domenica 29 ottobre 2017

124 Stalin, Toscanini e la tirannia (di Julian Barnes)



Con questo terzo post da “Il rumore del tempo” (2016) concludo la presentazione di questo bel romanzo. Qui si narra il Secondo colloquio con il Potere di Dmitrij Šostakovič, una telefonata con Stalin in persona, che gli chiede di andare a New York a un Congresso culturale. Quindi il musicista riflette su che cos’è la tirannia e esprime le sue opinioni su Arturo Toscanini, il celebre direttore d’orchestra italiana, famoso anche per le sue sfuriate contro gli orchestrali. Da qui, infine, una riflessione sulla rivoluzione sovietica e sulle meraviglie che ha introdotto nella storia.

Poi, dopo un anno in disgrazia, ebbe il Secondo Colloquio con il Potere. «Il rombo del tuono viene dal cielo, non da un mucchio di sterco», come dice il poeta. Era a casa con Nita e il compositore Levitin il 16 marzo 1949, quando squillò il telefono. Rispose, stette in ascolto, assunse un’aria grave e infine disse agli altri due:
- Sta per prendere la linea Stalin.
Nita si precipitò nella stanza accanto all’altro apparecchio.
- Dmitrij Dmitrievič, - esordì la voce del Potere, - come sta?
- Grazie, Iosif Vissarionovič, tutto bene. Giusto qualche fastidio di stomaco.
- Mi dispiace sentirlo. Dovremo trovarle un dottore.
- No, grazie. Non mi occorre nulla. Ho tutto il necessario.
- Tanto meglio -. Ci fu una pausa. Poi la poderosa cadenza georgiana, la voce trasmessa da un milione di radio e di altoparlanti, gli domandò se era a conoscenza del prossimo Congresso culturale e scientifico per la pace nel mondo che si sarebbe tenuto a New York. Disse che ne era a conoscenza.
- E che cosa ne pensa?
- Penso che la pace è sempre meglio della guerra, Iosif Vissarionovič.
- Bene. Dunque sarà lieto di partecipare in nostra rappresentanza.
- No, non posso, temo.
- Non può?
- Me lo ha domandato il compagno Molotov. Ho risposto che non mi sento abbastanza bene.
- In tal caso, come ho già detto, le manderemo un dottore per farla stare meglio.
- Non è solo questo. Patisco il mal d’aria. Non posso volare.
- Non è un problema. Il dottore le prescriverà qualche pillola.
- È davvero gentile.
- Dunque ci andrà?
Tacque per un momento. Una parte di lui era consapevole che una sola sillaba sbagliata l’avrebbe portato dritto in un campo di lavoro, mentre l’altra parte, con sua grande sorpresa, aveva superato la paura.
- No, Iosif Vissarionovič, proprio non posso. Per un altro motivo.
- Cioè?
- Non possiedo un frac. Non posso suonare in pubblico senza il frac. E temo di non potermene permettere uno.
- Beh, Dmitrij Dmitrievič, non sono io a occuparmi direttamente di queste cose, ma sono certo che la sartoria dei funzionari d’amministrazione del Comitato centrale non avrà problemi a confezionargliene uno di suo gradimento.
- La ringrazio. Ma temo rimanga un’altra ragione.
- Che non mancherà di chiarirmi, giusto?
Sì, esisteva in effetti una remota possibilità che Stalin non lo sapesse.
- Il fatto è, vede, che mi trovo in una posizione molto imbarazzante. In America, la mia musica viene eseguita spesso, e qui no. Me ne chiederebbero senz’altro conto. Dunque, come dovrei comportarmi in circostanze del genere?
- In che senso, Dmitrij Dmitrievič, la sua musica non viene eseguita?
- È proibita. Come quella di tanti colleghi dell’Unione dei compositori.
- Proibita? E da chi?
- Dalla Commissione centrale per i repertori. Dal 14 di febbraio dello scorso anno. Esiste un lungo elenco di opere che non possono essere eseguite. Ma come può immaginare, Iosif Vissarionovič, il risultato è che i direttori artistici non sono invogliati a inserire in programma nemmeno altre mie composizioni. E i musicisti hanno paura di eseguirle. Perciò, di fatto, sono sulla lista nera. Come altri colleghi.
- E chi ha dato un ordine simile?
- Deve essere stato un compagno ai vertici del Potere.
- No, - rispose la voce. - Da noi quell’ordine non è partito.
Lasciò al Potere il tempo di rifletterci su.
- No, non abbiamo mai dato quell’ordine. Si tratta di uno sbaglio. E come tale deve essere corretto. Nessuna delle sue opere è stata proibita. Si possono eseguire tutte, tranquillamente. Non è mai stato vero il contrario. Ci dovrà essere una sanzione ufficiale.
Qualche giorno più tardi, assieme ad altri compositori, ricevette copia dell’ordine originale di divieto di esecuzione. Al foglio era stato pinzato un documento che sanciva l’illegalità della disposizione in oggetto e condannava la Commissione centrale per i repertori responsabile del divieto. La correzione era firmata «Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Urss, I. Stalin».
E dunque lui era andato a New York.

Nei suoi pensieri, tirannia e rozzezza erano state inseparabili. Non gli era sfuggito il fatto che Lenin, al momento di dettare il proprio testamento politico e di indicare un suo possibile successore, aveva individuato proprio nella «rozzezza» il difetto peggiore di Stalin. Quanto al suo mondo specifico, personalmente non gli andavano giù i direttori d’orchestra definiti in toni encomiastici dei «dittatori». Mostrarsi sgarbato con un orchestrale che si sforza di fare del proprio meglio era vergognoso. Ma questi tiranni, questi imperatori della bacchetta, gongolavano nel sentire utilizzare tale terminologia, quasi che un’orchestra potesse suonare bene solo se umiliata, irrisa, frustata.
Il peggiore era Toscanini. Non lo aveva mai visto in azione; lo conosceva solo dalle cronache. Ma in lui era tutto sbagliato – tempi, spirito, nuance… Toscanini tritava la musica come fosse un pasticcio di carne e poi ci scucchiaiava sopra una salsa schifosa. Il che lo faceva infuriare. Una volta, il «maestro» gli aveva mandato una registrazione della sua Settima sinfonia. Lui aveva risposto sottolineando i numerosi errori dell’illustre direttore. Non sapeva se Toscanini avesse mai ricevuto la lettera, né se, in caso affermativo, l’avesse capita. Doveva aver ritenuto che contenesse soltanto lodi, perché poco tempo dopo a Mosca giunse la trionfale notizia che lui, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, era stato eletto membro onorario dell’Associazione Arturo Toscanini! E ancora qualche tempo dopo, aveva cominciato a ricevere in dono dischi di musica rigorosamente diretti dall’insigne negriero. Lui ovviamente non li ascoltava, ma li metteva da parte per farne futuri regali. Non per gli amici, s’intende, ma per un certo tipo di conoscenti, quelli di cui era sicuro che ne sarebbero stati entusiasti.
Non era soltanto una questione di amor proprio; e neppure un problema che riguardasse soltanto la musica. Quei direttori urlavano e imprecavano, facevano scenate, minacciavano di licenziare il primo clarinetto per essersi presentato in ritardo. E l’orchestra, costretta a tollerare un simile trattamento, reagiva raccontando aneddoti alle spalle del direttore – aneddoti che lo ritraevano come un «autentico personaggio». E infine arrivavano a convincersi di ciò che credeva l’imperatore della bacchetta in persona: e cioè che suonavano bene solo in virtù delle frustate ricevute. Facevano gregge compatto, nel loro masochismo, lanciandosi di quando in quando un commento sarcastico, ma di fatto ammirando la nobiltà e l’idealismo del loro maestro, la sua determinazione, la capacità di vedere orizzonti più vasti di chi si limitava a strimpellare e soffiare dietro un leggio. Il maestro, per quanto costretto talvolta a mostrarsi duro, era un grande leader e andava seguito. A questo punto, chi avrebbe ancora potuto negare che un’orchestra fosse un microcosmo del sistema?

Dunque quando un direttore di questo tipo, impaziente perfino con la partitura che gli stava di fronte, ipotizzava un difetto o un errore, lui aveva pronta la garbata risposta formale messa a punto molto tempo addietro.
Perciò immaginava il seguente scambio di battute.
Potere: - Guardi che noi abbiamo fatto la Rivoluzione.
Cittadino Secondo Oboe: - Sì, e una rivoluzione meravigliosa, naturalmente. Enorme passo avanti rispetto al passato. Davvero un traguardo importante. Delle volte, però, mi chiedo… mi posso sbagliare, intendiamoci, ma era necessario in nome della Rivoluzione fucilare tutti quegli ingegneri, e i generali, gli scienziati, i musicologi? Spedire milioni di persone nei campi, utilizzare manodopera forzata da sfruttare fino alla morte, seminare ovunque il Terrore, estorcere false confessioni? Allestire un sistema nel quale, anche tra i più defilati, sono centinaia gli uomini che ogni notte si aspettano di essere tirati giù dal letto e trascinati alla Grande casa o alla Lubjanka (1) per subire torture o essere costretti ad apporre la propria firma sotto documenti di assoluta e completa invenzione e finire poi giustiziati con una pallottola alla nuca? Lei capirà, me lo sto solo chiedendo.
Potere: - Ma sì, ma sì, ho capito. Ha senz’altro ragione lei. Ma per adesso lasciamo perdere. Di quel cambiamento ci occuperemo la prossima volta.
[…]
Certamente la Russia aveva conosciuto altri tiranni in passato; per questo sul territorio era cresciuto tanto il senso dell’ironia. «La Russia è la patria degli elefanti», come diceva il proverbio. La Russia ha inventato ogni cosa perché… beh, in primis perché è la Russia, il paese dove le illusioni sono normale amministrazione; e secondo, perché adesso era diventata la Russia sovietica, vale a dire la nazione socialmente più all’avanguardia della storia, nella quale era naturale che si inventasse di tutto. Dunque, quando la Ford Motor Company (2) interruppe la produzione del Modello A, le autorità sovietiche rilevarono l’intero impianto manifatturiero e, meraviglia delle meraviglie, ecco atterrare sul pianeta un autobus da venti posti o furgone leggero di progetto squisitamente sovietico! Idem dicasi per le fabbriche di trattori: una linea di produzione americana, importata dall’America e assemblata da tecnici americani, che all’improvviso sfornava macchine agricole sovietiche. O ancora: la copia di una macchina fotografica Leica (3) che, voilà, si trasformava in una Fed, prendendo il nome dal suo fondatore Feliks Dzeržinskij: più sovietica di così… Chi l’aveva detto che l’era dei miracoli apparteneva al passato? Il tutto realizzato a suon di parole dal potere di trasformazione, quello sì davvero rivoluzionario. Prendiamo ad esempio il pane francese. Come tale lo conoscevano tutti, e così lo chiamavano da anni. Poi un bel giorno, il pane francese sparì dai negozi. Era invece comparso il «pane di città» - identico all’altro in tutto e per tutto, ovviamente, ma assurto al rango di patriottico prodotto della megalopoli sovietica.

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(1) Lubjanka = il nome di un palazzo di Mosca, famigerato per essere stato la sede dei servizi segreti sovietici (ancora oggi ospita tali servizi).
(2) Ford Motor Company = Industria automobilistica statunitense.
(3) Leica = marchio industriale svizzero-tedesco.

Stalin e Toscanini: un accostamento bizzarro, ma neanche tanto




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