venerdì 30 marzo 2018

181 Chissà come si divertivano! (di Isaac Asimov)



Così Asimov presenta queste breve racconto nell’introduzione all’antologia “Il meglio di Asimov” che lo contiene:
«Chissà come si divertivano! è probabilmente la sorpresa più grande della mia carriera letteraria. Un amico personale mi pregò di scrivere un raccontino di fantascienza per un giornaletto scolastico di cui era redattore, e io acconsentii, per pura amicizia. Ero convinto che la novelletta sarebbe apparsa per un giorno solo su qualche giornale, e poi sarebbe finita nel dimenticatoio.
Invece, venne pubblicata anche da Fantasy and Science Fiction e, con mia meraviglia, cominciarono a fioccare le richieste di ristampa. Sarà stata ripubblicata di sicuro una trentina di volte, e da una quindicina d'anni a questa parte continua ad essere richiesta e ristampata (anche ora, infatti).
Perché? Non lo so il perché. Se avessi la mentalità del critico (ma proprio non l'ho) cercherei di analizzare i miei racconti, calcolerei i fattori per i quali alcuni hanno maggiore successo di altri, coltiverei quei fattori e toccherei il culmine dell'eccellenza.
Ma al diavolo una simile idea. Se il prezzo del successo è la perdita della libertà di scrivere ciò che voglio, non sono disposto a pagarlo. Il mio temperamento non me lo consente. Scriverò quello che mi garba e lascerò che le analisi le facciano i critici. (Qualcuno, ieri, mi diceva che un critico è come un eunuco in un harem. Può osservare, studiare, analizzare... ma, da parte sua, non può far niente.)»
La prima pubblicazione di questo racconto è del 1951.

Margie lo scrisse perfino nel suo diario, quella sera. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157, scrisse: «Oggi Tommy ha trovato un vero libro!»
Era un libro antichissimo. Il nonno di Margie aveva detto una volta che, quand'era bambino lui, suo nonno gli aveva detto che c'era stata un'epoca in cui tutte le storie e i racconti erano stampati su carta.
Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com'era previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c'erano le stesse parole che loro avevano già letto la prima volta.
«Mamma mia, che spreco» disse Tommy. «Quand'uno è arrivato in fondo al libro, che cosa fa? Lo butta via, immagino. Il nostro schermo televisivo deve avere avuto un milione di libri, sopra, ed è ancora buono per chissà quanti altri. Chi si sognerebbe di buttarlo via?»
«Lo stesso vale per il mio» disse Margie. Aveva undici anni, lei, e non aveva visto tanti telelibri quanti ne aveva visti Tommy. Lui di anni ne aveva tredici.
«Dove l'hai trovato?» gli domandò.
«In casa.» Indicò senza guardare, perché era occupatissimo a leggere. «In solaio.»
«Di che cosa parla?»
«Di scuola.»
«Di scuola?» Il tono di Margie era sprezzante. «Cosa c'è da scrivere, sulla scuola? Io, la scuola, la odio.»
Margie aveva sempre odiato la scuola, ma ora la odiava più che mai. L'insegnante meccanico le aveva assegnato un test dopo l'altro di geografia, e lei aveva risposto sempre peggio, finché la madre aveva scosso la testa, avvilita, e aveva mandato a chiamare l'Ispettore della Contea.
Era un omino tondo tondo, l'Ispettore, con una faccia rossa e uno scatolone di arnesi con fili e con quadranti. Aveva sorriso a Margie e le aveva offerto una mela, poi aveva smontato l'insegnante in tanti pezzi. Margie aveva sperato che poi non sapesse più come rimetterli insieme, ma lui lo sapeva e, in poco più di un'ora, l'insegnante era di nuovo tutto intero, largo, nero e brutto, con un grosso schermo sul quale erano illustrate tutte le lezioni e venivano scritte tutte le domande. Ma non era quello, il peggio. La cosa che Margie odiava soprattutto era la fessura dove lei doveva infilare i compiti e i testi compilati. Le toccava scriverli in un codice perforato che le avevano fatto imparare quando aveva sei anni, e il maestro meccanico calcolava i voti a una velocità spaventosa.
L'ispettore aveva sorriso, una volta finito il lavoro, e aveva accarezzato la testa di Margie. Alla mamma aveva detto: «Non è colpa della bambina, signora Jones. Secondo me, il settore geografia era regolato male. Sa, sono inconvenienti che capitano, a volte. L'ho rallentato. Ora è su un livello medio per alunni di dieci anni. Anzi, direi che l'andamento generale dei progressi della scolara sia piuttosto soddisfacente.» E aveva fatto un'altra carezza sulla testa a Margie.
Margie era delusa. Aveva sperato che si portassero via l'insegnante, per ripararlo in officina. Una volta s'erano tenuti quello di Tommy per circa un mese, perché il settore storia era andato completamente a pallino.
Così, disse a Tommy: «Ma come gli viene in mente, a uno, di scrivere un libro sulla scuola?»
Tommy la squadrò con aria di superiorità. «Ma non è una scuola come la nostra, stupida! Questo è un tipo di scuola molto antico, come l'avevano centinaia e centinaia di anni fa.» Poi aggiunse altezzosamente, pronunciando la parola con cura. «Secoli fa.»
Margie era offesa. «Be', io non so che specie di scuola avessero, tutto quel tempo fa.» Per un po' continuò a sbirciare il libro, china sopra la spalla di lui, poi disse: «In ogni modo, avevano un maestro.»
«Certo che avevano un maestro, ma non era un maestro regolare. Era un uomo.»
«Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro?»
«Be', spiegava le cose ai ragazzi e alle ragazze, dava da fare dei compiti a casa e faceva delle domande.»
«Un uomo non è abbastanza in gamba.»
«Sì che lo è. Mio papà ne sa quanto il mio maestro.»
«Ma va'! Un uomo non può saperne quanto un maestro.»
«Ne sa quasi quanto il maestro, ci scommetto.»
Margie non era preparata a mettere in dubbio quell'affermazione. Disse:
«Io non ce lo vorrei un estraneo in casa mia, a insegnarmi.»
Tommy rise a più non posso. «Non sai proprio niente, Margie. Gli insegnanti non vivevano in casa. Avevano un edificio speciale e tutti i ragazzi andavano là.»
«E imparavano tutti la stessa cosa?»
«Certo, se avevano la stessa età.»
«Ma la mia mamma dice che un insegnante dev'essere regolato perché si adatti alla mente di uno scolaro o di una scolara, e che ogni bambino deve essere istruito in modo diverso.»
«Sì, però loro a quei tempi non facevano così. Se non ti va, fai a meno di leggere il libro.»
«Non ho detto che non mi va, io» si affrettò a precisare Margie. Certo che voleva leggere di quelle buffe scuole.
Non erano nemmeno a metà del libro quando la signora Jones chiamò:
«Margie! A scuola!»
Margie guardò in su. «Non ancora, mamma.»
«Subito!» disse la signora Jones. «E sarà ora di scuola anche per Tommy, probabilmente.»
Margie disse a Tommy: «Posso leggere ancora un po' il libro con te, dopo la scuola?»
«Vedremo» rispose lui, con noncuranza. Si allontanò fischiettando, il vecchio libro polveroso stretto sotto il braccio.
Margie se ne andò in classe. L'aula era proprio accanto alla sua cameretta, e l'insegnante meccanico, già in funzione, la stava aspettando. Era in funzione sempre alla stessa ora, tutti i giorni tranne il sabato e la domenica, perché la mamma diceva che le bambine imparavano meglio se imparavano a orari regolari.
Lo schermo era illuminato e diceva: «Oggi la lezione di aritmetica è sull'addizione delle frazioni proprie. Prego inserire il compito di ieri nell'apposita fessura.»
Margie obbedì, con un sospiro. Stava pensando alle vecchie scuole che c'erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare.
E i maestri erano persone...
L'insegnante meccanico faceva lampeggiare sullo schermo: «Quando addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4 ...»
Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà, stava pensando, come si divertivano!



giovedì 29 marzo 2018

180 Condotto "C" (di Isaac Asimov)



Pubblicato nel 1951 nella rivista Galaxy, questo racconto rientra appieno nei canoni della fantascienza più classica; da una parte ci sono sei terrestri fatti prigionieri durante una guerra con gli abitanti di un lontano pianeta, dall’altra gli alieni, i Kloro, così chiamati perché vivono in un’atmosfera satura di cloro, che li rende verdastri e accentua il ribrezzo per il loro corpo, la cui parte superiore è filiforme e termina con una minuscola testa comprendente una specie di proboscide e due occhi laterali.
Il racconto venne poi inserito nell’antologia “Il meglio di Asimov” del 1974; lo stesso Asimov, nella premessa all’antologia lo definisce come un racconto che «si avvicina all’inizio del mio periodo “maturo” (o come preferite chiamarlo)».

Dalla cabina in cui era stato rinchiuso con altri passeggeri, il colonnello Anthony Windham poteva ancora seguire le fasi della battaglia in corso. Per un po' ci fu silenzio, nessuna scossa. Significava che le astronavi stavano combattendo, a distanza astronomica, un duello di scariche d'energia e di potenti campi di forza difensivi. 
Il colonnello sapeva benissimo che la battaglia poteva finire in un solo modo. La loro astronave terrestre era un semplice mercantile armato mentre, da quello che Windham aveva potuto vedere, la nave dei Kloro, la razza nemica, era un incrociatore leggero. Poi, l'equipaggio lo aveva obbligato a sgomberare il ponte con gli altri passeggeri. 
In meno di mezz'ora, infine, si erano cominciati a sentire quei piccoli urti, secchi e duri, che lui si aspettava. I passeggeri venivano sballottati qua e là ad ogni impennata della nave, tanto che sembrava d'essere a bordo di un transatlantico durante una tempesta, anziché su un'astronave. Gli spazi cosmici erano calmi e silenziosi come sempre. Era il pilota che lanciava disperati getti di vapore dai tubi di scarico, allo scopo appunto di far compiere alla nave, per normale reazione, una serie di sbalzi e di sbandamenti. Questo voleva dire che l'inevitabile era già avvenuto: gli schermi erano ormai esauriti e la nave non era più in grado di sopportare un colpo diretto. 
Il colonnello Windham cercò di appoggiarsi meglio al suo bastone di alluminio. Si sentiva vecchio; era cosciente d'avere passato tutta la vita nell'esercito senza avere mai visto una battaglia, e ora che un combattimento gli si era scatenato intorno, lui era ormai un vecchio grasso, zoppo e senza uomini ai quali dare ordini. 
Tra poco i mostruosi Kloro sarebbero saliti a bordo: era la loro tattica. Dato che gli scafandri spaziali costituivano per loro un notevole impaccio, avrebbero subito perdite gravissime, ma era loro intenzione catturare a tutti i costi l'astronave dei terrestri. Windham osservò per qualche istante i passeggeri intorno a lui. Per un attimo, pensò: "Se fossero armati e io potessi averli ai miei ordini..." 
Ma abbandonò subito l'idea: Porter era, evidentemente, in preda al panico, e Leblanc, il ragazzo, non si trovava in condizioni migliori. I fratelli Polyorketes - accidenti, ma non si riusciva a distinguerli l'uno dall'altro - erano rannicchiati in un angolo e non rivolgevano la parola a nessuno. Mullen... be', Mullen era diverso. Sedeva perfettamente eretto sulla persona, senza dare il minimo segno di paura né di qualsiasi altra emozione. Ma non era più alto di un metro e sessanta ed era chiaro che non aveva mai impugnato un'arma in vita sua. Non poteva essere d'aiuto a nessuno. 
C'era poi Stuart, con il suo sorriso mezzo stereotipato e il sarcasmo velenoso che impregnava ogni sua parola. Windham lanciò uno sguardo di sottecchi a Stuart, intento in quell'istante a passarsi le mani pallide come quelle di un cadavere nei capelli così biondi da avere riflessi di cenere. In ogni caso, con quelle mani artificiali, Stuart non avrebbe potuto far niente. 
Windham sentì le vibrazioni dell'urto in seguito al contatto fra le due astronavi, e dopo cinque minuti si udì il fracasso di una lotta accanita nei corridoi della nave. Uno dei fratelli Polyorketes lanciò un urlo e corse verso la porta. L'altro lo chiamò: «Aristides! Aspettami!» E lo rincorse. 
Tutto avvenne con estrema rapidità. Aristides era già oltre la soglia e stava correndo lungo il passaggio, in preda al panico. Un carbonizzatore brillò per un istante, e non vi fu nemmeno un urlo. Windham, dalla soglia, si volse a guardare inorridito il moncone calcinato, tutto quello che restava di un essere umano. Strano... tutta una vita sotto le armi e quella era la prima volta che vedeva morire un uomo di morte violenta. 
Ci vollero le forze riunite degli altri passeggeri per riportare nella cabina l'altro fratello, che si divincolava come un pazzo.
Poi, i rumori della battaglia a poco a poco si spensero. 
«Ecco fatto» disse Stuart. «Lasceranno a bordo due dei loro per pilotare l'astronave e ci porteranno in uno dei loro pianeti. Siamo ormai prigionieri di guerra.»
«Soltanto due Kloro a bordo?» domandò Windham, stupito. 
«È la loro usanza» disse Stuart. «Perché, colonnello? Avrebbe forse in animo di comandare una brillante operazione per riconquistare la nostra nave?» 
Windham arrossì. «Dicevo così, tanto per sapere!» Ma sentì che il tono autorevole e la dignità militare gli erano venuti meno proprio quando più avrebbero dovuto imporsi. Ormai, non era più che un vecchio, con una gamba malata. 
E Stuart probabilmente aveva ragione. Era stato con i Kloro e conosceva i loro metodi.

John Stuart aveva sostenuto fin da principio che i Kloro erano veri gentiluomini. Ora, dopo ventiquattr'ore di prigionia, lo ripeté, fissandosi le mani e osservando le pieghe andare e venire sulla sostanza plastica di cui erano fatte. 
Lo divertiva la spiacevole reazione che la sua frase destava fra gli altri. La gente era fatta per essere punzecchiata; vesciche d'aria, tutti, dal primo all'ultimo. E poi avevano le mani fatte di carne, della stessa carne del corpo. 
Quell'Anthony Windham, per esempio. Si faceva chiamare colonnello, e Stuart era dispostissimo a credergli. Un colonnello in pensione, che probabilmente aveva fatto istruzione alle milizie di sicurezza della Terra, una quarantina d'anni prima, e con uno stato di servizio così poco brillante da non venire neppure richiamato in servizio durante la crisi del primo conflitto interstellare della Terra. 
«Non mi sembra che le sue parole nei riguardi dei nostri nemici siano molto piacevoli a sentirsi, Stuart, e temo di non approvare affatto il suo atteggiamento.» Windham aveva parlato come sparando le parole attraverso i baffi tagliati corti. Portava i capelli a zero, secondo la moda militare corrente, ma un po' di lanugine grigia aveva cominciato a ricrescergli intorno allo spiazzo lucido che aveva in mezzo al cranio. Le guance gli cadevano flaccide e, con le sottilissime vene rosse che gli solcavano il naso grosso e carnoso, gli davano un aspetto confuso e disordinato, come di chi sia stato svegliato troppo presto e troppo bruscamente qualche minuto prima. 
«Sciocchezze» disse Stuart. «Provi a rovesciare la situazione. Supponga che una nave della Terra avesse catturato un mercantile kloro. Che cosa crede che sarebbe successo dei civili kloro a bordo del mercantile?» 
«Sono certo che la flotta terrestre avrebbe osservato scrupolosamente tutte le norme del diritto di guerra interstellare.» 
«Salvo che non esiste un codice interstellare di guerra. Se catturassimo una delle loro navi crede che ci prenderemmo il disturbo di mantenere un'atmosfera a base di cloro a favore dei superstiti? Che permetteremmo loro di conservare i beni non contrabbandati di loro proprietà? Che concederemmo loro la più comoda delle cabine di lusso, eccetera, eccetera?» 
Ben Porter interloquì: «Oh, per l'amor di Dio, la smetta. Se sento ancora uno dei suoi eccetera, eccetera, giuro che divento pazzo!»
«Scusi, me ne dispiace» disse Stuart. Ma non era vero. 
Porter sembrava avere già messo in esecuzione la sua minaccia di impazzire. La faccia affilata, dal naso a uncino, era lucida di sudore, ed egli continuava a mordicchiarsi l'interno della guancia, fino a quando, improvvisamente, sussultò di dolore; dopo di che, appiccicò la lingua nel punto dove la mucosa gli doleva, assumendo un'aria ancora più ridicola. 
Stuart cominciava ad averne abbastanza di stuzzicarli. Windham era un bersaglio troppo debole e Porter non sapeva fare altro che tremare. Gli altri tacevano. Demetrios Polyorketes si era chiuso nel suo muto, disperato dolore. Durante la notte non doveva aver chiuso occhio. Almeno, ogni volta che Stuart si era svegliato per cambiare posizione - perché anche lui era stato notevolmente agitato - aveva sentito il mugolio sommesso di Polyorketes giungere dalla cuccetta accanto alla sua. 
Ora Polyorketes se ne stava seduto sulla cuccetta, con aria inebetita, fissando gli altri prigionieri con occhi tondi e arrossati che si aprivano come squarci nella larga faccia non rasata. Sentendosi osservato da Stuart, si nascose la faccia tra le mani callose, così che rimase visibile soltanto la massa arruffata dei suoi capelli folti e ricciuti. Si dondolava da un lato e dall'altro, lentamente, ma ora che tutti erano svegli, non si lamentava più. 
Claude Leblanc cercava, senza riuscirci, di leggere una lettera. Era il più giovane dei sei prigionieri; aveva appena terminato gli studi e tornava sulla Terra per sposarsi. Stuart lo aveva sorpreso quella mattina a piangere in silenzio, la faccia bianca e rosea tutta gonfia e arrossata, come quella di un bambino in preda alla disperazione. Era biondo, di una bellezza quasi femminea, con grandi occhi azzurri e labbra rosse e carnose. Stuart si domandava che specie di ragazza potesse essere quella che aveva accettato di diventarne la moglie. Aveva visto la fotografia della fidanzata. Chi non l'aveva vista, a bordo? Una ragazza graziosa, di quella bellezza stereotipata e un po' sciocca che rende le fidanzate tutte uguali, almeno in fotografia. Stuart si era detto che, se fosse stato una donna, avrebbe preferito un tipo più mascolino di Leblanc. 
Rimaneva soltanto Randolph Mullen. Stuart, in verità, non aveva la più pallida idea di che cosa tirar fuori da Mullen. Era l'unico dei sei che avesse vissuto per un certo tempo sui pianeti del sistema di Arturo. Lo stesso Stuart, per esempio, vi era rimasto soltanto il tempo necessario per tenere una serie di conferenze di ingegneria astronautica al Politecnico Arturiano. Windham c'era stato durante un viaggio turistico; Porter aveva cercato di importare verdure extraterrestri per le sue industrie di cibi in scatola della Terra; i fratelli Polyorketes avevano tentato di stabilirsi nel sistema di Arturo come agricoltori indipendenti e, dopo due stagioni di raccolti, avevano venduto tutto con un certo margine di profitto ed erano ripartiti per la Terra. 
Randolph Mullen, invece, aveva vissuto nel sistema arturiano per diciassette anni. Come facevano i viaggiatori a scoprire tante cose l'uno dell'altro, in così poco tempo? Da quanto ne sapeva Stuart, quell'ometto non aveva quasi aperto bocca, da quando aveva messo piede a bordo. Era gentilissimo, sempre pronto a farsi da parte per lasciar passare un altro, ma tutto il suo vocabolario, evidentemente, consisteva soltanto in «Grazie» e «Scusi». Pure, tutti sapevano, a bordo, che quella era la prima volta che Mullen ritornava sulla Terra, da diciassette anni. 
Era un ometto minuto, molto preciso, così preciso da riuscire quasi irritante. Svegliatosi, quella mattina, s'era rifatto il letto con molta cura, si era raso, aveva fatto il bagno e si era vestito. Le abitudini di anni e anni non erano state minimamente scalfite dal fatto che ora si trovava prigioniero dei Kloro. Era olimpico, e bisognava anche riconoscere che non aveva l'aria di condannare lo spettacolo penoso dato dalla disperazione dei suoi compagni di prigionia. Se ne stava tranquillamente seduto, quasi con l'aria di chiedere scusa, infagottato negli abiti antiquati e con le mani mollemente intrecciate e abbandonate in grembo. I baffi sottilissimi che si era lasciato crescere, invece di aggiungere rilievo alla faccia, ne accentuavano il carattere scialbo. 
Tutto sommato, faceva venire in mente la caricatura di un contabile. E il buffo era che, nella vita, l'ometto faceva proprio il contabile. Stuart l'aveva letto sul registro di bordo: Randolph Fluellen Mullen, di professione contabile; impiegato presso la Prime Paper Box Co., Tobias Avenue 27, Nova Varsavia, Arturo II.

«Signor Stuart?» 
Stuart alzò gli occhi. Era Leblanc, il labbro inferiore un po' tremante. Stuart cercò di ricordare che cosa si deve fare quando si vuol essere gentili. «Che c'è, Leblanc?» domandò. 
«Mi dica, quando saremo liberati?» 
«Come faccio a saperlo?» 
«Tutti dicono che lei ha vissuto su un pianeta kloro, e poco fa l'ho sentita dire che si tratta di esseri corretti e leali.» 
«Sì, ma anche gli esseri corretti e leali combattono le guerre per vincerle. Probabilmente, saremo internati per tutta la durata della guerra!» 
«Ma potrebbe durare anni e anni! Margaret mi aspetta. Crederà che io sia morto!» 
«Immagino che ci permetteranno di spedire qualche messaggio, quando saremo sbarcati sul loro pianeta.» 
Si udì la voce di Porter, resa roca dall'agitazione: «Dica un po', visto che la sa così lunga su questi diavoli, che cosa ci faranno durante l'internamento? Come ci daranno da mangiare? Dove andranno a prendere l'ossigeno per noi? Ci ammazzeranno tutti, ve lo dico io.» Poi, dopo un istante di riflessione, aggiunse: «Ho una moglie che mi aspetta, oltre tutto!» 
Ma Stuart l'aveva già udito parlare della moglie, nei giorni precedenti all'attacco, e quella frase non lo impressionò. Le dita di Porter, dalle unghie rosicchiate, gli stavano tirando l'orlo della manica. Stuart si ritrasse con un senso di ripugnanza: non poteva sopportare quelle mani orribili. Lo irritava fino alla disperazione che tali mostruosità dovessero essere vere, mentre le sue belle mani bianche e affusolate erano soltanto imitazioni, fatte con una sostanza plastica originaria di un altro pianeta. 
«Stia tranquillo» disse «non ci ammazzeranno. Se avessero voluto farlo, ci avrebbero ammazzati prima. Scusi, anche noi facciamo prigionieri i kloro, ed è questione di buon senso, in fondo: trattare bene i prigionieri nemici, se si vuole che siano trattati bene i propri. Vedrà, faranno del loro meglio. Il cibo che ci daranno non sarà molto buono, forse, ma conoscono la chimica meglio di noi, anzi, è la scienza in cui eccellono, e sapranno ben presto quali sostanze e quante calorie, esattamente, ci occorrono. Vivremo. E sarà loro premura che noi si viva.»

«Più passa il tempo, più lei, Stuart, si mostra un accanito sostenitore di quei verdoni maledetti» brontolò Windham. «Mi si rivolta lo stomaco nel sentire un terrestre parlare così bene di quelle creature verderame; ma insomma, dico io, dov'è la sua fedeltà?» 
«La mia fedeltà è dalla parte di chi se la merita, Va all'onestà e alla dignità, dovunque si trovino, indipendentemente dall'aspetto e dal colore della pelle.» Stuart mostrò le mani. «Le vede queste? Sono stati i Kloro a farmele. Mi trovavo da sei mesi su uno dei loro pianeti. Le mani mi rimasero impigliate nell'impianto di condizionamento della mia abitazione. Mi sembrava che l'ossigeno che ci fornivano non fosse sufficiente, e avevo cercato di organizzarmi per conto mio. Fu il più grave errore della mia vita. Non bisogna mai toccare macchine prodotte da extra-terrestri. Quando finalmente uno dei Kloro riuscì a mettersi uno scafandro atmosferico e ad accorrere in mio aiuto, per le mie mani era troppo tardi. 
«Ebbene, i Kloro hanno costruito per me queste mani plastiche e poi mi hanno operato. Sapete che cosa significava tutto questo per loro? Significava studiare attrezzature e soluzioni nutrienti che potessero operare in un'atmosfera a base di ossigeno. Significava che i loro chirurghi dovevano eseguire un intervento particolare, complesso e delicato, vestiti di scafandri atmosferici. Ma significava anche ridarmi un paio di mani perfette: eccole qua, vede?» Scoppiò a ridere, strinse debolmente i pugni. «Mani...» 
«E lei» disse Windham, «per questo rinuncerebbe alla sua fedeltà verso la sua razza?» 
«Rinunciare alla mia fedeltà? Ma lei è pazzo! Per anni ho odiato i Kloro proprio per questo. Ero il primo pilota delle Astrolinee Transgalattiche, prima che mi capitasse la disgrazia. Mentre ora, tutto quello che posso fare è un lavoro di tavolino, più qualche conferenza di tanto in tanto. Mi ci sono voluti anni, le ripeto, prima di ammettere che la disgrazia era stata tutta colpa mia e che i Kloro si erano comportati nei miei riguardi in modo più che lodevole. Hanno un loro codice morale che equivale al nostro, anche se non è il nostro. Se non fosse per l'idiozia di alcuni di loro - e, gran Dio, di alcuni dei nostri - ora non saremmo in guerra. E quando tutto sarà finito...» 
Polyorketes si era alzato. Le sue grosse dita erano contratte a pugno, gli occhi mandavano lampi. «Non mi piace quello che sta dicendo, amico...»
«E perché?» 
«Perché parla troppo bene di questi maledetti ramarri. I Kloro, lei, l'hanno trattata bene, eh? Ma mio fratello no, non l'hanno trattato bene. L'hanno ammazzato. E io ho una mezza idea di ammazzare te, maledetto spione dei verdi.»
E gli si buttò addosso. 
Stuart ebbe appena il tempo di alzare le braccia per tenere a bada il contadino inferocito. Riuscì a dire, ansimando: «Ma che diavolo...» e intanto afferrava l'altro per il polso e, con una spalla, cercava di allontanare la mano che voleva afferrarlo alla gola.
Il suo arto di plastica cedette. Polyorketes si liberò quasi senza sforzo. 
Windham blaterava parole incoerenti, mentre Leblanc urlava con voce stridula: «Finitela! Finitela!» Ma fu il piccolo Mullen che afferrò il contadino per il collo dal di dietro, tirandolo a sé con tutta la sua forza. Non riuscì a far molto: Polyorketes sembrava non accorgersi nemmeno del peso esercitato dall'ometto sulla sua schiena. Nel chinarsi, lo sollevò da terra, e Mullen si ritrovò a scalciare nel vuoto; ma non allentò la stretta, che tutto sommato riuscì a intralciare Polyorketes quel tanto da permettere a Stuart di liberarsi e afferrare il bastone di alluminio di Windham.
«Indietro, Polyorketes» intimò Stuart, ansimando. 
Temeva che l'altro tornasse alla carica. Il cilindro cavo di alluminio non pesava tanto da rappresentare una grande difesa, ma era sempre meglio di un paio di povere mani di plastica. 
Mullen aveva mollato la presa e stava girando cautamente intorno all'aggressore, il respiro un po' affannoso e gli abiti in disordine. 
Polyorketes, per un momento, non si mosse. Se ne stava là, con la testa scarmigliata protesa in avanti. «È inutile» disse poi. «Devo ammazzare qualche Kloro. Ma attento a come parli, Stuart. Tieni la lingua a freno. Se continui a parlare così, rischi qualche grosso guaio. Ho detto grosso, bada!» 
Stuart si passò l'avambraccio sulla fronte e gettò il bastone a Windham, che lo prese al volo con la sinistra, mentre con la destra si asciugava vigorosamente la testa pelata. 
«Signori» disse infine il colonnello, rimettendosi in tasca il fazzoletto, «dobbiamo evitare scene di questo genere. Degradano il nostro prestigio. Ricordiamoci del comune nemico. Siamo tutti terrestri e dobbiamo comportarci per quello che siamo: la razza dominante della Galassia. Badiamo bene a non sminuirci davanti agli inferiori.» 
«Sì, colonnello» disse Stuart in tono stanco, «rimandiamo il resto del discorso a domani.»
Si rivolse a Mullen: «Debbo ringraziarla.» 
Gli seccava, ma doveva farlo. Il piccolo contabile lo aveva letteralmente sorpreso. 
Ma Mullen, con una voce secca, ch'era poco più di un sussurro, replicò: «Non è il caso di ringraziarmi, signor Stuart. Era la sola cosa logica da farsi. Se dovremo essere internati, avremo forse bisogno di lei come interprete, ci servirà una persona che conosca bene i Kloro.» 
Stuart s'irrigidì. Era il modo di ragionare di un contabile, c'era una logica troppo meschina, uno spirito utilitaristico troppo gretto. Colonna del "dare" e dell' "avere". Partita doppia, utili e perdite. Stuart avrebbe preferito che Mullen fosse intervenuto in sua difesa obbedendo a... ebbene, obbedendo a che cosa? a un istinto di puro, onorevole altruismo? 
Stuart rise silenziosamente di sé. Era dunque arrivato al punto di aspettarsi dagli esseri umani prove di idealismo, anziché dimostrazioni di egocentrismo profondo, aperto, dichiarato?

Polyorketes era come inebetito. Il dolore e la rabbia agivano come un acido dentro di lui, ma non avevano parole per uscire. Se fosse stato come Stuart, dalla parola facile, dalle mani troppo bianche, avrebbe potuto anche lui parlare e parlare, e forse si sarebbe sentito meglio. E invece doveva starsene seduto là, con la metà di sé stesso distrutta; senza più suo fratello, senza più Aristides... 
Era accaduto tutto così rapidamente. Se soltanto egli avesse potuto tornare indietro, avere un solo secondo di più a disposizione per lanciare un altro avvertimento, così da salvare Aristides, trattenerlo, strapparlo al pericolo... 
Ma era soprattutto l'odio per i Kloro, il pensiero che lo dominava. Due mesi fa, quasi non li conosceva, e ora li odiava con tale forza che sarebbe stato felice di morire, se prima avesse potuto ucciderne qualcuno. 
Domandò, senza alzare gli occhi: «Si può sapere, insomma, chi è stato a far scoppiare questa guerra?» 
Temeva che fosse la voce di Stuart, a rispondergli. Odiava la voce di Stuart. Ma era quella di Windham, il calvo. 
«La causa immediata» disse il vecchio, «è stata una disputa sulle concessioni minerarie nel sistema planetario di Wyandotte. I Kloro avevano interferito in quelle che erano proprietà terrestri.»
«C'era posto per tutti, colonnello!» 
A quelle parole Polyorketes guardò in su, furente. Stuart! Non c'era verso di farlo star zitto. Ecco che aveva ripreso a parlare, quello storpio, quel Kloromane saccente. 
«Le pare che valesse la pena di far scoppiare una guerra per così poco, colonnello?» stava dicendo Stuart. «Noi non possiamo sfruttare i loro pianeti e loro non possono sfruttare i nostri. I loro, con atmosfera a base di cloro, sono inutili per noi così come lo sono i nostri per loro. Non esistono motivi per un'ostilità permanente. Le nostre razze non hanno niente in comune, non coincidono. C'è dunque qualche seria ragione per combatterci solo perché le nostre due razze vogliono estrarre il ferro dagli stessi planetoidi privi di atmosfera, quando ce ne sono milioni di altri simili, nella Galassia?»
«C'è la questione» disse Windham, «dell'onore planetario...» 
«Concime planetario, direi. Come può l'onore giustificare una guerra ridicola come questa? La si può combattere soltanto sugli avamposti. Tutto si riduce a una serie di scaramucce e presto si dovrà giungere a negoziati che si sarebbero potuti intavolare in partenza, prima delle ostilità. Né i Kloro né noi ci avremo guadagnato niente.» 
Polyorketes si accorgeva, suo malgrado, d'essere d'accordo con Stuart. Importava qualcosa, a lui o ad Aristides, che fosse la Terra o i Kloro ad avere quel ferro?
Valeva la pena che, per quel ferro, Aristides ci rimettesse la vita?
Si udì il ronzio del campanello. 
Polyorketes sollevò la testa di scatto e si alzò lentamente, le labbra tirate fino a scoprire i denti. Soltanto una di quelle creature poteva essere dietro la porta. Aspettò, le braccia tese e i pugni contratti. Stuart si stava spostando lentamente verso di lui. Polyorketes se ne accorse e rise tra sé. Lascia che il Kloro entri, pensò, e né Stuart né gli altri potranno fermarmi. 
Aspetta, Aristides, aspetta un istante solo e almeno una parte di vendetta sarà compiuta. 
La porta si aprì e sulla soglia apparve una figura completamente nascosta entro l'involucro voluminoso ed informe di uno scafandro spaziale. 
Una voce strana, innaturale ma non del tutto sgradevole, cominciò a dire: «È con qualche apprensione, uomini della Terra, che il mio compagno ed io...» 
S'interruppe bruscamente nell'istante in cui Polyorketes, con un vero e proprio muggito, caricò di nuovo, a testa bassa, come un bisonte infuriato. Stuart venne scaraventato in là con tanta forza che andò a finire su una delle cuccette, prim'ancora di poter intervenire. 
Il Kloro avrebbe potuto, senza sforzo, fermare il terrestre con la sola pressione delle braccia tese, o farsi semplicemente da parte, lasciando che quella catapulta umana venisse trascinata via dal proprio impeto. Ma non fece né una cosa né l'altra. Con gesto rapido, puntò un piccolo radiodiffusore, e un filo sottilissimo di luce rossa collegò l'arma con il corpo del terrestre. Polyorketes incespicò e si abbatté sul pavimento, il corpo ancora inarcato, un piede sollevato a mezz'aria, come colpito da una fulminea paralisi. Era rotolato su un fianco e rimase in quella posizione, gli occhi vivi e fiammeggianti di furore. 
«Non è leso in modo permanente» disse il Kloro. Non sembrava risentito per la tentata aggressione. Riprese: «È con qualche apprensione, uomini della Terra, che il mio compagno e io ci siamo resi conto di una certa agitazione in questa cabina. Avete per caso qualche necessità che noi possiamo soddisfare?» 
Stuart si stava massaggiando rabbiosamente il ginocchio, sbucciatosi nell'urto contro la sponda del lettino. «No, grazie, Kloro» disse. 
«Ehi, un momento» proruppe Windham. «Cos'è questo sopruso di tenerci imprigionati qui dentro? Chiediamo che si provveda al nostro rilascio.» 
La piccola testa da insetto del Kloro si volse in direzione del vecchio. L'extra-terrestre non aveva certo un aspetto gradevole, per chi non vi fosse abituato. Alto circa come un terrestre, la parte superiore del suo corpo era formata da uno stelo sottilissimo, che in cima si dilatava in una minuscola testa. Questa comprendeva una proboscide triangolare sul davanti e due occhi laterali, molto sporgenti. Non c'era altro. Né scatola cranica né cervello. Quello che in un Kloro corrispondeva al cervello umano era situato là dove un terrestre ha l'addome, per cui la testa non era altro che un semplice organo sensorio. Lo scafandro kloriano seguiva i contorni della testa con sufficiente aderenza, e i due occhi erano messi in mostra da due semicerchi di una sostanza vetrosa, trasparente, che l'atmosfera interna a base di cloro rendeva verdastra. 
Uno degli occhi fissava ora con forza Windham che, pur sentendosi a disagio sotto quello sguardo disumano, trovò la forza di insistere. «Non avete nessun diritto di tenerci prigionieri. Noi non siamo combattenti.» 
La voce del Kloro, dal timbro meccanico e artificiale, proveniva da un piccolo apparecchio di cromo applicato a quello che si poteva definire il torace della creatura. La cassa sonora era manipolata dai delicatissimi tentacoli biforcuti che si irradiavano da due cerchi posti nella parte superiore del corpo e nascosti, per fortuna, dallo scafandro. 
«Parli sul serio, terrestre?» disse la voce. «Avrai pur sentito parlare di guerra e di norme relative ai prigionieri di guerra.» 
Si guardava intorno, spostando il capo con rapidi scatti e fissando ogni oggetto prima con un occhio e poi con l'altro. Stuart sapeva che ogni occhio trasmetteva un messaggio diverso al cervello addominale, che doveva poi coordinare le immagini ricevute per avere l'informazione completa. 
Windham non sapeva che cosa rispondere. Nessuno lo sapeva. Il Kloro, con le sue quattro membra principali - due paia d'arti, l'uno superiore e l'altro inferiore - aveva un aspetto vagamente umano sotto lo scafandro, se non lo si guardava più su del torace, ma non c'era modo di capire come la pensasse.
I prigionieri lo videro voltarsi e uscire.

Porter tossì e disse con voce strozzata: «Dio, che puzza di cloro! Se non provvedono in qualche modo, qui finiremo tutti con i polmoni a pezzi.» 
«Ma la smetta» disse Stuart. «Non c'è abbastanza cloro, nell'aria, da far starnutire una zanzara, e quella minima quantità che vi si trova si dissiperà entro un minuto o due. Senza contare che un po' di cloro non fa male, anzi: uccide il virus dell'influenza.» 
Windham tossì a sua volta. «Stuart» disse, «mi sembra che avrebbe potuto dire qualcosa al suo amico Kloro, in merito al nostro rilascio. In loro presenza, non ha neppure la metà della parlantina che tira fuori appena rimaniamo tra noi.» 
«Ha pur sentito che cos'ha detto il Kloro, colonnello. Noi siamo prigionieri, e in base alle norme di guerra gli scambi di prigionieri avvengono tramite negoziati diplomatici. Dovremo aspettare.» 
Leblanc, che all'entrare del Kloro si era fatto più bianco di un panno lavato, si alzò e corse in bagno. Gli altri lo sentirono dar di stomaco. 
Un silenzio penoso scese sul gruppo, mentre Stuart cercava qualcosa da dire per coprire quei rumori sgradevoli. Fu Mullen a venirgli in aiuto. Stava frugando in una scatoletta che aveva tratto da sotto il cuscino. 
«Forse» disse, «il signor Leblanc dovrebbe prendere un calmante, prima di coricarsi. Ho ancora qualche pillola. Sarei lieto di dargliene una.» Spiegò immediatamente il motivo della sua generosità. «Diversamente, potrebbe tenerci tutti quanti svegli, non vi pare?» 
«Più che logico» osservò seccamente Stuart. «E farà bene a tenerne una anche per il nostro Sir Lancillotto, qui; anzi, teniamone da parte una mezza dozzina.» Si avvicinò a Polyorketes, sempre disteso al suolo, e gli si inginocchiò accanto: «Stai comodo, piccolo?».
«Non è di buon gusto parlare così, Stuart» s'indignò Windham. 
«Be', visto che le sta tanto a cuore, perché non si fa aiutare da Porter a stenderlo sul letto?» 
Li aiutò a fare quanto aveva suggerito. Le braccia di Polyorketes tremavano spasmodicamente, ora. Da quello che Stuart sapeva delle armi dei Kloro, Polyorketes doveva essere ora in preda a una serie di fitte acutissime, sparse per tutto il corpo. 
«E cercate anche di non essere troppo gentili con lui, ora» aggiunse. «Quest'idiota poteva farci ammazzare tutti. E a quale scopo?» 
Spinse il corpo irrigidito di Polyorketes sull'altro lato della cuccetta e si sedette sulla sponda. «Mi senti, Polyorketes?» 
Gli occhi del contadino scintillarono. Polyorketes tentò di alzare un braccio ma non vi riuscì; il braccio ricadde sul letto. 
«Benissimo, allora stammi a sentire. Non tentare mai più una cosa del genere. La prossima volta potrebb'essere la fine per tutti noi. Se tu fossi stato un Kloro e lui un terrestre, a quest'ora saremmo tutti morti. Perciò, mettiti bene in testa una cosa sola: siamo tutti molto addolorati per tuo fratello ed è atroce che sia finito così, ma la colpa è stata sua.» 
Polyorketes cercò di sollevarsi, ma Stuart lo costrinse a rimanere disteso. 
«No, devi starmi a sentire, ora. Forse questa è l'unica volta che possa parlarti mentre sei costretto ad ascoltare. Tuo fratello ha fatto molto male ad abbandonare l'alloggio dei passeggeri. Non c'era un solo posto, su questa nave, dove rifugiarsi. È andato a cacciarsi tra i nostri uomini e i Kloro. Non sappiamo nemmeno con certezza se sia stato un disintegratore nemico, a ucciderlo. Potrebbe essere stato anche uno dei nostri.»
«Oh, andiamo, Stuart» protestò il colonnello. 
Stuart si voltò di scatto verso Windham. «Ha forse le prove che non sono stati i nostri? Ha visto per caso sparare il colpo? Può stabilire, dai resti di quel poveretto, se si trattava di energia kloro o di energia terrestre?» 
Polyorketes ritrovò la voce, mentre la sua lingua intorpidita farfugliava in tono ringhioso: «Maledetta sporca spia dei verdi!» 
«Io, eh?» disse Stuart. «So benissimo quello che ti passa per la mente Polyorketes. Pensi che, quando la paralisi ti sarà passata, potrai rifarti un po', dandomele di santa ragione. Bene, ti avverto che, se lo farai, sarà probabilmente la fine di tutti noi.» 
Si alzò e andò ad appoggiarsi con le spalle alla parete. Per il momento, li aveva tutti contro. «Nessuno di voi conosce i Kloro come li conosco io. Le differenze fisiche che avete visto, non sono importanti. Lo sono, invece, le differenze di temperamento. Loro non capiscono, per esempio, il nostro punto di vista sui rapporti sessuali. Per loro, si tratta di un riflesso biologico, come respirare. Non danno perciò più importanza alla cosa di quanta ne meriti. Ma danno invece la massima importanza ai gruppi sociali. Non dimenticate che i loro progenitori, sotto il profilo dell'evoluzione biologica, avevano molto in comune con i nostri insetti più evoluti. Presumono sempre, quando trovano un gruppo di terrestri riuniti, che questi formino un'unità sociale. 
«Per loro, questo rappresenta quanto c'è di più importante al mondo. Io non capisco esattamente, e nessun altro terrestre potrebbe capire. Ma il risultato di tale concetto è che i Kloro non dividono mai un gruppo, così come noi non separiamo una madre dai suoi piccoli, se appena appena è possibile. Uno dei motivi per i quali ci trattano con tanta delicatezza è perché sono convinti che siamo sconvolti e disintegrati come gruppo, dato che hanno ucciso uno di noi: e se ne sentono colpevoli. 
«Ma c'è una cosa che dobbiamo sempre tenere presente: saremo internati e tenuti insieme per tutta la durata della nostra prigionia. Non è un'idea che mi sorrida molto. Non avrei scelto nessuno di voi come compagno di prigionia, così come sono convinto che nessuno di voi avrebbe scelto me. Ma non c'è niente da fare. I Kloro non potranno mai capire che il nostro trovarci insieme su questa nave è stato puramente accidentale. 
«Ragion per cui, dovremo rassegnarci ad andare d'accordo, in un modo o nell'altro. E intendiamoci, non ve lo dico per ragioni sentimentali. Sapete che cos'avrebbero fatto, i Kloro, se fossero entrati qui e avessero trovato Polyorketes e me mentre tentavamo di ammazzarci a vicenda? Voi che cosa pensereste, che so...?, di una madre sorpresa nell'atto di uccidere i suoi figli? 
«Be', è lo stesso. Ci avrebbero eliminati, uno a uno, come una manica di pervertiti e di mostri. Avete capito bene? E tu, Polyorketes, hai capito come stanno le cose? Per cui insultiamoci pure, se proprio non possiamo farne a meno, ma teniamo le mani a posto. E ora, se permettete, massaggerò un po' le mie per ridare loro la forma giusta... queste povere mani sintetiche che mi hanno dato i Kloro, e che uno della mia specie ha cercato di maciullarmi un'altra volta.» 
Per Claude Leblanc, il peggio era passato. Si era sentito tanto male, per tante ragioni, ma soprattutto per avere avuto la pessima idea di allontanarsi dalla Terra. Certo, andare a studiare su un altro pianeta gli era sembrata una cosa bellissima: un'avventura, prima di tutto, e poi un modo per affrancarsi dal dominio materno. Il primo mese, be', si era sentito disorientato, ma una volta assuefatto era stato felicissimo di quell'iniziativa. 
Poi, durante le vacanze estive, non si era più sentito Claude, lo studente timido, ma Leblanc, il viaggiatore spaziale. E come l'aveva sbandierata, la sua esperienza di viaggiatore. Si era sentito un vero uomo a poter parlare di stelle, di tragitti interplanetari, di dogane, di ambienti d'altri mondi; gli aveva dato coraggio anche con Margaret. Lei lo aveva amato e preso sul serio proprio per i rischi che aveva corso... 
Salvo che quello era stato il primo, in realtà, e per giunta lui l'aveva affrontato malissimo. Lo sapeva, ne aveva vergogna, e avrebbe dato chissà che cosa per essere come Stuart.
Prese la scusa del pasto per tentare un approccio. «Signor Stuart?» disse.
Stuart gli lanciò un'occhiata e borbottò: «Come va, meglio?» 
Leblanc si sentì arrossire. Arrossiva facilmente e lo sforzo di non darlo a vedere lo faceva diventare addirittura paonazzo. «Sì, molto meglio, grazie» rispose. «Stiamo mangiando. Ho pensato di portarle la sua razione.» 
Stuart prese la scatola che gli veniva offerta. Si trattava delle solite razioni distribuite a bordo: alimenti sintetici, concentrati, nutrienti e, in certo qual modo, i più insipidi dell'universo. Si riscaldavano automaticamente, quando la scatola veniva aperta, ma potevano essere mangiati anche freddi se necessario. Sebbene un utensile che combinava in sé la duplice funzione di cucchiaio e di forchetta fosse incluso nella scatola, la razione era di una consistenza che rendeva l'uso delle dita pratico e, tutto sommato, anche igienico.
«Ha sentito il mio discorsetto?» domandò Stuart.
«Sì, signor Stuart. Volevo appunto dirle che può contare su me.»
«Ah, bene. Vada pure a mangiare, ora.»
«Posso rimanere qui?»
«Prego, si accomodi.» 
Mangiarono per qualche istante in silenzio. A un tratto, Leblanc proruppe: «Lei è così sicuro di sé, signor Stuart! Dev'essere meraviglioso, sentirsi così.» 
«Sicuro di me? Grazie della stima, ma se cerca uno sicuro di sé, eccolo là.» 
Leblanc guardò sorpreso nella direzione che l'altro indicava con un cenno. «Il signor Mullen? Quell'omino? Oh, no!»
«Non le sembra un uomo sicuro di sé?» 
Leblanc scosse la testa. Guardò Stuart attentamente, non sapendo se scherzasse o parlasse sul serio. «Quella è soltanto freddezza,» disse. «Mullen è incapace di reazione. È come una macchinetta. Per conto mio, lo trovo repellente. Lei è diverso, signor Stuart. Lei sì, è capace di reagire, ma sa anche controllarsi. Mi piacerebbe essere come lei.» 
Come attratto dall'essere stato nominato, Mullen, che pure non aveva sentito niente, si avvicinò. La sua razione era quasi intatta. Dalla scatoletta si levava ancora un po' di vapore, mentre l'omino si accoccolava di fronte a loro. 
La voce di Mullen ricordava il fruscio caratteristico che si sente tra il fogliame del sottobosco. «Quanto pensa che durerà il viaggio, signor Stuart?» 
«Non saprei, Mullen. Ma non c'è dubbio che i Kloro eviteranno le solite rotte commerciali e faranno più balzi nell'iperspazio di quanto sia necessario, per evitare eventuali inseguimenti. Non mi sorprenderebbe che il viaggio durasse ancora una settimana. Perché vuole saperlo? Immagino che avrà un motivo logico e pratico, vero?» 
«Oh, sì, certo.» L'ometto sembrava ignorare ogni forma di sarcasmo. «Avevo pensato che potrebb'essere prudente razionare i viveri, per così dire.» 
«Abbiamo cibo e acqua sufficienti per un mese. È la prima cosa di cui ho voluto assicurarmi.» 
«Vedo. In questo caso, posso dare fondo alla mia scatola.» E così fece, usando con molto garbo la posata multipla e pulendosi ogni tanto le labbra con il fazzoletto, elegantemente, sebbene non ve ne fosse bisogno.

Un paio d'ore dopo, Polyorketes riuscì ad alzarsi in piedi, barcollando. Sembrava uno che si riprenda, dopo una ubriacatura solenne. Non cercò di avvicinarsi a Stuart, ma parlò da dove si trovava.
«Attento a quello che fai, sporca spia dei verdi.»
«Non hai sentito quello che ti ho detto prima, Polyorketes?» 
«Ho sentito, sì. Ma ho sentito anche quello che hai detto di Aristides. Non voglio occuparmi di te, perché non sei che una vescica piena d'aria, che farà rumore. Ma aspetta un po', e vedrai che un giorno o l'altro la tua aria farà troppo rumore, e troverai chi ti fa scoppiare come un pallone.»
«Vedremo» disse Stuart. 
Windham si fece avanti, zoppicando appoggiato al suo bastone. «Su, su» esortò, con una sorta di forzata allegria che metteva in risalto, invece di nasconderla, l'ansia da cui era pervaso. «Siamo tutti figli della Terra, perdiana! Ricordiamocelo! Questo pensiero dev'essere la luce ispiratrice di ogni nostro gesto. Mai scendere in basso davanti ai maledetti Kloro! Dobbiamo dimenticare le nostre rivalità personali e ricordarci soltanto che siamo dei terrestri, uniti come un sol uomo contro il nemico comune.»
Stuart se ne usci in un commento irriferibile. 
Porter si teneva alle spalle del colonnello: i due erano rimasti in disparte a confabulare per più di un'ora, e ora la voce di Porter vibrava d'indignazione: «Non giova a nessuno prendere quel tono, Stuart. Cerchi piuttosto di dare ascolto al colonnello. Windham e io abbiamo studiato a lungo la situazione.»
«Benissimo, colonnello» disse Stuart. «Che cos'ha intenzione di fare?»
«Preferirei che ci riunissimo tutti» disse Windham.
«Benissimo, chiami anche gli altri.»
Leblanc accorse subito; Mullen si avvicinò con la solita calma. 
«Vuole anche quello là?» domandò Stuart, accennando col mento a Polyorketes.
«Sì, certo. Signor Polyorketes, possiamo averla con noi, caro amico?»
«Oh, lasciatemi in pace.» 
«Su, sentiamo» disse Stuart al colonnello. «Lo lasci perdere. Non ce lo voglio, qui.» 
«No e no» protestò Windham. «Questa è una cosa che riguarda tutti i terrestri. Signor Polyorketes, è necessario che ascolti anche lei.» 
Polyorketes, disteso sulla brandina, si girò su un fianco. «Sono abbastanza vicino. Sento benissimo anche da qui.» 
Windham guardò Stuart. «Pensa che quelli... i Kloro, voglio dire, abbiano installato un microfono?»
«No» rispose Stuart. «E a che scopo, poi?»
«Ne è sicuro?» 
«Sicurissimo. Non sapevano che cosa fosse successo, quando Polyorketes mi è saltato alla gola. Hanno sentito soltanto il rumore della colluttazione, ma nient'altro.» 
«Forse hanno voluto darci l'impressione che la cabina non era sotto controllo.»
«Senta, colonnello, non ho mai visto un Kloro mentire volutamente...» 
Polyorketes lo interruppe, calmo calmo. «Quel pallone pieno d'aria è addirittura innamorato dei Kloro.» 
Windham s'intromise immediatamente. «Ora non ricominciamo. Senta, Stuart, Porter e io abbiamo analizzato la situazione e siamo convinti che lei conosca i Kloro quanto basta per trovare un modo di tornarcene sulla Terra.» 
«Purtroppo si sbaglia. Non conosco nessun modo per tornare sulla Terra.» 
«Pure dovrebb'esserci un modo che ci permetta di riprendere la nave a questi maledetti verdi» tornò a insistere Windham. «Qualche debolezza insita nella loro natura. Insomma, Stuart, sa benissimo quello che voglio dire.» 
«Mi dica, colonnello, che cosa le preme di più? La sua pelle o gli interessi del nostro pianeta?» 
«Considero offensiva questa domanda. Desidero lei sappia che, mentre mi preoccupo della mia incolumità personale, come è diritto di tutti, è alla Terra che penso, in primo luogo. E penso che questo valga per ognuno di noi.» 
«Perfetto» disse subito Porter. Leblanc era preoccupato, Polyorketes risentito, e Mullen si manteneva inespressivo come sempre. 
«Bene» disse Stuart. «Naturalmente, non credo che noi possiamo riprendere possesso della nave. I Kloro sono armati e noi no. E poi c'è un'altra cosa. Sapete tutti perché i Kloro hanno catturato questa nave senza colpirla, vero? Perché hanno bisogno di navi. Come chimici saranno anche migliori dei terrestri, ma i terrestri sono migliori ingegneri navali. Noi abbiamo navi più grandi, migliori e più numerose. Anzi, se l'equipaggio di questa nave avesse tenuto nel rispetto dovuto le norme della strategia militare, avrebbe fatto saltare in aria la nave non appena si fosse profilato il pericolo che i Kloro potessero abbordarla.»
Leblanc sembrava inorridito. «Uccidendo così tutti i passeggeri?» 
«E perché no? Ha sentito quello che il nostro colonnello ha detto un minuto fa? Ognuno di noi deve anteporre gli interessi del pianeta alla sua piccola esistenza miserabile. Di che utilità siamo sulla Terra, ora? Nessuna. Mentre questa nave, in mano ai Kloro, sarà probabilmente causa di danni enormi per i nostri fratelli.» 
«Ma allora perché» domandò Mullen, «i nostri uomini non hanno fatto saltare in aria la nave? Ci sarà stata bene una ragione.» 
«Certo. Secondo le tradizioni militari della Terra, non deve mai esserci uno squilibrio sfavorevole nelle perdite. Se la nostra nave fosse saltata in aria, venti militari e sette civili sarebbero morti, mentre le perdite del nostro nemico sarebbero assommate a zero. Per cui, che cosa si è fatto? Si è lasciato che salissero a bordo, ne abbiamo uccisi ventotto - non uno di meno, sarei pronto a giurarlo - e abbiamo lasciato che s'impadronissero della nave.»
«Parole, parole, parole» sbuffò Polyorketes. 
«C'è una morale, a tutto questo» disse Stuart. «Non possiamo riprendere la nave ai Kloro. Ma potremmo riuscire ad attaccarli, e a tenerli impegnati abbastanza a lungo da permettere a uno di noi di provocare un corto circuito nei motori.»
«Che cosa?» urlò Porter, e Windham lo zittì, spaventato. 
«Provocare un corto circuito nei motori» ripeté Stuart. «Si distruggerebbe la nave, naturalmente, ma è quello che noi vogliamo, no?»
Leblanc aveva le labbra livide. «Non credo che il piano possa riuscire.» 
«Come possiamo dirlo, se prima non tentiamo? E che cos'avremo da perdere, in fondo, se tentassimo?» 
«La vita, la nostra pelle, accidenti!» urlò Porter. «Fanatico maledetto, pazzo da manicomio che non è altro!» 
«Se sono pazzo e fanatico» osservò Stuart, «va da sé che sono da manicomio. Vorrei farvi notare, però, che se dovessimo rimetterci la pelle, cosa molto probabile, non toglieremmo niente di prezioso alla Terra; mentre, se distruggiamo la nave, come potremmo fare con qualche probabilità di riuscita, faremmo molto bene al nostro pianeta. Quale patriota esiterebbe? Chi di noi preferirebbe anteporre sé stesso al suo mondo?» Si guardò intorno, in un silenzio di piombo. «Non certo lei, colonnello Windham.» 
Windham venne colto da un accesso di tosse. «Mio caro giovanotto, non è questo il punto. Il punto è: c'è un modo di salvare la nave per il nostro pianeta, senza per questo rimetterci la pelle?»
«D'accordo. Lo dica lei, se c'è.» 
«Pensiamoci tutti. Al momento, a bordo della nave ci sono soltanto due Kloro. Se uno di noi potesse portarsi furtivamente alle loro spalle e attaccarli...» 
«E come? Il resto della nave è immerso in un'atmosfera di cloro. Dovremmo indossare le tute spaziali. E la gravità, nella parte della nave occupata da loro, è stata portata ai valori cui sono abituati, per cui quello di noi che dovesse avere a che fare con loro dovrebbe trascinarsi lentamente, pesantissimo, strisciando sul pavimento. Una cosa da niente, per chi dovesse attaccarli di sorpresa, giocando di astuzia e di... agilità.» 
«E allora bisognerà abbandonare l'idea.» A Porter tremava la voce. «Stia a sentire, Windham, non si parli neppure di distruggere la nave. Io alla vita ci tengo, e molto! Se c'è qualcuno di voi deciso a tentare colpi di testa, chiamerò i Kloro: siete avvertiti tutti!»
«Bene» disse Stuart, «ecco qui l'eroe numero uno.»
«Io voglio tornarmene sulla Terra» disse Leblanc, «ma non vedo...» 
«Non credo» lo interruppe Mullen, «che ci siano molte probabilità di riuscire a distruggere la nave, a meno che...» 
«Ed ecco gli eroi numero due e tre» disse Stuart. «E tu, Polyorketes? Avresti una buona ccasione per ammazzare due Kloro.»
«Io voglio ammazzarli con le mie stesse mani» ruggì il contadino, agitando freneticamente i pugni. «Sul loro pianeta li farò fuori a dozzine.» 
«Ecco un bel progettino, che per ora non costa niente. E lei, colonnello? Non vuole marciare con me verso la morte e la gloria?» 
«Parla con un cinismo e un'arroganza riprovevoli, Stuart. Il fatto è che, se gli altri non sono disposti ad agire, il suo piano rimarrà lettera morta.»
«A meno che non cerchi di metterlo in esecuzione io, eh?»
«Lei non muoverà un dito, intesi?» scattò immediatamente Porter. 
«Certo che non lo muoverò» lo tranquillizzò Stuart. «Non ho mai preteso di passare per un eroe, io. Sono un patriota di mezza tacca, più che disposto a far rotta per il primo pianeta dove mi si voglia portare, ad aspettare in pace che la guerra sia finita.»

Fu Mullen a rompere il silenzio. «Volendo» disse, pensosamente, «il modo di cogliere di sorpresa i Kloro ci sarebbe.» Stuart, alzando gli occhi sull'ometto, vide che Mullen si rivolgeva proprio a lui. «Potremmo attaccare i Kloro dall'esterno. Anche questa cabina, ne sono sicuro, deve avere il Condotto "C".»
«Cosa sarebbe il Condotto "C"?» domandò Leblanc. 
«Be', si tratta» cominciò a dire Mullen, e non ebbe il coraggio di continuare. 
Stuart disse, sogghignando: «È il solito eufemismo, ragazzo mio. La denominazione completa è: Condotto per Cadaveri. È un argomento sul quale si tace, in genere, ma tutte le astronavi ne hanno uno, nella cabina principale. Sono piccole camere di decompressione automatiche, nelle quali si lascia scivolare il cadavere, quando c'è un morto a bordo. Sepoltura nello spazio. Atmosfera solenne, di circostanza, e il capitano che fa un bel discorso, di quelli che a Polyorketes non piacciono.» 
Leblanc fece una smorfia. «Dovremmo servirci di quello, per lasciare la nave?»
«Perché no? Superstizioso?... Continui, Mullen.» 
L'ometto stava aspettando, pazientemente, di riprendere la parola. «Una volta all'esterno, si potrebbe rientrare nell'astronave attraverso i tubi di scarico del vapore. È una cosa che si può fare... con un po' di fortuna. E se si riesce, si arriva inaspettati nella cabina di comando.» 
Stuart lo fissava, incuriosito. «Scusi ma... come ci ha pensato? Che cosa ne sa, lei, di tubi di scarico del vapore?» 
Mullen si schiarì la gola. «Perché sono impiegato in una fabbrica di scatole, dice? Vede...» Arrossì, prese tempo, poi ricominciò a parlare con voce distaccata e incolore. «La mia ditta, che fabbrica scatole per dolci e contenitori fantasia, aveva ideato, tempo fa, una scatola di dolciumi a forma di nave spaziale destinata ai consumatori più giovani. Mediante un sistema di sfiatatoi ad aria compressa, appena si scioglieva la cordicella che la legava, la scatola saltava per aria e si metteva a svolazzare per la stanza, sparpagliando dolci qua e là. In teoria, i ragazzi, oltre a divertirsi a giocare con la nave, avrebbero fatto a gara a raccattare i dolciumi. 
«In pratica, fu un fallimento completo. La scatola-astronave rompeva piatti e finiva di solito negli occhi di qualcuno. E i ragazzi, invece di divertirsi a raccattare caramelle e cioccolatini, si prendevano a pugni, aumentando il disastro. Fu la peggiore idea commerciale che si potesse avere, e costò alla mia ditta molti milioni. 
«Tuttavia, la fase sperimentale, diremo così, aveva creato negli uffici commerciali della ditta un grande entusiasmo per la tecnica astronautica. Per un po', diventammo tutti specialisti della propulsione spaziale mediante getti di vapore. Ricordo d'aver letto io stesso molti trattati sull'argomento. Ma a casa, intendiamoci, non nelle ore d'ufficio.» 
Stuart sembrava affascinato. «Sa» disse, «sembra una cosa presa a prestito da un romanzo di fantascienza, ma è un'idea che potrebbe funzionare, se soltanto avessimo a disposizione il solito eroe superuomo. Ma... l'abbiamo?» 
«Perché non si fa avanti lei?» scattò subito Porter, risentito. «Non fa che prenderci in giro, con le sue frecciate maligne. Però di offrirsi volontario si guarda bene, ho notato.» 
«Proprio perché non sono un eroe, Porter. Lo ammetto. Il mio scopo è di restare vivo e vegeto, e strisciare giù per gli sfiatatoi a vapore non è il sistema migliore per vivere a lungo. Ma voialtri siete tutti patrioti ardenti. Il colonnello dice di esserlo. Vero, colonnello? Lei è l'eroe capo, qui.» 
«Se fossi più giovane, per la miseria» disse Windham, «e se lei avesse le mani, Stuart, sarebbe per me un raffinato piacere torcerle il collo e farle ingoiare il suo sarcasmo.»
«Non ne dubito, ma questa non è una risposta.» 
«Sa benissimo che, alla mia età e con una gamba in queste condizioni...» batté la mano aperta sul ginocchio rigido, «... non sono in grado di fare niente di tutto questo, anche se lo vorrei.» 
«Eh, sì» disse Stuart, «e anch'io, con le mie povere mani, sono soltanto uno storpio, come mi ha fatto notare Polyorketes. Noi due, perciò, siamo da escludere. E il resto dei presenti, da quali malaugurate infermità è afflitto?» 
«Sentite un po'» interruppe Porter, «intendo capirci qualcosa di tutta questa faccenda. Come si fa a infilarsi dentro quei tubi di scappamento? E se poi i Kloro li usano proprio mentre c'è dentro uno di noi?» 
«Eh, caro Porter, quello è il coefficiente di rischio, per così dire. Sta tutto lì, il bello dell'avventura.» 
«Ma si va a rischio di venire lessati con tutto il guscio, come un'aragosta.» 
«L'immagine è pittoresca, ma non è esatta. Innanzitutto, il vapore avvolgerebbe il malcapitato per un secondo o due, al massimo, e il tessuto isolante della tuta lo difenderebbe a dovere, per un così breve spazio di tempo. Ma il vapore, vede, viene lanciato negli sfiatatoi a una velocità di molte centinaia di miglia al minuto, per cui lei, mettiamo, verrebbe scagliato fuori dalla nave prim'ancora di sentirne il calore. Anzi, verrebbe scaraventato molti chilometri lontano, nello spazio, dopo di che non avrebbe più niente da temere, da parte dei Kloro; in compenso, non potrebbe nemmeno ritornare sull'astronave.»
Porter sudava freddo. «Non s'illuda di spaventarmi, Stuart.»
«No? Allora ha deciso di offrirsi come volontario? È sicuro d'avere capito bene che cosa significa trovarsi alla deriva nello spazio interstellare? Significa essere soli, capisce; assolutamente soli. Il getto di vapore le avrà probabilmente impresso un movimento rotatorio, a capriola; ma lei non se ne accorgerà: le sembrerà di essere completamente immobile. Ma le stelle intorno a lei gireranno, gireranno, tanto che per lei non saranno che strisce di luce. E non si fermeranno mai. Non rallenteranno nemmeno. Poi, il suo radiatore cesserà di emanare calore, la riserva di ossigeno si esaurirà e lei morirà, con estrema lentezza. Avrà tutto il tempo di pensare. Oppure, se deciderà di farla finita alla svelta, potrà aprire la tuta. Neppure questo sarà piacevole, intendiamoci. Ho visto facce di individui ai quali, per disgrazia, si era lacerata la tuta mentre si trovavano nello spazio, e le assicuro che non erano belle da vedere. Ma, se non altro, sarebbe una fine più rapida, e...»
Porter gli voltò le spalle e si allontanò con passo malfermo. 
Allegramente, Stuart commentò: «Un'altra defezione. L'atto di eroismo è qui che aspetta d'essere aggiudicato al miglior offerente, ma a quanto pare nessuno si lascia tentare.» 
Polyorketes volle dire la sua, e la voce rozza rendeva le parole ancora più volgari. «Continua pure a blaterare, Signor Linguacciuto. Continua pure, a battere sul tamburo. Quando meno te l'aspetti, troverai chi ti farà ingoiare i denti. Conosco un tale che muore dalla voglia di farlo, eh, signor Porter?» 
L'occhiata che Porter lanciò a Stuart confermò la verità delle osservazioni di Polyorketes, ma non venne accompagnata da alcun commento. 
«Oh, a proposito, Polyorketes» disse Stuart. «Mi stavo dimenticando di te! Tu sei quello che ammazza a mani nude, appena si presenta l'occasione. Vuoi che ti aiuti a entrare dentro una tuta spaziale?»
«Quando vorrò il tuo aiuto, te lo farò sapere.»
«E lei, Leblanc?»
Il giovane si ritrasse, inorridito.
«Nemmeno per tornare da Margaret?»
Ma Leblanc poté soltanto scuotere la testa.
«Mullen?»
«Be'... tenterò io.»
«Cosa farà?»
«Ho detto di sì, che farò il tentativo. L'idea è mia, alla fin fine.» 
Stuart sembrava sinceramente sbalordito. «Dice sul serio? E come mai si è offerto?» 
Mullen sporse le labbra in una smorfia. «Visto che nessun altro se la sente...»
«Ma non è una ragione. Specie per lei.»
Mullen si strinse nelle spalle. 
Stuart udì dietro di sé il battere di una mazza sul pavimento. Poi, si sentì spingere in là da Windham.
«Davvero è deciso ad andare, Mullen?» domandò il colonnello.
«Sì, certo.» 
«In questo caso, per Giove, mi permetta di stringerle la mano. Lei mi piace. È un vero... un vero terrestre! La fortuna l'accompagni e, che lei vinca o che muoia, ci sarò io a testimoniare del suo valore!» 
Mullen ritirò la mano, un po' impacciato, dalla stretta sentita e vibrante dell'altro. 
E Stuart rimase là, a guardare. Si trovava in una situazione veramente insolita, per lui: così insolita, anzi, come mai gli era capitato in vita sua. Non aveva niente da dire.

La tensione era di tutt’altra natura, ora. Lo sconforto e l’abbattimento erano passati, e al loro posto era subentrataun'ansia febbrile, da cospiratori. Perfino Polyorketes esaminava le tute spaziali, facendo brevi e rauchi commenti su quella che gli sembrava la più adatta. 
Mullen era alle prese con le prime difficoltà. La tuta gli pendeva addosso come un sacco, e sì che era stata stretta al massimo in tutti i punti dov'era possibile regolarla. Ora stava là, ad aspettare che gli avvitassero il casco. Tirava il collo, ogni tanto, come se si sentisse soffocare. 
Stuart reggeva il casco con un certo sforzo. Era pesante, e le sue mani di plastica facevano fatica a reggerlo. «Si gratti pure il naso, se le prude. Dopo non potrà più farlo, per un po' di tempo.» Non aggiunse: "Forse in eterno" ma lo pensò. 
Mullen osservò, con voce incolore: «Forse sarà meglio che prenda con me un serbatoio d'ossigeno di scorta.»
«Ottima idea.»
«Con una valvola di riduzione.» 
Stuart assentiva. «Sì, capisco a che cosa sta pensando. Se mai venisse scagliato lontano dalla nave, potrebbe tentare di riavvicinarsi, usando il serbatoio come motore a reazione.» 
Gli avvitarono il casco e gli agganciarono alla vita il serbatoio supplementare di ossigeno. Polyorketes e Leblanc lo sollevarono fino all'apertura sbadigliante del Condotto "C". L'interno era paurosamente buio, dato che le pareti metalliche del condotto erano state verniciate di nero. Stuart aveva l'impressione che l'interno emanasse un odore di putrido, ma sapeva benissimo che era soltanto frutto della sua fantasia. 
Fermò l'operazione di calo, quando Mullen era già per metà dentro il tubo, per battere sulla visiera trasparente del casco.
«Mi sente?»
Dall'interno, arrivò un cenno d'assenso.
«L'aria filtra normalmente? Nessun inconveniente dell'ultimo minuto?» 
Mullen sollevò il braccio rivestito di plastica in un gesto che voleva essere rassicurante. 
«Allora mi raccomando, una volta fuori non usi la radio della tuta. I Kloro potrebbero captare i segnali.» 
A malincuore, Stuart si trasse indietro. Poi, le mani abbronzate di Polyorketes ripresero a calare Mullen, finché si sentirono le suole metalliche risonare contro la porta esterna del compartimento stagno. Poi, quella interna prese a chiudersi con un movimento implacabile, definitivo, finché, con una sorta di sibilo sordo, il portello di silicone rientrò tra le sue scanalature. I morsetti vennero rimandati a posto. 
Stuart stava davanti al quadro di controllo della valvola esterna. Azionò una leva e il manometro che indicava la pressione dell'aria all'interno del tubo, scese a zero. Un puntino di luce rossa si accese all'improvviso, avvertendo che la valvola esterna era aperta. Poi la luce si spense, la valvola si richiuse e la lancetta del manometro risalì lentamente verso le quindici libbre. 
Riaprirono il portello dalla parte interna e videro che il condotto era vuoto. 
Il primo a parlare fu Polyorketes. «Quel piccolo tanghero, chi se lo sarebbe immaginato! È andato davvero!» Guardava gli altri, quasi incredulo. «Un ometto da niente, pensate che fegato!» 
«Sentite, sarà bene che ci teniamo pronti, qui dentro. Non è escluso che i Kloro si siano accorti dell'apertura e della chiusura dei due portelli. In tal caso verranno subito qui, a indagare, e noi dovremo cercare di tenere nascosta la cosa.»
«In che modo?» domandò Windham. 
«Noteranno l'assenza di Mullen. Diremo che è andato al gabinetto. I Kloro sanno che è una delle caratteristiche dei terrestri quella di esigere la massima discrezione quando si tratta di necessità del genere, e non si prenderanno la briga di controllare. Se riusciamo a trattenerli fino a...» 
«Già, ma... e se decidessero di aspettare, o se si mettessero a contare le tute?» obiettò Porter. 
Stuart allargò le braccia. «Speriamo di no. E mi raccomando, Polyorketes, cerca di non commettere imprudenze, nel caso i Kloro venissero qui.» 
«Con quell'ometto là fuori?» borbottò Polyorketes. «Ma per chi mi hai preso?» Fissò Stuart senza alcuna animosità, poi si grattò vigorosamente la testa ricciuta. «Sai, me la ridevo di lui. Lo credevo proprio una donnetta. Ora me ne vergogno.» 
Stuart si schiarì la voce. «Senti, ho detto cose che non erano poi tanto spiritose, ora che ci penso. Ecco, vorrei dirti che me ne dispiace, sinceramente.» 
Si girò, con fare irsuto, e si allontanò verso la sua cuccetta. Udì dei passi dietro di sé, si sentì toccare la manica. Si voltò: era Leblanc. 
Il ragazzo disse a bassa voce: «Continuo a pensare che Mullen è un uomo d'età, in fondo.» 
«Per lo meno, non è più un bambino. Avrà i suoi quarantacinque o cinquant'anni.» 
«Signor Stuart» disse Leblanc, «pensa che avrei dovuto andare io, al posto suo? Sono il più giovane, qui. Non mi va l'idea d'aver lasciato andare un vecchio al posto mio. Mi fa sentire un verme.»
«Lo so. Se dovesse morire, non potremo mai perdonarcelo.»
«Ma si è offerto lui di andare. Non siamo stati noi a costringerlo, vero?» 
«Non cercare di scaricarti delle responsabilità, Leblanc. Non ti darà il minimo sollievo. Non c'è nessuno, qui tra noi, che non avesse motivi più seri dei suoi per andare.» E Stuart, seduto là sul suo letto, si chiuse nel silenzio, a meditare.

Mullen sentì il portello sotto di lui aprirsi e le pareti tutt'intorno scivolar via rapidamente, troppo rapidamente. Capì che era l'aria a trascinarlo con sé, nello sfuggire dal condotto, e puntò disperatamente braccia e gambe contro le pareti, per frenarsi. Il condotto era studiato in modo che i cadaveri venissero scagliati il più lontano possibile dalla nave, ma lui non era un cadavere... almeno per il momento. 
I suoi piedi incontrarono il vuoto e si misero a scalciare. Udì il rumore sordo di uno scarpone magnetico contro lo scafo, mentre il resto del suo corpo schizzava fuori, come un tappo da una bottiglia di spumante. Barcollò paurosamente sull'orlo del compartimento - si era improvvisamente capovolto, e ora si trovava a fissare quella buca ai suoi piedi - poi fece un passo indietro perché già il portello stava per richiudersi automaticamente, fino a combaciare in modo perfetto con la superficie esterna della nave.
Era sopraffatto da un senso di irrealtà. Non era possibile, non era lui a starsene ritto sopra la superficie esterna di un'astronave. No che non era lui, Randolph F. Mullen. Erano pochissimi gli esseri umani che potevano dire d'essersi trovati in una situazione del genere, perfino tra quelli che attraversavano continuamente gli spazi cosmici. 
A poco a poco, si rendeva conto d'essere tutto indolenzito. A schizzar fuori così da quel buco mentre, con un piede, era praticamente incollato allo scafo, per poco non si era spezzato in due. Tentò di muoversi, con precauzione, e scoprì che i suoi movimenti erano dissociati e quasi impossibili da controllare. Non c'era niente di rotto, o almeno non sembrava, ma i muscoli del lato sinistro avevano subìto un brutto stiramento. 
Infine ritrovò la padronanza di sé e notò che le luci dei polsi della tuta erano accese. Appunto grazie a quelle luci aveva potuto guardare dentro le tenebre del Condotto "C". Trasalì, innervosito, al pensiero che i Kloro potessero scorgere quelle due luci gemelle che si muovevano proprio rasente all'astronave. Poi, si affrettò a far scattare l'interruttore che si trovava nella parte centrale della tuta. 
Mullen non avrebbe mai immaginato che, standosene ritto all'esterno di un'astronave, non sarebbe riuscito a vederne lo scafo. Ma il buio era totale, in basso come in alto. C'erano le stelle, piccoli punti brillanti, senza dimensione. E nient'altro. Niente altro da nessuna parte. Sotto di lui, nemmeno le stelle... nemmeno i suoi stessi piedi! 
Gettò il capo all'indietro per vedere le stelle. La testa gli girava. Si movevano lentamente. O meglio, le stelle stavano ferme ed era la nave che ruotava, ma per i suoi occhi era esattamente l'inverso. Erano le stelle a spostarsi. Provò a seguirle con lo sguardo... scendevano fino a sparire dietro la nave. Nuove stelle sorgevano e salivano dal lato opposto. Un orizzonte nero. La nave esisteva soltanto come una zona in cui non vi erano stelle. 
Eppure una c'era, sì, quasi ai suoi piedi. Fece quasi il gesto di chinarsi a toccarla; poi, si rese conto che si trattava di un semplice riflesso scintillante nel metallo lucido come uno specchio. 
Si movevano a migliaia di chilometri all'ora. Le stelle. L'astronave. Lui. Ma tutto questo non aveva alcun significato. Per i suoi sensi, c'era soltanto oscurità, silenzio, e quel lento ruotare delle stelle. I suoi occhi seguivano incantati quel lento ruotare... 
E la sua testa, chiusa nel casco, urtò contro lo scafo con un rintocco smorzato, simile a quello di una campana. 
Tastò attorno a sé, in preda al panico, con i grossi guanti insensibili. I suoi piedi erano ancorati fermamente allo scafo dalle piastre magnetiche, ma il resto del corpo, dalle ginocchia in su, era piegato all'indietro ad angolo retto. Non c'era la gravità, all'esterno della nave. Se uno si piegava all'indietro, non c'era niente ad attirare verso il basso la parte superiore del busto e ad avvertire le giunture che si stavano piegando. Il corpo stava così, come uno lo metteva. 
Mullen si diede disperatamente la spinta, puntellandosi contro lo scafo, e subito il busto schizzò verso l'alto e, una volta ritto, rifiutò di fermarsi. Mullen si sentì cadere in avanti. 
Ritentò, stavolta più lentamente, puntando le mani contro lo scafo per ritrovare l'equilibrio e riuscendo, alla fine, a mettersi acquattato. Cominciò allora a tirarsi su. Piano piano, con le braccia stese in fuori per bilanciarsi. 
Ecco, era ritto, ma in preda a un senso di nausea e di capogiro. Si guardò attorno. Santo Dio, dov'erano gli sfiatatoi del vapore? Non riusciva a vederli. Erano nero su nero, il niente sul niente. 
Si affrettò ad accendere le luci dei polsi. Nello spazio, non c'erano raggi luminosi, le luci erano soltanto chiazze ellittiche e ben definite di un chiarore azzurro acciaio, che ammiccavano verso di lui. Là dove investivano una saldatura, si vedeva soltanto un'ombra breve, tagliente e nera come lo spazio, e la zona era illuminata da una luce cruda, senza diffusione. 
Mullen mosse le braccia e il suo corpo oscillò dolcemente nella direzione opposta: azione e reazione. La visione di un tubo di sfiatamento, dalle pareti lisce e cilindriche, gli balzò incontro. 
Tentò di muoversi a quella volta. Il suo piede aderiva saldamente allo scafo. Mullen tirò, e il piede cominciò a cedere, lottando contro una viscosità tenace, da sabbie mobili. Su, su, per un palmo, ed ecco, il piede si era quasi liberato di quel risucchio; un altro palmo, e Mullen provò la sensazione che il piede gli volasse via. 
Lo spinse in avanti e lo lasciò ricadere, lo sentì sprofondare di nuovo nelle sabbie mobili. Poi, arrivata a cinque centimetri dallo scafo, la suola, sfuggendo al controllo, venne attirata all'ingiù e si stampò sulla piastra metallica. La tuta spaziale trasmise a Mullen le vibrazioni prodotte dall'urto, amplificandole. 
Lui si arrestò, paralizzato dal terrore. I disidratatori che eliminavano l'eccesso di umidità all'interno della tuta non riuscirono ad assorbire l'improvviso fiotto di sudore che gli inzuppava la fronte e le ascelle. 
Aspettò, poi tentò nuovamente di sollevare il piede: di due soli centimetri, tenendolo sospeso con tutte le sue forze e spostandolo in senso orizzontale. Il moto in senso orizzontale non comportava alcuno sforzo; era perpendicolare alle linee di forza magnetica. Ma bisognava tenere il piede in tensione, per impedirgli di farsi tirar giù di colpo, e poi calarlo con molta lentezza. 
Ansimava per la fatica. Ogni passo era una tortura. I tendini delle ginocchia gli scricchiolavano e aveva l'impressione d'avere dei coltelli piantati nei fianchi. 
Si fermò, per dar tempo al sudore di asciugarsi. Non era prudente lasciare che la visiera del casco si appannasse. Riaccese le luci dei polsi e vide che lo sfiatatoio era a un passo da lui. 
La nave ne aveva quattro, a intervalli di novanta gradi: sporgevano dalla fascia mediana, formando un angolo. Erano i "normalizzatori di rotta" dell'astronave. La forza di propulsione vera e propria era rappresentata dai potenti getti di prua e di poppa, che stabilivano la velocità desiderata mediante la loro forza di accelerazione e di decelerazione, nonché dal motore iperatomico, che entrava in funzione quando l'astronave doveva compiere un balzo nello spazio. 
Ma la rotta, di tanto in tanto, doveva essere corretta lievemente, e allora entravano in azione i getti a vapore. Ogni getto poteva, isolatamente, innalzare o abbassare l'astronave, spostarla a destra o a sinistra. A coppie, dosando proporzionalmente la spinta, potevano far compiere alla nave qualsiasi manovra. 
Da secoli, il sistema non aveva subito modifiche, essendo troppo semplice per essere perfezionato. La pila atomica riscaldava l'acqua contenuta in un apposito serbatoio, trasformandola in vapore e portando poi il vapore, in meno d'un secondo, a temperature che ne provocavano la scissione in idrogeno e ossigeno e, infine, lo trasformavano in un miscuglio di elettroni e di ioni. Nessuno si era mai preso la briga di controllare se la scissione avvenisse davvero; il sistema funzionava e, in fondo, l'essenziale era questo. 
Al punto critico, una valvola di sicurezza cedeva e il vapore si lanciava fuori a velocità folle, con uno sbuffo breve ma di una potenza incredibile. E l'astronave, sotto la spinta inesorabile, cambiava maestosamente direzione, girando attorno al proprio centro di gravità. Quando il numero di gradi necessari era stato raggiunto, veniva lanciato un getto uguale e opposto, e il movimento di rotazione si arrestava. L'astronave continuava il suo viaggio alla velocità originaria, ma in una nuova direzione. 
Mullen era riuscito ormai a trascinarsi sull'orlo dello sfiatatoio. Si vide, macchiolina scura, oscillare paurosamente all'estremità di una struttura sporgente da uno scafo ovoidale lanciato nello spazio a quindicimila chilometri al secondo. 
Ma non c'era nessuna corrente che tendesse a strapparlo via dallo scafo, e le suole magnetiche lo tenevano ancorato alla nave ancor più saldamente di quanto desiderasse. 
Con le luci accese, si chinò a scrutare dentro il tubo e, avendo mutato il suo orientamento visivo, provò l'impressione che la nave gli sfuggisse di sotto. Tese un braccio, per aggrapparsi istintivamente a qualcosa, ma non stava cadendo. Non c'era alto e basso, nello spazio; c'erano soltanto le impressioni errate della sua mente confusa. 
Il cilindro era largo a sufficienza per contenere un uomo, e questo per consentire i lavori di manutenzione. Le luci misero in mostra le intaccature proprio di fronte al punto in cui egli si trovava, presso l'orlo della cavità. Con quel po' di fiato che gli restava, Mullen trasse un sospiro di sollievo. Molte astronavi non avevano scalette, all'interno degli sfiatatoi. 
Vi si diresse lentamente, mentre la nave sembrava scivolare e torcersi sotto di lui, ad ogni suo movimento. Sollevò un braccio oltre l'orlo dello sfiatatoio, cercando il primo scalino a tentoni; sollevò prima un piede, poi l'altro, e si issò nell'interno. 
Il nodo allo stomaco che l'aveva tormentato fin dal principio divenne ora uno spasimo quasi insostenibile. E se avessero deciso proprio ora di modificare la rotta, e il vapore fosse esploso all'improvviso, sibilando...? 
Lui non avrebbe fatto in tempo né a vederlo né ad accorgersene. Un istante prima sarebbe stato appeso a un gradino, brancolando lentamente con un braccio per trovare il piolo superiore; l'istante dopo si sarebbe ritrovato solo nello spazio, la nave una nera, indistinguibile nullità perduta per sempre tra le stelle. Vi sarebbe stata, forse, una girandola effimera di cristalli di ghiaccio roteanti, lanciati nello spazio insieme a lui e scintillanti nella luce che aveva ai polsi; cristalli che, lentamente, gli si sarebbero avvicinati con progressivo modo rotatorio, attratti dalla sua massa come microscopici pianeti attorno a un sole assurdamente piccolo e freddo. 
Ecco che ricominciava a sudare, e per di più la sete cominciava a torturarlo. Decise risolutamente di non pensarci. Non c'era speranza di bere se non quando fosse uscito dalla tuta... ammesso che ne fosse uscito. 
Un piolo; poi un altro; un altro ancora. Quanti erano? La mano gli scivolò ed egli si accorse di fissare, incredulo, lo scintillio che tremolava sotto la sua luce.
Ghiaccio? 
Perché no? Il vapore, per bollente che potesse essere, nell'uscire veniva a contatto con il metallo la cui temperatura era prossima allo zero assoluto. Nella frazione di secondo in cui durava il getto, il metallo non aveva il tempo di riscaldarsi oltre il punto di congelamento dell'acqua. Si formava perciò uno strato di ghiaccio, che poi si dissolveva lentamente nel vuoto assoluto. Era la velocità con cui si produceva il getto di vapore a impedire che i tubi e la stessa caldaia si fondessero per il calore. 
La sua mano brancolante trovò finalmente l'ultimo scalino. Mullen tornò ad accendere le luci delle maniche e fissò, con orrore crescente, il tubo di sbocco dello sfiatatoio vero e proprio, dal diametro di un centimetro o poco più. Visto così sembrava freddo, inerte; ma era l'aspetto che aveva sempre, fino a un microsecondo prima del getto... 
Attorno ad esso c'era il portello di chiusura esterna, che girava su di un perno montato su molle dal lato esterno e su vite da quello interno. Le molle gli permettevano di cedere al primo urto irresistibile della pressione del vapore, prima che la gigantesca forza d'inerzia della nave potesse essere vinta. Il vapore veniva fatto passare nella camera interna in modo da spezzare la forza dell'urto, lasciando immutata l'energia totale ma graduandola nel tempo, così da eliminare il pericolo che nello scafo potesse aprirsi una falla. 
Mullen si puntellò contro uno scalino e fece energicamente forza contro il portello esterno, tanto che quello cedette un poco. Era durissimo, ma non occorreva che cedesse molto; solo quel tanto che bastava a ingranare la vite. Sentì che ingranava, infatti. 
Spinse ancora con tutta la forza e la girò, sentendo il proprio corpo torcersi nella direzione opposta. Ecco, ora teneva, la vite assorbiva lo sforzo e lui poteva azionare con cura la piccola manopola di controllo che liberava le molle. Come si ricordava bene di quello che aveva letto nei manuali, per divertimento! 
Era nel compartimento tra le due valvole, ora, uno spazio abbastanza largo da ospitare un uomo comodamente, sempre per ragioni di manutenzione. Non rischiava più di venire scaraventato lontano dalla nave. Se il getto fosse stato aperto ora, l'avrebbe semplicemente spinto contro il portello interno del compartimento... con una violenza tale da ridurlo in poltiglia. Una morte così rapida da non dargli nemmeno il tempo di accorgersene. 
Lentamente, si sganciò dalla cintura il serbatoio di scorta. C'era soltanto il portello interno, ora, tra lui e la cabina di comando. Quel portello si apriva verso l'esterno, rispetto alla cabina, affinché il getto di vapore potesse al massimo chiuderlo ancora di più, anziché rischiare di spalancarlo. E combaciava in modo perfetto. Non c'era assolutamente modo di aprirlo dall'esterno. 
Si sollevò al di sopra del portello, spingendo forte con la schiena incurvata contro la superficie interna del compartimento. Respirare, in quella posizione, gli era difficile. Il serbatoio d'ossigeno di scorta gli pendeva dalla cintola con una strana inclinazione. Mullen afferrò il cannello a due mani e lo raddrizzò, puntandolo contro il portello interno e bombardandolo con un getto di ossigeno, così da farlo vibrare. Ancora... ancora... 
Doveva assolutamente attirare l'attenzione dei Kloro. Prima o poi, sarebbero stati costretti a indagare su quel rumore. 
Mullen non avrebbe avuto modo di capire quando un fatto del genere si sarebbe verificato. In circostanze normali, prima di aprire il portello interno veniva immessa aria nel compartimento, per chiudere ermeticamente quello esterno. Ma ora il portello esterno era avvitato al perno centrale e ben discosto dal suo orlo. L'aria sarebbe stata risucchiata fuori, perdendosi nello spazio. 
Mullen continuò a dirigere il getto sul portello. Chissà se i Kloro, osservando il manometro dell'aria, si sarebbero accorti che segnava ben poco al di sopra dello zero, o se avrebbero preso per scontato che tutto andava bene?

   «Ormai è assente da un'ora e mezzo» disse Porter.
   «Lo so» mormorò Stuart. 
Erano tutti in uno stato di estrema tensione, sussultavano per un nonnulla, ma ogni rancore tra loro era scomparso. Era come se tutte le loro capacità emotive fossero orientate verso lo scafo della nave. 
Porter era perplesso. Aveva sempre avuto una concezione della vita molto semplice: bada a te stesso, perché nessun altro lo farà. Lo sconvolgeva vedere la sua filosofia distrutta dai fatti.
«Crede che l'abbiano preso?» domandò.
«Se così fosse, a quest'ora lo sapremmo» rispose Stuart, sbrigativo. 
Porter si era accorto che gli altri poco ci tenevano a parlare con lui, e questo lo avviliva, anche se poteva capirlo: non aveva fatto molto per meritarsi il loro rispetto. Per il momento, la sua mente era sommersa da un torrente di autogiustificazioni. Anche gli altri avevano avuto paura, non solo lui. E un uomo aveva diritto, in fondo, d'avere paura. Non piace a nessuno, rimetterci la pelle. Lui, se non altro, non aveva perso la testa come Aristides Polyorketes. Non si era messo a piangere, come Leblanc. Non...
Ma c'era Mullen, là fuori sullo scafo. 
«Sentite, voialtri» gridò, «perché l'ha fatto?» Si girarono tutti a guardarlo, senza capire, ma Porter non se ne curò. Era talmente disorientato che doveva cercare di comprendere. «Voglio sapere perché Mullen sta rischiando la vita.»
«Mullen» disse Windham, «è un patriota...» 
«Macché, non è così!» Porter era sull'orlo di una crisi isterica. «Quell'ometto non è tipo da agire per dei sentimentalismi. Ha delle ragioni concrete, e io voglio sapere quali sono, queste ragioni, perché...» 
Non finì la frase. Poteva forse dire che, se quelle ragioni erano valide per un piccolo ragioniere di mezz'età, tanto più valide dovevano esserlo per lui?
«Perché è un omino coraggioso» disse Polyorketes. 
Porter si alzò di scatto. «Sentite» disse. «Può darsi che sia nei guai, là fuori. Qualsiasi cosa stia facendo, può darsi che da solo non sia in grado di portarla a termine. Io... mi offro volontario per andare a dargli una mano.» 
Tremava, mentre lo diceva, e aspettava timoroso di sentirsi frustare da una risposta sarcastica di Stuart. In realtà Stuart lo stava fissando, probabilmente per la sorpresa, ma Porter non osava affrontarne lo sguardo, per accertarsene.
«Diamogli un'altra mezz'ora» propose gentilmente Stuart. 
Potter guardò in su, meravigliato. Non c'era scherno, nell'espressione di Stuart. Il comportamento era anzi quello di un amico. Tutti, avevano un comportamento da amici.
«E poi...?» domandò. 
«Poi tutti quelli che si saranno offerti volontari tireranno a sorte tra loro, o qualcosa del genere. L'importante è che sia una scelta democratica. Chi si offre volontario, oltre Porter?»
Tutti alzarono la mano; perfino Stuart. 
Ma Porter era felice. Era stato il primo ad offrirsi e adesso non vedeva l'ora che quei trenta minuti passassero.

Mullen venne colto di sorpresa. Il portello si spalancò e il lungo collo da rettile e quasi acefalo di un Kloro, impossibilitato a opporre resistenza all'aria che sfuggiva dalla cabina di comando, venne risucchiato verso l'esterno. 
Il cilindro dell'ossigeno scappò di mano a Mullen, e per poco non si staccò anche dalla tuta, finendo nel vuoto. Passato il primo istante di panico, Mullen lottò per riafferrarlo, lo sollevò al di sopra del violento getto d'aria; infine, dopo avere aspettato il più possibile che il primo impeto di quel tornado perdesse di intensità con il diminuire dell'aria all'interno della cabina, lo calò con forza. 
Il cilindro si abbatté in pieno sul collo del Kloro, schiacciandolo. Mullen, rannicchiato al di sopra del portello, quasi completamente al riparo dalla corrente impetuosa, sollevò di nuovo il cilindro e tornò a calarlo, colpendo stavolta la testa e spappolando quegli occhi fissi fino a ridurli in poltiglia. Da quello che restava del collo, sangue verde sfuggiva ora nel semi-vuoto del compartimento.
Mullen era assalito da una nausea tremenda, ma non osava lasciarsene travolgere. 
Distogliendo lo sguardo, indietreggiò, afferrò con una mano il portello esterno e gli impresse una spinta. Per diversi secondi, la piastra continuò a roteare come una trottola. Arrivata al termine della vite, venne automaticamente riafferrata dalle molle e si richiuse. Quel poco di atmosfera che rimaneva ne aumentò la tenuta, rendendola ermetica, per cui il lavorio delle pompe poteva ora tornare a riempire d'aria la cabina di comando. 
Mullen strisciò al di sopra del corpo maciullato del Kloro ed entrò nel locale. Era deserto. 
Ebbe sì e no il tempo di accorgersene che si ritrovò in ginocchio. Si rialzò, con molta difficoltà. Il passaggio dall'assenza di peso di poc'anzi a uno stato gravitazionale l'aveva colto alla sprovvista. Senza contare, poi, che si trattava di gravità kloriana, il che voleva dire per lui, con quel po' po' di tuta addosso, sostenere un peso che era una volta e mezzo quello normale. In compenso, però, le pesanti suole metalliche non aderivano più in modo così esasperante all'impiantito. All'interno dell'astronave, paratie e pavimenti erano di una lega d'alluminio ricoperta di sughero. 
Girò lentamente su sé stesso. Il Kloro decollato giaceva in un mucchio e soltanto qualche occasionale sussulto indicava che era stato, fino a poco prima, un organismo vivente. Mullen lo scavalcò, con disgusto, e azionò il congegno che richiudeva il portello interno della cabina. 
Il locale era immerso in una deprimente atmosfera verdastra e le luci mandavano un chiarore giallognolo. L'atmosfera dei Kloro, naturalmente. 
Suo malgrado, Mullen provava un vago senso di sorpresa e di ammirazione. Evidentemente i Kloro avevano un loro modo di trattare i materiali, così da renderli refrattari all'effetto ossidante del cloro. Perfino la mappa murale della Terra, di lucida carta plastificata, sembrava fresca e intatta. Mullen si avvicinò alla parete, attratto dai contorni familiari dei continenti... 
In quel momento, con la coda dell'occhio, colse un movimento improvviso. Si girò, con tutta la rapidità che la tuta gli consentiva, poi mandò un grido. Il Kloro che lui aveva creduto morto si stava rialzando. 
Il collo pendeva inerte, ammasso di tessuti spappolati e di umori, ma le braccia si tendevano qua e là, brancolando alla cieca, e i tentacoli all'altezza del petto vibravano rapidamente, come innumerevoli lingue di serpi. 
Era cieco, naturalmente. La distruzione del collo a stelo lo aveva privato di tutti i suoi organi sensori, e inoltre era in uno stato di semiasfissìa. Ma il cervello, all'interno dell'addome, era ancora indenne. Il Kloro era malconcio ma vivo. 
Mullen indietreggiò. Voleva tenersi alla larga e, al tempo stesso, si sforzava goffamente e inutilmente di camminare in punta di piedi, pur sapendo che il Kloro, oltre che cieco e mutilato, era sordo. Infatti si moveva a tentoni, finché andò a sbattere contro una parete e, dopo averne tastata la base, prese a strisciare lungo quella. 
Mullen si guardò disperatamente attorno alla ricerca di un'arma, ma non la trovò. C'era la fondina del Kloro, ma lui non osava allungare una mano per impossessarsene. Perché non se n'era impadronito al primo momento? Che idiota! 
La porta della cabina di comando si aprì, quasi senza rumore. Mullen si voltò, tremando come una foglia. 
L'altro Kloro entrò, indenne, perfettamente sano. Si arrestò per un attimo sulla soglia, i tentacoli del petto rigidamente tesi e immobili; il collo a stelo si protese in avanti, gli occhi orribili fissarono prima Mullen poi il compagno moribondo.
Di scatto, l'extra-terrestre si portò la mano al fianco. 
Mullen, senza rendersene conto, si mosse altrettanto rapidamente, come per un riflesso condizionato. Afferrò il tubo del cilindro d'ossigeno di riserva che, da quando era entrato nella cabina di comando, aveva riappeso all'apposito gancio della tuta, e lo puntò, aprendo contemporaneamente la valvola del serbatoio. Non si era nemmeno curato di regolare la pressione. Lasciò che il getto uscisse incontrollato, tanto che barcollò sotto la spinta improvvisa. 
Riusciva a vedere materialmente il getto di ossigeno. Era un pallido sbuffo, che si gonfiava e si diffondeva nel verde diffuso del cloro. Il getto investì il Kloro nell'attimo in cui stava per estrarre l'arma. 
Mullen vide il mostro alzare le mani. Il piccolo becco in cima alla testa a pomolo si aprì come per mandare un grido d'allarme ma senza che ne uscisse alcun suono. Poi, l'essere barcollò e cadde, si contorse per qualche istante, infine giacque immobile. Mullen s'avvicinò e continuò a investirlo con il getto dell'ossigeno, come se stesse azionando un estintore. Infine, alzò il piede appesantito dallo scarpone di ferro e lo calò con forza sul collo a stelo, schiacciandolo ben bene al suolo.
Si girò allora verso il primo e lo vide disteso a terra, stecchito. 
L'intero locale era saturo di ossigeno, ora, ce n'era abbastanza da annientare intere legioni di Kloro, e il cilindro era vuoto. 
Mullen scavalcò il Kloro morto, uscì dalla cabina di comando e si diresse, seguendo il corridoio principale, lungo la cabina dei prigionieri. 
Era subentrata la reazione nervosa, ora. Mullen stava singhiozzando, in preda a un terrore cieco, che lo faceva sragionare.

Stuart era stanco. Nonostante le mani artificiali, si ritrovava ancora una volta a pilotare un'astronave. Due incrociatori leggeri erano già partiti dalla Terra per venire a rimorchiarli. Da quasi ventiquattr'ore, stava ai quadri di comando, praticamente da solo. Aveva dovuto smontare l'impianto di clorizzazione, riattivare quello dell'ossigeno, fare il punto per individuare la posizione della nave nello spazio, tentare di calcolare una rotta e trasmettere una serie di segnali, preoccupandosi che non venissero intercettati: segnali che, per fortuna, erano stati raccolti da chi di dovere. 
Così, quando sentì che la porta della cabina di comando si apriva, provò un lieve senso di irritazione. Era troppo stanco per scambiare le solite quattro chiacchiere oziose. Si voltò, e vide che stava entrando Mullen.
«Per amor di Dio, Mullen» gridò, «torni subito a letto!» 
«Non ho più voglia di dormire» disse Mullen, «anche se c'è stato un momento in cui ho creduto che non avrei più chiuso occhio in vita mia.»
«Come si sente?» 
«Ancora tutto indolenzito. Da un lato, in modo particolare.» Fece una smorfia e, involontariamente, si guardò attorno. 
«Che cosa cerca, i Kloro?» domandò Stuart. «Li abbiamo gettati nello spazio, poveracci.» Scosse la testa. «Facevano pena, tutto sommato. Mettiamoci nei loro panni: dal loro punto di vista, i mostri eravamo noi. Intendiamoci, con questo non voglio dire che avrei preferito che fossero stati loro a farle la pelle.»
«Lo so, capisco benissimo.» 
Stuart guardò di sottecchi l'omino, che si era seduto davanti alla mappa murale della Terra. «Le devo delle scuse particolari e personalissime, Mullen» aggiunse. «Confesso che non mi ero fatto una grande opinione di lei.» 
«Era nel suo diritto» assicurò Mullen, con la sua voce asciutta. Il tono era indifferente. 
«No, invece. Nessuno ha il diritto di disprezzare un altro, se non dopo una lunga esperienza di dure prove che gliene accordino il privilegio.»
«È a questo che stava pensando?» 
«Sì, ed è tutto il giorno che ci penso. Non so se riuscirò a spiegarmi. Vede, sono queste mani.» Le teneva allargate davanti a sé. «Era un tormento, capisce, sapere che gli altri avevano le loro mani normali, vive. Non potevo fare a meno di odiarli, per questo. Istintivamente, facevo di tutto per sminuire le loro qualità, mettere in mostra i loro difetti, dare rilievo alle loro debolezze. Insomma, dovevo fare il possibile per dimostrare a me stesso che non valeva la pena di invidiarli.» 
Mullen si mosse, a disagio. «Mi creda, non è affatto tenuto a giustificarsi. Non è necessario.» 
«Oh, lo è. Lo è!» Stuart frugava nei propri pensieri, si sforzava di tradurli in parole. «Da anni, ormai, avevo abbandonato la speranza di trovare negli altri un minimo di dignità, di onestà. Ed ecco che arriva lei, e s'infila dentro quel condotto per i cadaveri.» 
«Chiariamo subito un particolare» disse Mullen, «e cioè che io ho agito spinto unicamente da considerazioni pratiche ed egoistiche. Non posso accettare, perciò, che lei mi presenti a me stesso come un eroe.» 
«Non è mia intenzione, gliel'assicuro. So che non avrebbe alzato un dito, senza un motivo. Io mi riferisco all'effetto che la sua azione ha avuto su tutti voi. Ha trasformato una manica di buffoni e di idioti in gente per bene. E non per magia, al contrario! Erano già persone per bene fin dal primo momento, solo che avevano bisogno di un incentivo per dimostrarlo, e lei gliel'ha offerto. E io... sono anch'io uno di loro. È merito suo, lei mi è stato di esempio, capisce? Un esempio che mi basterà per tutta la vita, probabilmente.» 
Mullen volse la faccia altrove, impacciato. Si lisciava le maniche, che non erano per niente gualcite. Poi, posò il dito sulla mappa. 
«Sa» disse, «io sono nato a Richmond, nella Virginia. Qui, ecco. Sarà il primo posto dove andrò. E lei di dov'è?»
«Di Toronto» disse Stuart.
«Toronto è... qui. Non sono molto distanti, vero, viste sulla mappa?»
«Posso farle una domanda?» disse Stuart.
«Sentiamo.»
«Perché, esattamente, si è avventurato là fuori?» 
Mullen sporse le labbra. Seccamente, osservò: «Non teme che la mia ragione piuttosto prosaica possa rovinare l'effetto ispiratore?» 
«La chiami pure curiosità intellettuale, se crede. Ognuno di noi aveva i suoi motivi, tutti molto ovvi. Porter tremava al pensiero di venire internato; Leblanc voleva tornare dalla fidanzata; Polyorketes voleva accoppare dei Kloro; e Windham, secondo lui, era un patriota. Quanto a me, mi ritenevo una specie di nobile idealista, temo. Tuttavia, in nessuno di noi la motivazione era sufficientemente forte da indurci a entrare in una tuta spaziale e a calarci poi giù per quel condotto. Che cosa ha indotto proprio lei, fra tanti, a farlo?»
«Perché dice, "fra tanti"?» 
«Non se l'abbia a male ma... ha un'aria così freddina, lei, così poco emotiva.» 
«Le sembra?» La voce di Mullen non era cambiata di tono. Si manteneva precisa, sommessa, e tuttavia tradiva ora una certa tensione. «È tutta auto-disciplina, signor Stuart; continua, paziente auto-disciplina, perché di natura non ero affatto così. Un uomo piccolo di statura non può avere stati d'animo degni di rispetto. Che c'è di più ridicolo di un piccoletto come me che si arrabbia, eh? Sono alto un metro e cinquantadue, peso quarantasei chili e duecento grammi, se ci tiene alla precisione. Insisto sui due centimetri e sui duecento grammi. 
«Posso darmi arie di dignità, io? Posso mostrarmi orgoglioso? Ergermi in tutta la mia statura, senza suscitare il riso? Dove posso trovare una donna che non mi liquidi subito con una risatina? Naturalmente, ho dovuto imparare a mascherare ogni mio sentimento. 
«Lei parla di deformità! Alle sue mani nessuno baderebbe, nessuno si accorgerebbe che sono diverse dalle altre se lei stesso non si affrettasse a parlarne con tutti quelli che ha occasione di conoscere. Crede che i dieci centimetri di statura che mancano a me si possano nascondere? Che non siano la prima e, nella maggior parte dei casi, la sola cosa di me di cui gli altri si accorgono?» 
Stuart era mortificato. Aveva invaso un'intimità che non avrebbe dovuto violare. «La prego di scusarmi» mormorò.
«Perché?» 
«Non avrei dovuto costringerla a parlare di queste cose. Avrei dovuto capirlo da me che lei... che lei...» 
«Che io... cosa? Avevo tentato di mettere alla prova me stesso? Di dimostrare che, pur essendo piccolo come persona, avevo un cuore da gigante?»
«Io non intendevo mettere la cosa sotto una luce di scherno.» 
«Perché no? Sarebbe stata un'idea sciocca, senza niente a che fare con la vera ragione che mi ha spinto. Se davvero avessi avuto questo, in mente, cosa crede che avrei concluso? Pensa che adesso, sulla Terra, mi metteranno davanti alle telecamere - bene abbassate, s'intende, per inquadrarmi la faccia, a meno che non facciano salire me su una sedia - e mi appunteranno addosso delle medaglie?»
«Eh, be', è proprio quello che faranno, secondo me.» 
«E cosa crede che me ne verrà in tasca? Tutti diranno: "Ma pensa, piccolo com'è!" E poi? Dovrò dire a tutti quelli che incontro: "Sapete, io sono quel tale che è stato decorato al valore il mese scorso?" Signor Stuart, quante medaglie pensa che ci vorrebbero per farmi aumentare di dieci centimetri nonché di una ventina di chili?»
«Se la mette così» ammise Stuart, «sì, capisco benissimo.» 
Mullen parlava un tantino più in fretta, ora; un po' di fervore, sia pure ben controllato, era entrato nelle sue parole, rendendole leggermente più calde. «Ci fu un tempo in cui pensavo: "Gliela farò vedere io, chi sono!" intendendo riferirmi, con questo, al mondo intero. Avrei lasciato la Terra, sarei andato alla conquista di nuovi mondi. Sarei stato un novello Napoleone, anche più piccolo di quell'altro. E così, un bel giorno lasciai la Terra e me ne andai su Arturo. E che cos'ho fatto, su Arturo, che non avrei potuto fare anche sulla Terra? Niente. Tengo il bilancio di una società commerciale. Come vede, caro signor Stuart, ho rinunciato da un pezzo alla vanità di sollevarmi sulla punta dei piedi.»
«Ma perché lo ha fatto, allora?» 
«Avevo ventotto anni quando lasciai la Terra e mi stabilii nel Sistema Arturiano. Non mi sono più mosso di là. Questo viaggio doveva essere la mia prima vacanza, la mia prima rimpatriata, sulla Terra, dopo tanti anni. Avevo in progetto di restare sulla Terra sei mesi. Invece i Kloro ci hanno fatto prigionieri e chissà per quanto tempo ci avrebbero tenuti internati. Ma io non potevo, capisce... proprio non potevo permettere loro di mandare a monte il mio viaggio. A costo di qualunque cosa, dovevo impedire loro di interferire nei miei programmi. Volevo tornare sulla Terra, e a spingermi ad agire non era l'amore di una donna, o la paura, o l'odio, o l'idealismo, o che so io. Era qualcosa di più forte di tutti questi sentimenti.» 
S'interruppe, allungò una mano come per accarezzare la mappa sulla parete. 
«Signor Stuart» domandò sommessamente, «ha mai sofferto la nostalgia di casa?»