torvo guata la corrente.
Con mille volti e senza volto arride
a quel che vede e a quel che mai non vide.

Sovvienti: un tempo era nomata Sangue
la Zancle. sotto il ponte del Crudele
scorre. alle mie due bocche allude? Lambe
le soglie di Sant’Angelo del Mele.
Chiara al sole, s’intorbida alla nube.
E s’increspa più lene del mio pube.’

Io dico: Figlia del chiaro fiume,
‘Ελένη Ζάγκλη, all’ombra dell’alcova
nelle mie braccia sei color di fiume
turbato appena dalla prima piova.
Fatta sei di quell’oro avido e fresco
che passa per Sant’Angelo del Pesco.

Anche passa turbato sotto l’erte
rupi de’ Marsi, ricusando il cielo.
Ma il sasso per te figlia si converte
in quel marmo ineffabile che a Delo
incensatrice unto di flavo unguento
facea le iddie colore di frumento.

Così la mia diversità ti finge
onda di fiume et opra di scarpello.
Così fluisci e induri, se ti stringe
ignuda il mio vigor sempre novello.
O Elena, così tu t’insapori
in ogni frutto, in ogni fior t’infiori.

‘Vostra piacenza tien più di piacere
d’altra piacente, però mi piacete’
ti cantò quel di Lucca antico Sere.
E sol quel canto il mio piacer ripete.
In te, per Bonagiunta di Riccomo,
concilio il fonte e il sasso, il boccio e il pomo.

È il mio marzo natale, ond’io son novo.
Mi riconduci l’alba della sorte.
In te tutto il mio popolo ritrovo.
Di te sono vorace, a te son forte.
O Vària, se tu sii la mia sostanza,
immortale è la vita che m’avanza.

M’appariscon gli ignoti iddii che vidi
co’ miei grandi occhi aperti; e non tremai.
Riodo nel cor giovine i miei gridi
senza eco, in groppa a’ miei puledri bai.
Scàlpito il rosmarino il nardo il timo
la menta. alla prim’alba io sono il primo.

Or, di lungi e da presso, all’alba prima
senza preghiere albeggia la Maiella.
Tutta la neve sembra aulire in cima
de’ miei pensieri, con la tua mammella.
Tutti i frutteti albeggian di rugiada
per le fiumane della mia contrada.

Su tre corde accordate in diapente
ti modulai ne’ modi miei di Ortona
un canto inebriato immortalmente;
che qui ti chiudo a guisa di corona.
Sviene l’alba. ti piaccia, Ἑλένη, ancóra
immortalarmi in grembo all’altra Aurora.




giovedì 26 ottobre 2017

120 Antonio Giuriolo (di Luigi Meneghello)



Nell’ultimo capitolo di “Fiori italiani” Meneghello (e il suo alter ego S.) parla esclusivamente di quello che fu il suo vero maestro di vita: Antonio Giuriolo, insegnante che non accettò di iscriversi al fascio e per questo sopravvisse dando lezioni private, fino a scegliere di diventare partigiano; morì in un’azione contro i tedeschi il 12 dicembre 1944, mentre tentava di recuperare i corpi dei suoi compagni uccisi.
Meneghello ne descrive con sottigliezza la personalità nelle sue differenti caratteristiche, in particolare in quell’essere maieutico senza darlo a vedere, ma “strappando” le idee ai suoi discepoli dal loro interno, in modo oggettivo. Fu grazie a lui che l’autore divenne antifascista, scoprendo con orrore che invece avrebbe potuto rimanere fascista, quale si credeva di essere in seguito a tutta la cultura (di cui parla in questo bellissimo libro) ricevuta nell’infanzia e nella gioventù.
Riporto il capitolo finale di “Fiori italiani” quasi per intero.

Devo ora parlare dell’uomo che fu il maestro di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo. L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione.
Poiché non è sopravvissuto alla guerra (morì a 32 anni, nel dicembre 1944) è naturale che la sua figura sia restata per noi nella luce in cui la vedemmo allora: credevamo di avere incontrato una personalità straordinaria animata da forze miracolose.
Oggi si potrebbe pensare che questo fosse soltanto un riflesso nei nostri occhi: effetto dello shock di avere incontrato un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo. Così è accaduto per altri antifascisti conosciuti allora: parevano figure più grandi del vero, ma poi si vide che erano persone qualsiasi.
Nel caso di Giuriolo non è così. L’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere.
Credo che di maestri di simile tempra ce ne siano stati in ogni parte d’Italia pochi bensì, ma non pochissimi. Dietro a quasi ogni gruppo di studenti partigiani o resistenti si sente (qualche volta si sa) che ce n’è stato uno; e penso che sarebbe importante studiarli, ricostruire bene la loro cultura, riconoscere l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole e gli effetti della loro influenza. Forse m’inganno, e l’argomento non è interessante se non per la pietas e il senso storico privato di pochi italiani che invecchiano in patria e fuori: ma non credo. Sono convinto invece che c’è proprio qui la chiave per capire come avviene realmente la trasmissione della cultura.
Mi rendo conto che nelle esperienze culturali di un popolo esiste anche uno schema tutto diverso da questo: arrivano (per noi italiani di solito arrivano dall’estero) certe ondate di idee e prospettive nuove, con forza impersonale. Non è necessario che siano mediate, pur essendoci sempre chi s’incarica di mediarle: non sempre bene, a volte malissimo. La “cultura” del paese si aggiorna come d’incanto; la forza stessa delle nuove prospettive fa da maestra e direttrice didattica. Così dev’essere stato nella storia lontana della specie: arrivavano cose o idee (in principio dovevano essere identiche), per esempio un modo nuovo di fare i vasi di coccio, o i raschietti di osso, e la gente se ne impadroniva senza maestri, lo interiorizzava d’emblée, si liberavano forze nuove e imprevedibili.
Sono convinto però che in alcune cose assolutamente cruciali l’altro schema della trasmissione individuale e personale abbia un ruolo insostituibile. Un modo nuovo di fare i vasi ha una sua potenza educativa immediata; ma se si tratta invece di fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne, non c’è forse altro modo che quello antico, paziente, difficile di esemplarli su modelli viventi. Un metodo che non si può importare, né copiare.
L’influenza di Antonio veniva dal profondo dell’uomo, era essenzialmente un esempio. Ha scritto di lui un illustre studioso italiano che l’ha conosciuto: “Egli rappresentò l’incarnazione più perfetta che mai io abbia vista realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e di vita morale”.  Non so nemmeno se la gente capisce più cosa vogliono dire queste parole. La cultura in questo senso è il principio informante del carattere. Non si può “insegnarla” come una materia di studio. Ha un’autorevolezza intrinseca, in cui non c’entrano le doti appariscenti o alcuna forma di prestigio esteriore.
[…]
La libertà di Antonio era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici. L’alimento stesso della vita intellettuale e morale. “Libero” come attributo delle cose umane credo che fosse per lui indistinguibile da “vero”, “reale”: tutto ciò che si genera di fatto negli animi degli uomini liberi; tutto ciò che sono capaci di creare. Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà: opporla a qualunque altra ispirazione morale e politica della comunità non è solo sviante, è mostruoso. Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di avere.
Naturalmente questa non è una posizione politica se non nel senso più lato. Questa è semplicemente una religione. Per la piccola lapide che fu murata su una porta interna della biblioteca Bertoliana (pareva la più giusta commemorazione possibile) fu Franco a scrivere le parole. Ho qui davanti il piccolo autografo.

In tempi servili
qui cercava rifugio
nella storia e nella poesia
qui nell’attesa
insegnava la dignità del cittadino
Antonio Giuriolo
partigiano medaglia d’oro
cresciuto e caduto per la religione
della libertà

La terz’ultima e la penultima parola già incise sulla lapide, furono cancellate per disposizione del sindaco, in base all’argomento che di religione ce n’è una sola; e pare che Franco, furibondo, abbia tentato invano di sostenere che quella è invece la mamma. In verità il sindaco non era uno sciocco, e quando Franco si fu calmato, gli fece capire che “la religione della libertà” era un’espressione giustissima, ma inopportuna. È un tipo di argomento che in altri contesti è ancora molto usato in Italia. Forse la verità è sempre inopportuna. (La lapide non fu rifatta, soltanto si cancellarono le parole lasciando le righe curiosamente sbilanciate: e inoltre ciò che fu cancellato fu il colore delle lettere, ma siccome erano anche incise, si leggevano ugualmente. Quasi quasi la lapide sembrava più bella così; e mi dispiace un po’ che sia stata in seguito ripristinata nella sua forma originale.)
Oggi sappiamo che la forza morale della posizione di Antonio dipendeva in parte da un proposito e da un programma esplicito benché segreto. C’è un frammento di diario intimo, con la data “settembre 1936”, quando Antonio aveva ventiquattro anni:
“Un giovane tedesco caduto eroicamente nella grande guerra, ripeteva sovente a se stesso: tu devi diventare un titano; ed esprimeva così energicamente quell’aspirazione di ogni anima giovanile non volgare ad elevarsi, a costruirsi un carattere serio e forte, capace di dominare le tempeste della vita. Questo motto d’ora innanzi deve essere anche il tuo, deve essere la tua divisa, il tuo credo che ridirai a te stesso in ogni ora…
“Devi essere un eletto, un forte: prima di tutto per l’imperativo categorico della tua coscienza che ti comanda incessantemente di purificarti e di salire sempre più in alto: in secondo luogo… per una tua necessaria relazione col mondo. Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda ti è in genere ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato, o come un sorpassato, o come un intruso. Di fronte a questo ambiente tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti, e se è possibile ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita.”
Questo proposito non fu mai detto, che io sappia, a nessuno. Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Non se nemmeno se si possono esprimere con qualche grado di precisione in prima persona: mi pare significativo che qui siano rivolte alla prima persona, col solito senso di dubbio intorno alla natura dello speaker, la voce che parla. Forse in ogni riflessione seria su se stessi è inevitabile assumere un punto di vista esterno; e tuttavia ci si accorge che esso non è impersonale. La struttura della nostra testa ci offre solo “io” per pensare a noi stessi, appena proviamo a pensare col “tu” siamo in due, forse è solo un pasticcio linguistico, forse invece è un pasticcio biologico… Chi è l’altro? Quale dei due ne sa più dell’altro, e perché?
“Devi essere un eletto, un forte: prima di tutto per l’imperativo categorico della tua coscienza che ti comanda incessantemente di purificarti e di salire sempre più in alto: in secondo luogo… per una tua necessaria relazione col mondo. Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda ti è in genere ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato, o come un sorpassato, o come un intruso. Di fronte a questo ambiente tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti, e se è possibile ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita.”
Questo proposito non fu mai detto, che io sappia, a nessuno. Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Non se nemmeno se si possono esprimere con qualche grado di precisione in prima persona: mi pare significativo che qui siano rivolte alla prima persona, col solito senso di dubbio intorno alla natura dello speaker, la voce che parla. Forse in ogni riflessione seria su se stessi è inevitabile assumere un punto di vista esterno; e tuttavia ci si accorge che esso non è impersonale. La struttura della nostra testa ci offre solo “io” per pensare a noi stessi, appena proviamo a pensare col “tu” siamo in due, forse è solo un pasticcio linguistico, forse invece è un pasticcio biologico… Chi è l’altro? Quale dei due ne sa più dell’altro, e perché?
“Devi essere un eletto, un forte: prima di tutto per l’imperativo categorico della tua coscienza che ti comanda incessantemente di purificarti e di salire sempre più in alto: in secondo luogo… per una tua necessaria relazione col mondo. Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda ti è in genere ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato, o come un sorpassato, o come un intruso. Di fronte a questo ambiente tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti, e se è possibile ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita.”
Questo proposito non fu mai detto, che io sappia, a nessuno. Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Non se nemmeno se si possono esprimere con qualche grado di precisione in prima persona: mi pare significativo che qui siano rivolte alla prima persona, col solito senso di dubbio intorno alla natura dello speaker, la voce che parla. Forse in ogni riflessione seria su se stessi è inevitabile assumere un punto di vista esterno; e tuttavia ci si accorge che esso non è impersonale. La struttura della nostra testa ci offre solo “io” per pensare a noi stessi, appena proviamo a pensare col “tu” siamo in due, forse è solo un pasticcio linguistico, forse invece è un pasticcio biologico… Chi è l’altro? Quale dei due ne sa più dell’altro, e perché?
“Deve”, “devi”, “bisogna”, ricorrono sette volte a partire dalle parole “Questo motto”. Non si tratta solo di un dovere, si tratta anche di una necessità. La parte relativa al dovere (“l’imperativo categorico”) potrebbe apparire astratta: e il richiamo al titanismo, in un contesto tedesco, porta con sé inflessioni culturali che oggi possono suonar stonate (a parte l’eleganza non ricercata, profonda, del prendersi a modello morale un giovanotto tedesco vivendo in mezzo ai barbari anni dei trionfi nazisti). Ma il centro di questa pagina sta nel senso della necessità storica: la “necessaria relazione col mondo”, “l’ambiente”, il dovere specifico, concreto, di reagire in quel modo “perché le tue idee hanno pochi difensori”.
È la tipica posizione degli uomini a cui tocca il compito di testimoniare integralmente, in circostanze schiaccianti, e che si trovano a farlo praticamente da soli.  Si sentono quasi gli ultimi rimasti, devono impegnare non solo tutte le proprie forze, ma la personalità e la vita. C’è un effetto di raccoglimento profondo, in contrasto con le posizioni di protesta sulla cresta dell’onda, anche quelle genuinamente minoritarie, in cui c’è invece una tendenza alla diffusione estroversa. Quando Antonio assunse questa sua posizione, nel pieno del quinquennio imperiale, non c’era onda, né il senso di una minoranza vincente. C’era solo lui, con le sue “idee religiose”.
Era stato un mediocre scolaro, mi pare che avesse perfino ripetuto un anno al ginnasio; aveva studiato lettere all’università, seriamente ma in modo niente affatto brillante; non era brillante, anzi l’opposto, non parlava “bene”, non aveva speciali capacità dialettiche, né acume filosofico, o doni letterari o senso delle arti visive o della musica. Era stato un ragazzo qualsiasi, piuttosto buono, piuttosto chiuso. Una persona onesta, riflessiva, senza spicco.
Nel giro di pochi anni avvenne una trasformazione che ha del miracolo. È un processo che mi auguro di potere un giorno ricostruire e documentare con esattezza. Quando S. lo conobbe, nel 1940, questo processo era già pienamente compiuto. Esteriormente era restato un uomo schivo e poco appariscente, ma conoscendolo ci si trovava davanti a un prodigioso e misterioso maestro. Ciò che toccava tornava vivo. Una tranquilla potenza si generava in ogni cosa che il suo animo accoglieva. Le normali categorie della vita intellettuale, l’ingegno, la dottrina, la finezza del gusto apparivano vuote al confronto. Vuote se considerate a sé; qui esse erano presenti senza sfoggio separato, con perfetta adeguazione all’oggetto. Ciascun oggetto risaltava nella nettezza della sua essenza, o greca antica, o russa, o francese, ecc.; ma insieme veniva profondamente interiorizzato in rapporto a un assetto di pensieri e di sentimenti moderni e locali, di quell’anno, di quella città, di quel particolare momento storico. C’era un meraviglioso senso di pertinenza e di coerenza: le cose che entravano nell’animo di Antonio si legavano in armonia. C’erano le ragioni di Tucidide (1) e le ragioni di Boule de Suif (2). Una mente sobria e commossa si nutriva di esse e le nutriva di sé.
Viveva dando lezioni private. Non poteva insegnare nelle scuole perché non voleva iscriversi al fascio. Era questa la cosa che per prima ci faceva sgranare gli occhi conoscendolo, il primo segno di una qualità ignota all’ambiente culturale in cui eravamo cresciuti. Passava gran parte del tempo libero a studiare in biblioteca, e un po’ a discutere di libri e di idee con qualche coetaneo amico. Cominciò a interessarsi di noi proprio nell’estate del 1940, nei mesi del lutto e delle lagrime (3): forse anche per reazione a ciò che pareva l’ultima catastrofe.
Nel rapporto che nacque da questo incontro coi suoi discepoli vicentini si espresse (così credo fermamente) l’ispirazione essenziale della vita di Antonio; il nucleo attorno al quale si organizzava tutto il resto.
Non posso dire che questo sia emerso alla commemorazione del significato culturale della sua figura nel trentennale della morte, 1974, a Porretta Terme. Forse i commemoratori si aspettavano che lo dicessimo noi. È stata una cerimonia piuttosto bella, s’inaugurava una scuola a cui hanno dato il suo nome, c’erano centinaia di scolari che invece di ascoltare quei vibranti discorsi, si rincorrevano allegramente sul prato. Forse il ruolo degli eroi comporta necessariamente le cerimonie, e Antonio è venuto a essere anche un eroe. Alla gente semplice che ci parlava di lui in privato, a Porretta, appariva così. Eravamo tornati a vedere il punto dov’è morto, la china nuda, l’albero. Avevamo ascoltato chi era con lui in quel momento, e ricostruito i dettagli di quella morte in battaglia, semplici ed emblematici. Sarebbe assurdo criticare le commemorazioni, la loro funzione è quella che è.
Devo dire che Antonio non incoraggiava atteggiamenti da conventicola, e inoltre non manifestava per noi, in gruppo e individualmente, un particolare grado di affetto. Non è solo che era undemonstrative (4). Pareva che non si volesse legare troppo, in termini troppo personali. Forse era una reazione al suo lungo isolamento, e insieme il bisogno di sentirsi libero di muoversi in una dimensione nazionale. Forse aveva qualche residua disposizione privata a sopravvalutare le risorse degli ambienti metropolitani. Una volta nel 1942, in centro a Padova dov’era venuto per una visita, incontrammo per strada N. Bobbio, da poco a Padova. Si salutarono appena col riserbo conscio, leggermente impacciato di quei primi tempi di cospirazione e Antonio arrossì. Ci sarà stato di mezzo anche dell’altro, ma sembrava che per un istante si fosse sentito minore di quel giovane intellettuale antifascista, per un meccanismo psicologico incontrollabile: come se avesse visto davanti a sé un altro aspetto di sé diverso da quello familiare che si rifletteva in noi…
C’è un’ultima cosa da dire su questo punto. Dopo il nostro rastrellamento del 5 giugno del 1944 in Altipiano (5), perché non cercò di rintracciare quelli di noi che erano sopravvissuti? Non ci mandò un messaggio, non chiese niente, non disse niente, neanche «ditegli che s’arrangino». Andò a Bologna, e di là sull’Appennino. Non c’è memoria che abbia neanche parlato di noi con qualcuno. Ora che ci penso non è meraviglia che i commemoratori che lo conobbero allora mostrino di non sapere nemmeno che noi ci eravamo, o che cosa eravamo.
Coi compagni vicentini abbiamo dovuto lasciar passare un quarto di secolo prima di cominciare a dirci queste cose, cinque o sei anni fa. Pareva come scivolare nel campo gravitazionale di un pianeta gigantesco, sul quale alla fine devi andare a spiaccicarti: ma ora non è più così. Noi siamo oggi molto più vecchi di quanto era lui allora, ciò che c’è da capire lo possiamo capire, e basta. Con la cautela con cui una volta nelle famiglie si parlava dei parenti a cui capitava qualcosa di penoso, esploriamo la possibilità che ci sia stato uno shock assai più profondo di quanto intesero i testimoni: una sorta di repressione e soppressione interiore. Quando lo trovarono sui monti di Campogrosso c’era in lui qualcosa di strano e selvatico. Comparve a chi lo incontrò lassù come se uscisse dal paesaggio; mangiucchiava aghi di pino, parlava poco e non di fatti precisi. Aveva un’infezione alla mano ferita. Si lasciava condurre (lo condussero in pianura, e dopo qualche giorno a Bologna) non come un uomo in cui la volontà è spenta, ma certo come uno in cui è sospesa la capacità normale di reagire alle cose. Meglio: come uno che sta seguendo un altro dibattito, di cui s’indovina l’andamento perché in certi momenti gli sfugge un gemito.
Forse disse qualcosa per noi (sarebbe bastato «addio», avrebbe avuto tutto il senso necessario, sia in sede tecnica sia in altro modo), e questo qualcosa andò perduto.

Il suo rapporto con noi era certamente di tipo evangelico, benché mancassero del tutto i lati espliciti, esagitati, della predicazione. C’era proselitismo, ma in un’aura di sobrietà, di riserbo, di pudore. Forse nel Veneto è impossibile essere spudorati in modo serio, come invece dev’essere naturale, quasi inevitabile, nella Galilea meridionale (basta affacciarsi alla conca del lago di Kennereth (6) per capire in un colpo solo, con gli occhi, questo aspetto della predicazione di Gesù). C’era una indiscutibile somiglianza in una questione di fondo: l’influenza di Antonio, pur avendo per oggetto la mente dei suoi discepoli, investiva tutta la loro personalità e la cambiava. Il passo iniziale stava nel tirarci fuori dall’ambito delle famiglie (o dall’ambiente casa-scuola-campo sportivo) e sottrarci al giro delle influenze automatiche e ovattanti tra cui si era cresciuti. Alcuni familiari percepivano questo; le mamme avvertivano un’influenza vagamente ma fortemente minacciosa, un po’ indistinguibile dalle “cattive compagnie” della pedagogia cattolica e benpensante.
Non c’era la formula del “lasciate tutto e seguite me”, parole che a Vicenza farebbero ridere, ma la sostanza c’era. Senza sovvertire le forme esteriori della propria vita, con uno schema spontaneo di visite e di incontri nelle ore libere, si trattava proprio di lasciare il resto e seguire lui. Spesso letteralmente. Camminava in modo frettoloso, a filo del marciapiede, con l’aria di andare un po’ di sghembo. Non si andava a spasso con lui. Non faceva quelle passeggiate oziose, vicentine, superficialmente socratiche, di altri personaggi della “cultura” locale. Di solito era diretto in qualche parte, da un amico, alla biblioteca, alla stazione: lo si accompagnava in due o tre, qualche volta anche in Corso, più normalmente per le straducole, le piazzette, sotto i portici. C’era spesso qualche bicicletta spinta a mano. Lo si riaccompagnava a casa, si saliva nella stanza al secondo piano. C’era un letto di ferro, qualche sedia piena di libri, e libri ammucchiati o sparsi dappertutto. Si stava a chiacchierare seduti sul letto o sui mucchi dei libri.
La prima volta che S. si trovò con lui da solo, Antonio stava andando alla stazione: questo primo incontro non si sa dove fosse incominciato, diventa visibile al di qua di Porta Castello, forse venti metri. Antonio è a sinistra, S. gli parla in modo acceso, nervoso, sta difendendo con veemenza l’idea della patria in armi, le speranze del fascismo. Le difese fino alla stazione. Antonio non lo contraddiceva, gli faceva delle domande con fermezza e senza ostilità, e lui sentiva la forza frenante di queste domande e il giudizio che vi era implicito. Era l’autunno del 1940. Qualche anno dopo S. si trovò a parlarne con Antonio, di quel primo incontro, e gli espresse qualcosa della vergogna e dell’imbarazzo che provava ora per aver detto quelle cose, e per essere stato com’era stato. Antonio che raramente dava giudizi personali senza necessità, gli disse che al contrario quel giorno aveva avuto un’impressione di onestà, un ragazzo che tentava disperatamente di organizzare il nulla delle sue idee e il tumulto della sua ignoranza attorno a qualcosa di dignitoso. Mi sembra giusto registrarlo qui per due ragioni: anzitutto per mostrare quanto poco ci voleva per apparire meno spregevoli nel clima di quegli anni, e inoltre per non complicare il quadro reale delle disgrazie e delle colpe di S. con accuse immaginarie.
Frequentando Antonio si cambiava quasi a vista d’occhio: di mese in mese ci si trovava ad avere abbandonato questo o quel punto delle dottrine o credenze correnti, e una volta passati sul terreno della critica (la critica effettiva, non quella retorica dei littoriali e dei convegni: ora si capiva che cosa sono le “logomachie”) non ci si poteva più fermare. Antonio ci lasciava cambiare per conto nostro, senza intervenire a sollecitarci dall’esterno. Certe idee erano dure a morire, come la bellezza morale del partito unico. Il regime è condannato: ma non vorremo mica tornare ai partiti? I condiscepoli più svegli si arrabbiavano, ti apostrofavano col cognome come per disperazione, perfino ti dicevano «va’ via»: invece Antonio non si metteva nemmeno a polemizzare apertamente, sapeva che non era necessario. Pioveva, quella volta dei partiti, si stava in crocchio davanti alla porta di casa sua, con gli ombrelli aperti, credo che fosse verso la fine dell’inverno; a primavera (quella di “a primavera viene il bello”, proprio la stessa: com’è assurda la vita!) eravamo già tornati ai partiti.

Antonio non separava ciò che studiava e pensava per conto proprio da ciò che insegnava a noi. Era proprio questa la forza del suo insegnamento: non c'era tono didascalico, non svolgeva un programma. Parlava delle cose a cui si stava interessando senza proporsi di dimostrare qualcosa, o di convincerci. Ci faceva assistere al suo rapporto vivo con esse, ciò che ammirava, ciò che detestava. Non mi pare che si curasse molto di accertarsi in qualche modo, come si farebbe a scuola, che capivamo e imparavamo; e neanche di farci arrivare da noi stessi, quasi a titolo di esercizio maieutico, con lo storto passo del discente, a questa o quella parte della verità. Non c’era tempo per questo. Era un’operazione maieutica incomparabilmente più sconvolgente. Ti trovavi davanti a un mondo di idee oggettivate, che parevano tuttavia strappate dal tuo interno. Le avevi davanti, toccava a te arrangiarti.
Spiccavano certi tratti di metodo. Anzitutto la concretezza. Antonio si rivolgeva sempre a una cosa precisa: questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando); brani segnati a matita, sottolineati. Ogni volta che dava un giudizio d’insieme gli veniva spontaneo di richiamarsi ai punti dove ciò che stava dicendo si vedesse espresso ed esemplificato. Qual era l’ispirazione di fondo dell’opera politica del Conte di Cavour? Che cosa aveva detto in quel discorso, in quella lettera?
C’era inoltre la perfetta corrispondenza tra interesse soggettivo del lettore e interesse intrinseco dell’argomento. Non si occupava di cose a cui non s’interessasse profondamente; alcune erano cose piccole, ma viste in quel modo non parevano più cose piccole. S. doveva poi trovare qualcosa di simile in un altro antifascista italiano, Gramsci, che aveva anche lui questo dono quasi di rivelare l’interesse intrinseco delle cose: al limite l’interesse implicito nella percezione chiara che una certa cosa è sbagliata o meschina. E infatti non si trattava soltanto di un paradiso di delizie della mente, anzi anche di ripulse e di condanne. Mostrare cosa stava facendo di brutto l’ultimo (per allora) Papini, poteva riuscire non meno stimolante dell’analisi – se era un’analisi – dell’andamento di un bacetto simile a un ragno, in un vagoncino rosa (et tu me diras «Cherche!») (7), o di quattro versicoli in cui si vedeva o pede piccerillo / ca int’a cazetta nera / p’e fierre d’a ringhiera / mo dice sì mo no (8), e che parevano ad Antonio, e a S., molto belli.
Il punto di partenza era spesso un nucleo di commozione della fantasia: dei versi, un personaggio in un libro, un dettaglio illuminante in un racconto, una concezione espressa in un detto esaltante o conturbante. Antonio non pareva certo un raffinato del gusto, pure nelle sue interpretazioni c’era una sorprendente finezza, che armonizzava col suo modo di sentire energico e virile. Il punto d’arrivo non era però estetico, ma morale. Sembrava verificarsi nei fatti con grande forza e semplicità quel concetto di “indivisa umanità” che conoscevamo solo come formula. Non era un’applicazione meccanica del criterio “cherchez l’homme”. Assistevamo all’esempio di una coscienza che accoglieva, diciamo, un capriccio del giovane Rimbaud e respingeva le torbidezze senza midollo dell’anziano Fogazzaro. Vedevamo che il ragazzo di Charleville (9) (dove S. andò apposta, anni dopo, a vedere la casa, la strada, con un curioso batticuore vicentino) esprimeva qualcosa di schietto, moralmente robusto anche nelle cose più strambe: avevamo stima di lui quando orinava verso il cielo notturno con l’assentimento dei grandi eliotropi (10) e nostro; mentre invece in quel contegnoso concittadino (11) che aspirava a congiungersi con le signore non per le radici ma per le fronde c’era qualcosa che non andava.
Non si metteva mai nelle dispute di filosofia in cui noi tendevamo invece a impegnarci; S. non lo udì mai ragionare in sede teorica dell’atto puro, o delle forme dello spirito; invece analizzava per esempio la diversa impostazione del lavoro del Gentile, in folate avventurose e brillanti, rispetto a quello più pacato e metodico del Croce, fondato sul battere e ribattere, e spiegare, correggere, adattare, ampliare.
Smontava il nostro dannunzianesimo abbassandolo a una forma del comico: in una delle prime visite di S. in casa sua (era al principio della sera, la luce già accesa) prese dal tavolo le Cento e cento… pagine e lesse come un pezzo da ridere dei versi su una certa Elena “dalla ricca schiena” (12), sui versanti della quale il malridotto vecchietto cercava di infierire. A S. le trovate verbali del testo parevano atte a comunicare un brivido di ammirazione, come l’autore intendeva: che protervia, che mano, anche se inferma nel palpare, che dispettosi spruzzi d’oro! Invece sentendo Antonio leggere quei versi come una lunga barzelletta, le parole pimplèe diventavano una semplice simulazione senile della potenza. Si osservava l’amante di cartapecora darsi da fare con cinque e cinque dita, “e l’undecimo solo”, per compiere “il non vermiglio eccidio” che, diceva, era gaudio grande. Si vedeva lampante come il sole che D’Annunzio è oltre a tutto un pagliaccio.

Il modo più semplice per definire il raggio dell’influenza di Antonio è quello di considerarla sotto il profilo dei suoi libri. In un senso importante, Antonio era quei libri; la sua persona appariva come fusa con la sua biblioteca. Un uomo così poco libresco, così spregiudicato verso la scorza esterna dello studio, funzionava tuttavia per mezzo dei libri di cui era custode ed esibitore.
[…]
Non era però un’anima inquieta, anzi comunicava un senso di “suprema pacatezza” (come è stato detto), e di “calma sovrana”. Ogni aspetto del suo carattere che possiamo rievocare presenta nessi inaspettati. Aveva un senso schietto e cordiale dell’amicizia, stava volentieri con gli amici, gli piaceva ridere con loro. Tutti i suoi coetanei parlano di questo: qualcuno rammenta le allegre “risate” in sua compagnia come il tratto caratterizzante dei propri rapporti con lui. Negli anni in cui S. lo conobbe questo si notava assai meno: non era più un tratto caratterizzante, benché ne affiorassero ogni tanto i vestigi. Si distingueva invece assai bene, e assai più in profondo, un’ombra di segno opposto. Non veniva espressa in parole, ma si vedeva. L’uomo era trasparente, e il colore ultimo dei suoi pensieri era malinconico. Una malinconia remota, che non contrastava con la sua fede attiva ed energica, anzi le dava una qualità struggente.
Le risate con gli amici, la malinconia: sembrano coppie di contrari. Accade continuamente così quando si parla di lui: tutti abbiamo avvertito, per esempio, che il centro dell’uomo era la singolare fermezza e virilità del sentire, ma vicino a lei c’era una strana compagna, una delicatezza quasi femminea.
Non c’è ricordo o ritratto di lui in cui non si parli dei suoi occhi. Sono diventati un emblema, “Un amico dagli occhi veramente azzurri” aveva scritto Barolini in un’affettuosa poesia di prima della guerra: dove credo che “veramente” sia un modo alla Barolini per dire “diversi da quelli che normalmente si chiamano così”. Infatti non erano azzurri, ma celestini, molto chiari. Spiccavano come un tratto somatico insolito, in contrasto col fisico robusto e vigoroso, e con l’impianto possente del viso e della fronte. Riesce impossibile non associarli con ciò che vi era di più distintivo nel suo carattere, e non sentirsi, scrivendo, davanti al suo sguardo severo e innocente.
In questo modo S. si trovò a contatto con un uomo colto, e con una cultura viva. Attraverso di essa vedeva storicizzata l’Italia fascista, di cui anche lui era parte. Non gli era mai venuto in mente di trattarla come materia storica, anzi l’aveva creduto il culmine astorico della storia. Ciò che aveva assimilato in versione autarchica e agiografica si annullava.
La nuova cultura aveva dentro una tagliente lama politica. Si richiamava a una civiltà già esistente (quella che doveva essere crollata sotto i colpi del Duce, press’a poco negli anni in cui S. era nato), ma era piena di forza rinnovatrice, e politicamente rivolta al futuro. Il suo impegno immediato era la lotta per ciò che prospettava come la “redenzione” del nostro paese; ma il suo tema politico e ideologico centrale era quello dei rapporti tra la libertà e il socialismo, non tanto in sede storica, quanto come fulcro di un nuovo sviluppo dell’Italia: sulla linea di “Gielle” (13), del liberalsocialismo, e infine del Partito d’Azione.
Essa veniva a toccare la cultura scolastica e la struttura della mente di S. in tutta una serie di punti critici, e in ciascuno di questi l’effetto era esplosivo. Per la prima volta gli pareva di pensare, e si sentiva pensare. Se in principio gli avrebbe fatto spavento e ribrezzo l’idea di poter diventare “antifascista”, ora quel sentimento s’invertiva, e alla fine sarebbe inorridito di essere ancora fascista. Fu un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire.

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(1) Tucidide = storico greco del V secolo a.C., che con la sua Guerra del Peloponneso ci ha dato informazioni precisi sulla storia della grecia antica.
(2) Boule de Suif = è il titolo originale di un racconto di Guy de Maupassant, tradotto in italiano come “Palla di sego” e fa riferimento al nome della protagonista, una prostituta che si trova a viaggiare in una carrozza assieme ad altri nove personaggi che la disprezzano.
(3) È l’estate dell’entrata nella Seconda guerra mondiale dell’Italia.
(4) Undemonstrative = riservato, poco espansivo.
(5) Meneghello si riferisce a fatti della guerra partigiana accaduti sull’Altipiano di Asiago e raccontati nel romanzo “I piccoli maestri”.
(6) Si tratta del lago di Tiberiade (o di Kinnereth); non so se la trascrizione Kennereth sia un errore di stampa del volume da cui ho tratto il testo, o una forma diversa adottata da Meneghello.
(7) Citazione dalla poesia “Rêvé pour l’hiver” di Arthur Rimbaud.
(8) Citazione dalla poesia in dialetto napoletano “Da ‘o quarto piano” di Salvatore Di Giacomo.
(9) Ossia Rimbaud, nato appunto a Charleville.
(10) Il riferimento è alla poesia “Oraison du soir” (“Preghiera della sera”, in italiano) di Rimbaud. Gli eliotropi sono le piante che si rivolgono verso il sole, come il girasole.
(11) Antonio Fogazzaro, anch’egli vicentino.
(12) Si tratta di citazioni dalla poesia dannunziana “Carmen Votivum”, che troverete nel prossimo post, ma solo per dar ragione a Giuriolo e a Meneghello.
(13) Gielle = Giustizia e Libertà, un movimento politico antifascista di ispirazione liberal-socialista.

Una foto di Antonio Giuriolo

La lapide dedicata ad Antonio Giuriolo nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza