lunedì 12 settembre 2016

9 Orgoglio di famiglia (di Elias Canetti)




Nel brano tratto dalle prime pagine dell’autobiografia Canetti riflette sulla sua città natale in Bulgaria e sulle varie etnie che vi si potevano incontrare, a cominciare da quella ebraico-spagnola della sua famiglia, che suscitava l’orgoglio della madre e i turbamenti del giovane scrittore.

Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c’erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto loro, che confinava col quartiere degli «spagnoli» (1), dove stavamo noi. C’erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena. C’era anche qualche russo, ma erano casi isolati.
Essendo un bambino non avevo una chiara visione di questa molteplicità, ma ne vivevo continuamente gli effetti. Alcune figure mi sono rimaste impresse nella memoria semplicemente perché appartenevano a particolari gruppi etnici e si distinguevano dagli altri per l’abbigliamento. Fra la servitù che ci passò per casa nel corso di quei sei anni, una volta ci fu un circasso e più tardi un armeno. La migliore amica di mia madre era Olga, una russa. Una volta alla settimana, nel nostro cortile venivano gli zingari, tanti che mi parevano un popolo intero, e io mi sentivo invaso da una grande spavento di cui parlerò più avanti.
Rustschuk era un’antica città portuale sul Danubio e come tale aveva avuto la sua importanza. A causa del porto aveva attirato persone da ogni parte, e del fiume si faceva un gran parlare. Si raccontava degli anni eccezionali in cui il Danubio era gelato; delle corse in slitta sul ghiaccio fino in Romania; dei lupi famelici che inseguivano i cavalli che trainavano le slitte.
I lupi furono i primi animali feroci di cui sentii parlare. Nelle fiabe che le mie bambinaie bulgare mi raccontavano c’erano i lupi mannari, e una notte mio padre mi spaventò comparendomi davanti con una maschera da lupo sul viso.
Mi sarà difficile dare un’immagine di tutto il colore di quei primi anni a Rustschuk, delle passioni e dei terrori di quel tempo. Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuk. Laggiù il resto del mondo si chiamava Europa e, quando qualcuno risaliva il Danubio fino a Vienna, si diceva che andava in Europa. L’Europa cominciava là dove un tempo finiva l’impero ottomano. La maggior parte degli «spagnoli» erano ancora cittadini turchi. Sotto i turchi si erano sempre trovati bene, meglio che gli schiavi cristiani dei Balcani. Ma poiché molti fra gli «spagnoli» erano agiati commercianti, anche il nuovo regime bulgaro intratteneva con loro buone relazioni, e Ferdinando, il re dal lungo regno, era considerato un amico degli ebrei.
Le convinzioni che questi «spagnoli» nutrivano erano piuttosto complicate. Erano ebrei osservanti, interessati alla vita della loro comunità; pur senza fervori eccessivi, essa era al centro della loro esistenza. Ma si consideravano ebrei di un tipo un po’ speciale, e ciò dipendeva dalla loro tradizione spagnola. Nel corso dei secoli, dopo la loro cacciata dalla Spagna, lo spagnolo che parlavano fra loro si era modificato appena. Alcune parole turche erano entrate nella loro lingua, ma erano chiaramente riconoscibili come tali e le cose che esse significavano potevano essere dette quasi sempre anche con parole spagnole. Udii le prime canzoncine infantili in spagnolo, udii anche antiche romances spagnole, ma l’elemento dominante, al quale un bambino non poteva assolutamente sottarsi, era la mentalità spagnola. Con ingenua presunzione si guardavano gli altri ebrei dall’alto in basso, la parola «todesco» veniva sempre pronunciata con intonazione sprezzante e stava a significare un ebreo tedesco o ashkenazi. Sarebbe stato impensabile sposare una «todesca» e fra le molte famiglie che conoscevo o di cui da bambino sentii parlare a Rustschuck, non ricordo un solo caso nel quale si fosse verificato un matrimonio misto di quel tipo. Non avevo ancora sei anni quando mio nonno mi mise in guardia da una simile mésalliance (2). Ma la cosa non si esauriva in questa generica discriminazione. Fra gli stessi «spagnoli» c’erano le «buone famiglie», che erano poi le famiglie facoltose da varie generazioni. L’elogio più grande che si potesse sentir dire di una persona era che «es de buena familia». Quanto spesso, fino alla noia, ho sentito ripetere questa frase da mia madre! Quando andava in estasi per il Burgtheater (3), o leggeva Shakespeare con me, ma anche molto più tardi, quando parlava di Strindberg (4), che era diventato il suo autore prediletto, mai si vergognava di dire di se stessa che veniva da una buona famiglia, che non ce n’era una migliore. Lei che aveva fatto della letteratura delle grandi lingue europee, che sapeva benissimo, il contenuto essenziale della propria esistenza, non avvertiva lo stridore fra questo senso di appassionata universalità e l’arrogante orgoglio di famiglia che continuava incessantemente ad alimentare.
Fin dal tempo in cui ero ancora completamente in suo dominio – fu lei a schiudermi tutte le porte dell’intelletto, e io la seguii con cieco entusiasmo – rimasi colpito da quella contraddizione, che mi dispiaceva e mi turbava, e in ogni periodo della mia giovinezza ne discussi con lei e gliela rinfacciai innumerevoli volte, senza che ciò le facesse la minima impressione. Il suo orgoglio aveva trovato molto presto i suoi canali e li seguiva imperterrito, e proprio questa angustia mentale, che in lei non capivo, mi portò assai per tempo a schierarmi contro ogni pregiudizio di nascita. Non riesco a prendere sul serio quelli che coltivano un orgoglio di casta, qualunque esso sia: mi sembrano animali esotici, ma anche un po’ ridicoli. Mi accorgo ad un tratto di avere pregiudizi opposti, cioè contro le persone che danno una certa importanza alla loro nascita altolocata. Ai pochi aristocratici con cui ho avuto rapporti di amicizia, dovevo innanzitutto perdonare che parlassero di questa cosa, e se mai avessero potuto immaginare la fatica che tutto ciò mi costava, certamente avrebbero rinunciato alla mia amicizia. Tutti i pregiudizi sono determinati da altri pregiudizi, e i più frequenti sono quelli che nascono dai loro opposti.
Va aggiunto poi che la casta alla quale mia madre si vantava di appartenere, a parte la sua origine spagnola, era una casta del denaro. Nella mia famiglia, e in particolare nella sua, ho visto che cosa il denaro può fare alla gente. Ho scoperto che le persone peggiori sono quelle dominate dalla passione del denaro. Ho imparato a conoscere tutti i passaggi che dalla rapacità portano alla mania di persecuzione. Ho visto fratelli che per avidità si sono rovinati a vicenda con processi di anni e anni, e che sono andati avanti a processarsi fino a quando il denaro svanì completamente. Eppure appartenevano a quella stessa «buona» famiglia di cui mia madre andava tanto fiera. Lo vedeva anche lei, ne parlavamo spesso. La sua intelligenza era penetrante, la sua conoscenza degli uomini si era formata sulle grandi opere della letteratura universale, ma anche attraverso le proprie personali esperienze. Conosceva benissimo i motivi insensati che avevano portato i membri della sua famiglia a dilaniarsi a vicenda: avrebbe potuto con facilità scriverci sopra un romanzo; ma la sua fierezza per quella stessa famiglia non ne veniva scossa. Se fosse stato amore, avrei potuto anche capirlo. Ma molti dei protagonisti di quelle vicende non li amava affatto, alcuni li considerava addirittura persone indegne, altri li disprezzava, ma per la famiglia in quanto tale provava solo orgoglio.
Una cosa ho capito tardi, ed è che io, se si proietta tutto ciò sul piano dei più vasti rapporti umani, sono fatto esattamente come lei. Ho passato la parte migliore della mia esistenza a mettere a nudo le debolezze dell’uomo, quale ci appare nelle civiltà storiche. Ho analizzato il potere e l’ho scomposto nei suoi elementi con la stessa spietata lucidità con cui mia madre analizzava i processi della sua famiglia. Ben poco del male che si può dire dell’uomo e dell’umanità io non l’ho detto. E tuttavia l’orgoglio che provo per essa è ancora così grande che solo una cosa io odio veramente: il suo nemico, la morte.
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(1) Sono gli ebrei di origine spagnola, a cui appartiene la famiglia dello scrittore
(2) Matrimonio con una persona ritenuta di ceto sociale inferiore
(3) Il teatro di Vienna, uno dei più importanti al mondo
(4) August Strindberg, uno dei massimi letterati svedesi

Cartolina di Rustschuk (o Ruse in italiano) del 1903

domenica 11 settembre 2016

8 Ricordi d'infanzia (di Elias Canetti)



L’autobiografia di Canetti incomincia con il primo dei suoi ricordi. E continua con altri episodi, che, al bambino che li ha vissuti, appaiono straordinari e molto più forti di quanto non sembri all’adulto che li ricorda; ma l’impressione infantile è indelebile e di solito quella più vera.

Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: «Mostrami la lingua!». Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: «Adesso gli tagliamo la lingua». Io non oso ritirarla, l’uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All’ultimo momento ritira la lama e dice: «Oggi no, domani». Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca.
Ogni mattina usciamo dalla porta che dà sul rosso pianerottolo e subito compare l’uomo sorridente che esce dall’altra porta. So benissimo che cosa dirà e aspetto il suo ordine di mostrare la lingua. So che me la taglierà e il mio timore aumenta sempre più. Così comincia la giornata, e la cosa si ripete molte volte.
Me la tengo per me e solo molto tempo dopo interrogo mia madre. Da tutto quel rosso lei riconosce la pensione di Karlsbad (1) dove aveva trascorso l’estate del 1907 con mio padre e con me. Per il bambino di due anni si erano portati dalla Bulgaria una bambinaia che aveva a malapena quindici anni. La ragazza ha l’abitudine di uscire con il bambino di prima mattina, parla soltanto bulgaro, eppure passeggia disinvolta nelle vie animate di Karlsbad, e ritorna sempre puntualmente con il piccino. Un giorno qualcuno la vede per strada con un giovanotto sconosciuto, lei non sa dire nulla di lui, spiega che l’ha conosciuto per caso. Dopo alcune settimane salta fuori che il giovanotto abita proprio nella camera di fronte a noi, sul lato opposto del pianerottolo. Qualche volta, di notte, la ragazza s’infila ratta nella sua stanza. I miei genitori, che si sentono responsabili per lei, la rimandano immediatamente in Bulgaria.
Entrambi, la ragazza e il giovanotto avevano l’abitudine di uscire il mattino molto presto, e devono essersi conosciuti in questo modo, così dev’essere cominciata fra loro. La minaccia di quel coltellino è stata efficace, il bambino ha taciuto la cosa per dieci anni.
[…]
Solo il lato più breve della nostra casa si affacciava sul cortile a giardino; la costruzione però si estendeva parecchio verso il retro, e sebbene non avesse che il pianterreno, la ricordo come una casa molto spaziosa. Partendo dall’estremità del cortile, si poteva fare il giro della casa seguendone il lato più lungo e allora si capitava dietro, in un cortiletto più piccolo, sul quale si affacciava la cucina. Lì c’era la legna da tagliare, oche e galline razzolavano intorno e nella cucina aperta c’era sempre movimento, la cuoca portava fuori utensili o li riportava dentro, e la mezza dozzina di ragazzine (2) le saltavano intorno indaffarate.
Nel cortiletto della cucina c’era spesso un servitore che tagliava la legna, di lui mi ricordo benissimo, era il mio amico, l’armeno triste. Mentre tagliava la legna cantava canzoni che io naturalmente non capivo, e che però mi dilaniavano il cuore. Quando domandai alla mamma perché fosse tanto triste, lei mi raccontò che a Istanbul gente cattiva aveva voluto uccidere tutti gli armeni e l’uomo vi aveva perduto l’intera famiglia (3). Da un nascondiglio aveva persino visto trucidare sua sorella. Poi era riuscito a fuggire in Bulgaria, e mio padre, per compassione, lo aveva preso in casa. Ora, quando tagliava la legna pensava sempre alla sua sorellina e per questo cantava canzoni tanto tristi.
Concepii per quest’uomo un profondo amore. Quando tagliava la legna, mi mettevo sul sofà all’estremità del lungo salone la cui finestra dava sul cortile della cucina. Poi mi sporgevo dalla finestra e lo guardavo, e quando cantava io pensavo alla sua sorellina – da allora desiderai sempre una sorellina. L’uomo aveva dei lunghi baffi neri e capelli neri come la pece, e mi pareva molto alto, forse perché lo vedevo quando sollevava in alto il braccio che teneva la scure. Gli volevo ancora più bene che a Tschelebon, l’impiegato del negozio (4), che del resto vedevo molto di rado. Ci scambiavamo anche alcune parole, poche però, e non so più in quale lingua. Ma lui aspettava me, prima di cominciare a tagliare la legna. Non appena mi vedeva, faceva un breve sorriso e sollevava la scure, ma era terribile la collera con cui la lasciava ricadere sul ciocco. Allora si incupiva tutto e si metteva a cantare le sue canzoni. Quando riponeva la scure, mi sorrideva di nuovo, e io aspettavo quel suo sorriso come lui, il primo profugo della mia vita, aspettava me.

Ogni venerdì arrivavano gli zingari. Il venerdì nelle case ebraiche era dedicato ai preparativi per il sabato. La casa veniva ripulita da cima a fondo, le ragazzine bulgare correvano avanti e indietro come razzi, in cucina tutti si davano un gran daffare e nessuno aveva tempo di occuparsi di me. Così ero completamente solo e aspettavo gli zingari, la faccia premuta contro la vetrata che dal grande salone dava sul giardino. Vivevo in un terrore panico (5) degli zingari. Suppongo che fossero state le ragazze a raccontarmi di loro nelle lunghe serate che passavamo al buio sul sofà. Io pensavo che rubassero i bambini ed ero convinto che avessero messo gli occhi su di me.
Ma nonostante questa tremenda paura, mai mi sarei lasciato sfuggire lo spettacolo della loro visita, che era davvero splendido. Il cancello veniva spalancato perché loro avevano bisogno di spazio. Arrivavano come una vera tribù, nel mezzo, a testa alta, il patriarca cieco, il bisnonno, mi fu detto, un bellissimo vecchio dai capelli candidi che camminava molto lentamente, sostenuto a destra e a sinistra da due nipoti adulte, vestite di stracci multicolori. Intorno a lui, pigiandosi gli uni contro gli altri, zingari di ogni età, pochissimi uomini, quasi tutte donne e innumerevoli bambini, i più piccini in braccio alle madri, altri che saltavano intorno senza però allontanarsi molto da quel superbo vegliardo che restava sempre al centro del gruppo. Il corteo, folto e denso com’era, aveva qualcosa di inquietante, tanta gente che avanzava compatta tutta insieme non l’avevo mai vista da nessuna parte: ed era davvero lo spettacolo più variopinto che si potesse osservare in quella città, pur così variopinta. I pezzi di stracci di cui era fatto il loro vestiario erano smaglianti di mille colori, ma sopra ogni altro era sempre il rosso che spiccava. Dalle spalle di molti di loro pendevano dei sacchi, ed io, guardandoli, non riuscivo a fare a meno di immaginare che contenessero i bambini rubati.
A me quegli zingari sembravano allora un’infinità, ma se ora cerco di farmi un’idea del loro numero in base all’immagine che me ne è rimasta, sono propenso a credere che non fossero più di trenta o quaranta persone. D’altro canto, tante persone tutte insieme nel nostro grande cortile non le vedevo mai, e poiché a causa del vegliardo venivano avanti con grande lentezza, il cortile rimaneva pieno per un tempo che a me pareva infinitamente lungo. Ma non si fermavano nel cortile, giravano intorno alla casa fino a raggiungere il cortiletto della cucina in cui era accatastata la legna e lì poi si mettevano a sedere.
Io ero solito aspettare il momento in cui comparivano davanti al cancello e, non appena avvistato il vecchio cieco, mi mettevo a correre urlando con voce stridula «Zinganas! Zinganas!» per tutto il lungo salone e l’ancor più lungo corridoio che lo collegava con la cucina, nella parte posteriore della casa. Là c’era la mamma che dava istruzioni su quel che bisognava cucinare per il sabato e preparava lei stessa alcuni speciali leccornie. Le ragazzine bulgare che incontravo a ogni momento sui miei passi non le vedevo neppure, e continuavo a strillare fino a quando non mi trovavo accanto alla mamma, che con le sue parole riusciva a tranquillizzarmi. Ma invece di rimanere accanto a lei, ritornavo indietro di corsa, gettavo un’occhiata dalla finestra all’avanzare degli zingari, che nel frattempo erano già un po’ più vicini, e subito andavo a darne notizia in cucina. Li volevo vedere, ero preso dalla smania di vederli, ma non appena li avvistavo, subito mi riprendeva la paura che avessero messo gli occhi su di me e urlando me ne scappavo via. Così continuavo per un po’, andando avanti e indietro, e credo che proprio questo mi abbia lasciato un’impressione così forte della lunghezza fra i due cortili.
Non appena erano arrivati alla meta, davanti alla cucina, il vecchio si metteva a sedere e gli altri si raggruppavano intorno a lui; venivano aperti i sacchi e le donne, senza bisticciarsi, prendevano i doni. Dalla catasta di legna venivano loro offerti grossi ceppi, ai quali parevano tenere in maniera particolare; e il cibo che ricevevano era vario e abbondante. Avevano la loro parte di tutto quello che si stava preparando in cucina, non venivano certo nutriti con gli avanzi. Io provavo un gran sollievo quando vedevo che nei sacchi non avevano bambini e, sotto la protezione della mamma, passavo in mezzo a loro, me li guardavo ben bene, stando attento però a non avvicinarmi troppo alle donne che mi volevano accarezzare. Il vecchio cieco mangiava lentamente dalla sua ciotola, si riposava, se la prendeva comoda. Gli altri invece non toccavano cibo, tutto quello che ricevevano scompariva nei grandi sacchi, e solo i bambini avevano il permesso di sgranocchiare i dolciumi che gli erano stati regalati. Io ero stupito di quanto fossero affettuosi con i loro bambini, non avevano per nulla l’aria di rapitori di bambini. Questo però non serviva a mitigare il terrore che mi incutevano. Dopo un certo tempo, che mi pareva lunghissimo, si rimettevano in moto, il corteo si snodava ora un po’ più veloce che all’arrivo intorno alla casa e attraverso il cortile. Io li stavo a guardare dalla finestra mentre scomparivano oltre il cancello. Poi correvo un’ultima volta in cucina e annunciavo: «Gli zingari se ne sono andati»; il nostro servitore mi prendeva allora per mano, mi conduceva fino al cancello e richiudendolo diceva: «Adesso non torneranno». Di solito il cancello rimaneva aperto di giorno, ma in quei venerdì lo si chiudeva, così se un’altra carovana di zingari arrivava a seguito della prima, capiva che la loro gente era già stata lì, e procedeva oltre.
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(1) Karlovy Vary, oggi nella Repubblica Ceca
(2) sono le giovani domestiche bulgare che lavorano in casa
(3) si tratta dei fatti repressivi che colpirono gli armeni nel 1909, ancora prima di quello che viene chiamato “genocidio armeno” e che ebbe luogo tra il 1915 e il 1916
(4) la famiglia Canetti possedeva un negozio a Rustschuck di coloniali, ossia prodotti provenienti da paesi lontani che furono colonie europee
(5) assoluto, incontrollabile, causato secondo la mitologia antica dalla presenza del dio Pan

Una foto del 1909 sul massacro di armeni perpetrato ad Adana da parte dei Giovani Turchi

giovedì 8 settembre 2016

7 La peste del 1348 (di Giovanni Boccaccio)



Il Decameron narra che, per sfuggire alla peste che imperversa a Firenze, sette giovani donne, di età compresa tra 18 e 28 anni, trovatesi a pregare nella chiesa di Santa Maria Novella, decidono di fuggire dalla città e riparare in una casa di campagna, assieme a tre giovani, fidanzati a tre di loro. Assieme, i dieci giovani passeranno in campagna dieci giorni (Decameron significa appunto “dieci giorni”) e trascorreranno il tempo raccontandosi dieci novelle al giorno, cosicché alla fine le storie narrate saranno cento. Giovanni Boccaccio nelle prime pagine della sua opera descrive l’epidemia di peste che ha colpito Firenze e che spinge i dieci giovani ad abbandonare la città.
Ne trovi di seguito la versione originale, nell’edizione curata da Vittore Branca (Einaudi, 1980), e una mia trascrizione in italiano moderno, con qualche lieve licenza.

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun' altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare. E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono; di che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta.
E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. Per la qual cosa a coloro, de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl'infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, sé molte volte col guadagno perdeano. E da questo essere abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati, campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali rimanean vivi.
Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d'altra parte dinanzi alla casa del morto co' suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri sé suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n'era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i pietosi pianti e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa acompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l'aiuto de' detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.
Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno. Era il più da' vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de' morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati. Essi, e per sé medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, (e tali furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano. Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de' mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti. Alla gran moltitudine de' corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!

TRASCRIZIONE IN ITALIANO MODERNO

Or dunque dico che eravamo nel 1348, quando nell’egregia città di Firenze, bellissima più di ogni altra città italiana, giunse la peste mortale: la quale, o per qualche congiuntura astrologica o perché mandata agli uomini dalla giusta ira di Dio a correzione delle nostre inique azioni, incominciata alcuni anni prima in Oriente, che fu privato di una innumerevole quantità di viventi, propagandosi da un luogo all’altro, si era miserabilmente diffusa verso l’Occidente. E non valendo contro di essa né senno né umano provvedimento, come fu quello operato da speciali ufficiali di pulire la città dalle molte immondizie, o quello di proibire l’ingresso in città a qualunque infermo e molti altri consigli dati per la salute pubblica, né le umili suppliche fatte più volte in forma di processioni, o come personali preghiere a Dio dalle persone devote, all’incirca all’inizio della primavera dell’anno detto in precedenza essa cominciò a mostrare orribilmente i suoi dolorosi effetti, e in maniera straordinaria. E non come aveva fatto in Oriente, dove a chiunque uscisse del sangue dal naso era segno di morte inevitabile: ma all’inizio del contagio spuntavano sia ai maschi sia alle femmine, o nell’inguine o sotto le ascelle, certi rigonfiamenti, che potevano crescere alcuni quanto una mela di media grossezza, altri quanto un uovo, e pure di più o di meno, che la gente del popolo chiamava gavaccioli (1). E dalle due parti del corpo che abbiamo detto in breve tempo cominciavano i gavaccioli mortiferi a nascere e a crescere in ogni parte: dopo di che tali sintomi si tramutavano in macchie nere o lividi, che comparivano a molti nelle braccia, nelle cosce e in qualsiasi altra parte del corpo, ad alcuni grandi ad altri piccoli ma numerosi. E come il gavacciolo inizialmente era stato indizio certissimo di morte, così lo erano questi a chiunque venissero.
Per curare tali infermità pareva che non valesse e non servisse alcun consiglio medico, né capacità di alcuna medicina: anzi, o che la natura del male non lo consentisse, o che l’ignoranza dei curatori (dei quali, oltre ai medici veri e propri, era cresciuto enormemente il numero, sia maschi sia femmine, i quali non avevano mai avuto alcuna conoscenza medica) non conoscesse le cause e di conseguenza i rimedi adatti, non solamente pochi guarivano, ma al contrario quasi tutti verso il terzo giorno dall’apparire dei sintomi descritti, chi prima e chi dopo e i più senza alcuna febbre o altra complicazione, morivano. E questa pestilenza fu di maggior forza in quanto essa dagli ammalati si propagava ai sani per il semplice vivere assieme, non diversamente da quanto fa il fuoco con le cose secche o unte che gli siano molto vicine. E peggio ancora: perché non solo parlare o stare con gli infermi dava ai sani infermità o causa di morte, ma anche il toccare i panni o qualunque altra cosa fosse stata toccata o adoperata dagli infermi sembrava portare con sé quell’infermità a colui che avesse toccato quella qualunque altra cosa. È spaventoso udire ciò che devo dire: il che, se non fosse stato veduto dagli occhi di molti e dai miei stessi, farei fatica a crederlo, nonché scriverlo, anche se l’avessi udito da persona degna di fede. Dico che fu tale l’efficacia della pestilenza nel propagarsi dall’uno all’altro, che non solamente da uomo a uomo, ma anche, e questo è molto più straordinario, accadde che una cosa appartenuta a un infermo, o a un morto di tale infermità, se toccata da un animale, non solo lo contaminava di tale infermità, ma addirittura lo uccidesse in poco tempo. Della qual cosa io stesso con i miei occhi, come ho detto prima, ho fatto esperienza: essendo stati gettati sulla pubblica via gli stracci d’un pover’uomo morto di peste e imbattendosi in essi due porci, i quali secondo il loro costume presili prima con il muso e strofinatili poi con i denti sulle proprie guance, poco appresso, dopo qualche contorsione, come se avessero preso del veleno, entrambi sopra quegli stracci buttati in strada per loro sventura caddero morti in terra.
Da questi fatti e da altri assai a questi simili o peggiori nacquero in coloro che rimanevano vivi diverse paure e immaginazioni, le quali tendevano tutte a un fine assai crudele, cioè quello di schifare ed evitare gli infermi e le loro cose; e così facendo, ciascuno credeva di non ammalarsi. C’erano alcuni, che erano del parere che il vivere moderatamente evitando ogni cosa superflua avrebbe loro permesso di resistere alla malattia: riunitisi tra loro, vivevano separati da tutti gli altri, radunati e rinchiusi in quelle case in cui non ci fosse alcun malato e si potesse vivere meglio, dimoravano in esse nutrendosi con temperanza di cibi delicatissimi e ottimi vini, fuggendo ogni stravizio, senza farsi raccontare da alcuno e senza voler sentire da fuori alcuna notizia di morti o di infermi, godendo dei suoni e di quei pochi piaceri che riuscivano a procurarsi. Altri, di opinione contraria, affermavano che bere assai e godere e andare in giro cantando e divertirsi e soddisfare ogni appetito che si potesse e ridere di ciò che accadeva e beffarsene fosse la medicina più sicura per tanto male: e così come lo affermavano, lo facevano per quanto potevano, di giorno e di notte, ora andando in una taverna ora in un’altra, bevendo senza freni e senza misura, soprattutto nelle case altrui, solamente che avessero udito che v’erano cose che potevano piacer loro. E potevano farlo facilmente, dato che ciascuno, quasi non dovesse più vivere, aveva messo in abbandono le sue cose, oltre sé stesso: per la qual cosa la maggior parte delle case erano divenute comuni e poteva farne uso lo straniero, solo che vi capitasse, come l’avrebbe fatto il padrone; e nonostante questo proponimento bestiale fuggivano sempre gli infermi per quanto potevano. E in tanta afflizione e miseria della nostra città la reverenda autorità delle leggi, sia quelle divine che quelle umane, era quasi caduta e distrutta tutta per i ministri e gli esecutori di esse, i quali, così come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi, o erano rimasti sprovvisti di dipendenti, cosicché non potevano svolgere alcun ufficio; per la qual cosa a ciascuno era lecito fare ciò che era in grado di fare. Molti altri seguivano, tra le due sopra descritte, una via di mezzo, non limitandosi nelle vivande quanto i primi, né abbondando nel bere e nelle altre dissolutezze quanto i secondi, ma usando le cose a sufficienza secondo gli appetiti e senza chiudersi in casa andavano in giro, portando in mano dei fiori, o erbe odorose e spezie di tipi diversi, annusandole spesso, poiché stimavano che era un’ottima cosa confortare il cervello con quegli odori, essendo che tutta l’aria pareva impregnata e puzzolente per l’odore dei morti e della malattia e delle medicine. Alcuni erano di sentimenti ancora più crudeli, sebbene più sicuri, e dicevano che nessun’altra medicina era migliore contro le pestilenze che il fuggire davanti a loro: e mossi da questi argomenti, non curandosi di niente se non di sé, molti uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i loro luoghi e i loro parenti e le loro cose, cercando la campagna, quella di altre città o almeno quella di Firenze, quasi l’ira di Dio non potesse seguirli per punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza, ma colpisse solo coloro che si trovavano dentro le mura della loro città, pensando che nessuno sarebbe sopravvissuto e fosse giunta per loro l’ultima ora.
E se questi che avevano opinioni diverse non morivano tutti, non per questo tutti sopravvivevano: anzi, molti si ammalavano e ovunque, avendo essi stessi, quand’erano sani, datone l’esempio a coloro che rimanevano sani, languivano abbandonati. Lasciamo stare che un cittadino avesse schifo dell’altro e che nessun vicino avesse cura dell’altro e che i parenti si facessero visita rare volte, se non mai e di lontano: questa tribolazione era entrata nei petti di uomini e donne con tale spavento, che un fratello abbandonava l’altro, e lo zio il nipote, e la sorella il fratello e spesse volte la donna il marito; e, cosa ancor più grave e quasi incredibile, i padri e le madri i figlioli, quasi non fossero loro, schifavano di visitare e servire. Per cui a coloro, ed erano una moltitudine inestimabile, di maschi e di femmine, che si ammalavano, non rimaneva altro sussidio che la carità degli amici (ma questi furono pochi) o l’avarizia di servitori, i quali, attratti da grossi e sconvenienti salari, servivano quantunque non l’avessero mai fatto prima: la maggioranza di essi erano uomini e donne di indole rozza, e i più non pratici a tali servizi, tanto che il loro servizio si limitava a porgere qualcosa che l’infermo chiedesse o a guardarlo morire; e molte volte tale servizio procurava loro un guadagno, ma anche la morte. Dal fatto che gli infermi fossero abbandonati dai vicini, dai parenti e dagli amici e ci fosse scarsità di servitori, si diffuse un’usanza prima di allora quasi mai udita: quella che nessuna donna, quantunque leggiadra o bella o gentile, ammalandosi non si curasse d’avere ai suoi servizi un uomo, di qualunque tipo o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna non lasciasse vedere ogni parte del corpo come avrebbe fatto con un’altra donna, solo che la necessità della sua infermità lo richiedesse; il che, in quelle che guarirono, fu motivo forse di minore onestà, nei giorni che sarebbero seguiti. E oltre a questo ne conseguì la morte di molti che, se fossero stati aiutati, sarebbero rimasti vivi; sta di fatto che, a causa dell’insufficienza di servizi, che gli infermi non poterono avere, e a causa della forza della pestilenza, era tanta in città la moltitudine di quelli che morivano di giorno e di notte, che era incredibile sentirlo dire, nonché a vedersi. Perché, quasi necessariamente, tra coloro che rimanevano vivi nacquero abitudini contrarie a quelle prime dei cittadini.
Era usanza un tempo, così come vediamo ancora oggi, che le donne, parenti o vicine, si radunassero nella casa di un morto e lo piangessero assieme alle parenti più prossime; e che d’altra parte davanti alla casa del morto si radunassero coi parenti stretti i vicini di casa e molti altri cittadini, e, secondo il rango del morto, vi venissero i chierici; e che il morto fosse poi portato, in spalla dai suoi pari, con un funerale di candele e canti, nella chiesa da lui scelta prima di morire. Ma queste usanze, quando la ferocia della pestilenza cominciò a dilagare, scomparvero del tutto o in maggior parte e nuove usanze sopravvennero al loro posto. Per cui, non solo le persone morivano senza avere molte donne attorno, ma ce n’erano molte che trapassavano da questa vita senza alcun testimone: e pochissimi erano coloro ai quali fossero concessi i pianti pietosi e le lacrime amare dei congiunti, anzi, al loro posto, si usavano per molti risa e motti e festeggiare di lieta compagnia; usanza che le donne, dimentiche della pietà femminile, avevano appreso per la propria salute. Ed erano rari coloro i cui corpi fossero accompagnati in chiesa da dieci o dodici dei suoi vicini; e a portare la bara non erano i cari e stimati concittadini del defunto, bensì un insieme di beccamorti di gente plebea (che si facevano chiamare becchini e facevano questo servizio a pagamento); e costoro, con frettolosi passi, conducevano il morto non alla chiesa che egli aveva disposto prima di morire, ma a quella più vicina il più delle volte, dietro a quattro o a sei chierici con pochi ceri e a volte senza alcuno; i quali chierici, con l’aiuto dei detti becchini, senza faticarsi troppo in offici lunghi e solenni, lo mettevano in qualunque sepoltura trovassero libera.
Per gli appartenenti alle classi più basse, e forse in gran parte anche per quelle di mezzo, lo spettacolo era molto più miserevole: in quanto costoro, costretti nelle loro case o da speranza o da povertà, rimanendo tutti vicini, si ammalavano a migliaia ogni giorno e, non avendo alcun servizio o aiuto, quasi senza scampo, morivano tutti. E ce n’erano molti che morivano nella pubblica strada, di giorno e di notte, e molti che, se morivano in casa, facevano capire ai vicini di essere morti prima con la puzza dei loro cadaveri che altrimenti: tutto era pieno di costoro e degli altri che morivano ovunque. Nella maggior parte dei casi i vicini si comportavano allo stesso modo, spinti non meno dalla paura di essere contagiati, che dalla carità verso i deceduti. Essi, da sé stessi o con l’aiuto di alcuni portatori, quando ne trovassero, traevano dalle loro case i corpi dei morti e li deponevano davanti ai loro usci, dove, specialmente di mattina, avrebbero potuto vederli, e in gran numero, coloro che passavano: quindi, fatte venire delle bare, o in mancanza di esse delle tavole, ve li deponevano. E spesso accadde, e non una volta sola, che una bara portasse insieme due o tre cadaveri, la moglie col marito, due o tre fratelli, il padre con il figlio, e altri gruppi di tal genere. E infinite volte accadde che, mentre due preti con una croce ciascuno camminavano davanti, dietro seguissero tre o quattro bare, portate da dei portatori: e mentre i preti credevano di andare a seppellire un morto, in realtà ne avevano sei o otto e talvolta anche di più. E questi morti non erano onorati né da una lacrima, né da un lume, né da un compagno, anzi la cosa era giunta a tal punto, che non ci si curava degli uomini che morivano, più di quanto oggi si farebbe con le capre: perché apparve molto chiaramente che la grandezza dei mali aveva reso accorti e rassegnati anche gli ignoranti, di fronte a quelle disgrazie le quali i piccoli e rari danni del corso naturale delle cose non avevano potuto insegnare neppure ai savi a sopportare con pazienza. Poiché alla moltitudine dei cadaveri, che venivano portati in ogni chiesa ogni giorno e a qualunque ora, non bastava la terra consacrata ove seppellirli, soprattutto se si fosse voluto dare a ciascuno un posto proprio secondo l’antico costume, si cominciò a costruire nei cimiteri delle chiese, dato che ogni parte era occupata, fosse grandissime, nelle quali si mettevano i morti a centinaia: e stipati in esse, come nelle navi si mettono le mercanzie strato su strato, si ricoprivano con poca terra fino a giungere al sommo della fossa.
E per non andare cercando ogni particolare delle miserie passate accadute per la città, dico solo che, se un così nemico tempo corse per quella, non diversamente avvenne nelle campagne. Dove, lasciando stare i castelli, che in piccolo erano simili alla città, nei cascinali isolati e nei campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servitore, per le vie e nei loro campi coltivati e nelle case, indifferentemente di giorno e di notte, non come uomini ma quasi come bestie morivano; per cui essi, divenuti trascurati nei loro costumi come gli abitanti della città, non si curavano più di alcuna loro cosa o faccenda: anzi, tutti, quasi aspettassero la morte, si sforzavano con ogni mezzo non di aiutare i frutti futuri delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quelli presenti. Perciò accadde che i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e gli stessi cani fedelissimi agli uomini, cacciati fuori dalle loro case, se ne andassero come meglio piaceva a loro per i campi, dove i foraggi erano abbandonati, senza essere non dico raccolti ma neppure mietuti; e molti di questi animali, come se fossero forniti di raziocinio, dove essersi ben pasciuti di giorno, se ne tornavano sazi la notte alle loro case senza che un pastore li guidasse.
Che si può dire di più, lasciando stare il contado e ritornando alla città, se non che tanta e tale fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che tra il marzo e il luglio seguente, vuoi per la forza della pestifera infermità, vuoi per il fatto che molti infermi furono mal curati o abbandonati nei loro bisogni per la paura che avevano i sani, oltre centomila esseri umani si stima siano stati privati della vita per certo dentro le mura della città di Firenze, che forse, prima di questo mortale avvenimento, non si sarebbe nemmeno pensato che ci vivessero? O quanti grandi palazzi, quante belle case, quante nobili abitazioni prima piene di famiglie, rimasero vuoti fino al più umile servo! O quante memorabili stirpi, quante enormi eredità, quante famose ricchezze si videro restare senza il debito successore! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, che non altri, ma addirittura Galeno, Ippocrate o Esculapio (2) avrebbero giudicati sanissimi, la mattina desinarono con i loro parenti, compagni e amici, e la sera successiva cenarono con i loro defunti nell’altro mondo!
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(1) Oggi li chiamiamo bubboni
(2) Galeno e Ippocrate furono due famosi medici greci dell’antichità; Esculapio (o Asclepio) è un personaggio della mitologia greca, che si diceva esperto di medicina

La peste nera in una incisione forse ottocentesca



domenica 4 settembre 2016

6 La manifestazione del Primo Maggio - parte seconda (di Maksìm Gorkij)



È il seguito de LA MANIFESTAZIONE DEL PRIMO MAGGIO – prima parte

In fondo alla strada, la madre vedeva una parete grigia di uomini tutti uguali, senza volto, che chiudevano l’ingresso alla piazza.
Sulla spalla di ciascuno luccicava, fredda e sottile, la punta aguzza della baionetta. E da quella parete, immobile e silenziosa, spirava sugli operai una ventata gelida che colpiva il petto della donna e le penetrava nel cuore.
Ella si lanciò in mezzo alla folla, nel punto in cui le persone da lei conosciute che stavano accanto alla bandiera si confondevano con le sconosciute, come se si appoggiassero su di esse. Si trovò stretta, a fianco a fianco, a un uomo alto e rasato che, cieco da un occhio, per guardarla voltò la testa.
«Tu che fai? Chi sei?» le chiese.
«Sono la madre di Pavel Vlassov!» rispose lei, sentendo che le ginocchia cominciavano a tremarle e che il labbro inferiore si abbassava involontariamente.
«Ah!» esclamò l’uomo.
«Compagni!» gridava Pavel «Sempre avanti! non abbiamo altra via!»
Si fece silenzio, un silenzio di attesa. La bandiera si alzò, ondeggiò e, volteggiando come pensosa al di sopra della gente, mosse verso la grigia muraglia di soldati. La madre ebbe un brivido, chiuse gli occhi e mandò un’esclamazione soffocata. Pavel, Andréj, Sàmojlov e Mazin si staccarono, soli, dalla folla.
Ma nell’aria si levò, lenta e trepida, la voce fresca di Fédja Mazin che intonoò:

Voi cadeste vittime…

Gli fecero eco due voci, basse e dolenti come sospiri:

Nella lotta fatale…

La gente si mosse in avanti, camminando a passo cadenzato. E, imperiosa e risoluta, risonò la nuova canzone:

Tutto ciò che potevate
Per essa avete dato…

che si snodava come un nastro lucente dalla voce di Fédja.

Per la libertà…

fecero eco i compagni.
«Ah!» gridò malignamente qualcuno che stava in disparte «Cantano la messa funebre, questi figli di cani!»
«Dàgli, dàgli!» risonò una voce indignata.
La madre si strinse le mani al petto, si voltò indietro e vide che la folla, che prima occupava tutta la strada. Si era fermata esitante e guardava allontanarsi gli uomini con la bandiera. Li seguiva qualche diecina di persone, ma a ogni passo qualcuno si tirava in disparte, come se il terreno in mezzo alla strada fosse incandescente e scottasse i piedi.

Finiranno i soprusi…

profetizzava la canzone di Fédja.

Il popolo risorgerà…

rispondeva, minaccioso e sicuro, un coro di voci possenti.
Ma fra lo scorrere armonioso del canto si udivano voci sommesse:
«Ora dà il comando!»
«Crociatèt!» risonò un grido acuto.
E nell’aria scintillarono serpeggiando le baionette, si abbassarono e si allinearono di fronte alla bandiera. Pareva di scorgere nel loro scintillio un sorriso maligno…

«Ma-arch

«Vengono!» disse l’uomo cieco di un occhio e, cacciandosi le mani in tasca, si tirò in disparte a rapidi passi.
La madre guardava, guardava senza batter ciglio. La grigia onda dei soldati si mosse e, stendendosi per tutta la larghezza della strada, avanzò freddamente, portandosi dinanzi un rado pettine d’acciaio dai denti scintillanti. La madre si avvicinò a grandi passi al figlio e vide che Andréj camminava davanti a Pavel e lo riparava con il suo lungo corpo.
«Cammina di fianco, compagno!» gli gridò bruscamente Pavel.
Andréj cantava con le mani incrociate dietro la schiena e la testa alta. Pavel lo urtò sulla spalla e ripeté:
«Di fianco! Non hai il diritto di camminare davanti alla bandiera!»
«Scioglietevi!» ordinò con voce acuta un ufficialetto, agitando la sciabola lucente. Procedeva alzando molto le gambe e, senza piegare le ginocchia, batteva le suole a terra con aria provocante. Gli occhi della madre furono colpiti dalla lucentezza dei suoi stivali.
Di fianco a lui, ma un po’ indietro, camminava con passo pesante un uomo alto e rasato, dai grossi baffi bianchi, che indossava un lungo soprabito grigio, foderato di rosso, e larghi pantaloni dalle bande gialle. Anch’egli, come l’ucraino, teneva le mani dietro la schiena e fissava Pavel, sollevando le folte sopracciglia.
La madre vedeva una grande quantità di cose, dentro le urgeva un grido represso, pronto a prorompere a ogni sospiro, ma lei lo tratteneva serrandosi il petto con le mani. La spingevano, lei vacillava e andava avanti senza pensare, quasi priva di coscienza. Sentiva che la gente alle sue spalle si faceva sempre meno numerosa; la fredda ondata che avanzava la disperdeva…
Gli uomini della bandiera rossa e la siepe degli uomini grigi si avvicinavano sempre più; si scorgevano chiaramente i visi dei soldati, che formavano una stretta striscia di un giallo sudicio, mostruosamente appiattita per tutta la larghezza della strada, e screziata in maniera disuguale da occhi di diverso colore. Davanti scintillavano crudelmente le punte aguzze delle baionette. Rivolte contro il petto della gente, l’allontanavano senza neppur sfiorarla, e la disperdevano…
La madre udiva alle sue spalle lo scalpiccio di coloro che fuggivano. Voci soffocate e agitate gridavano:
«Scioglietevi, ragazzi!»
«Vlassov, fuggi!»
«Torna indietro, Pavlucha!»
«Butta la bandiera, Pavel!» disse con voce cupa Vessòvščikov «Dammela qui, la nascondo io!»
E afferrò l’asta con la mano; la bandiera ondeggiò all’indietro.
«Lascia!» urlò Pavel.
Nikolàj ritrasse la mano, come se gliel’avessero scottata. La canzone si spense. La gente si fermò, circondando Pavel, ma egli riuscì a farsi strada e ad andare avanti. Si fece un silenzio improvviso, assoluto, come se fosse caduto dall’alto ad avvolgere gli uomini di una nuvola trasparente.
Sotto la bandiera non c’erano più che una ventina di uomini, fermi e decisi, che attraevano a sé la madre, presa da un senso di paura per loro e da un confuso desiderio di dir loro qualcosa…
«Prendetegliela, tenente!» risonò la voce calma del vecchio alto che, con il braccio teso, indicava la bandiera.
L’ufficialetto si slanciò verso Pavel, afferrò l’asta con una mano e gli gridò con voce acuta:
«Lasciala!»
«Giù le mani!» disse forte Pavel.
La bandiera rossa tremò nell’aria, piegandosi a destra e a sinistra, poi, di colpo, si raddrizzò e l’ufficialetto, rimbalzando all’indietro, cadde a terra. Davanti alla madre passò, con insolita rapidità, Nikolàj con il braccio teso e il pugno serrato.
«Arrestateli!» urlò il vecchio, battendo il piede a terra.
Alcuni soldati si slanciarono in avanti. uno di essi agitò il calcio del fucile, la bandiera ebbe un fremito, si piegò da un lato e scomparve in mezzo al grigio gruppo dei soldati.
«Ah!» esclamò qualcuno con voce angosciata.
E la madre lanciò un urlo da belva. Le rispose, levandosi dal gruppo dei soldati, la voce limpida di Pavel:
«Arrivederci, mamma! Arrivederci, cara!»
“È vivo! Ha pensato a me…” gridò due volte, palpitando, il cuore della madre.
«Arrivederci, mammina!»
Sollevandosi sulla punta dei piedi, agitando le braccia, ella cercava di vederli e scorgeva al di sopra delle teste dei soldati il viso rotondo di Andréj che le sorrideva e la salutava…
«Figli miei! Andrjuša… Paša…» gridava la donna.
«Arrivederci, compagni!» salutarono ancora gli arrestati, tra la folla dei soldati.
Un’eco prolungata, rumorosa, fu la risposta. Risonò dalle finestre, da ogni parte, dall’alto dei tetti…

La repressione della rivoluzione russa del 1905 in un dipinto di Mark Beerdom; questo fatto storico può facilmente aver ispirato Maksìm Gorkij per la pagina che hai appena letto









5 La manifestazione del Primo Maggio - parte prima (di Maksìm Gorkij)



La madre che dà il titolo al romanzo da cui è tratto questo brano, è una vedova quarantenne, Pelagéja Nìlovna, che ha un figlio, Pavel, il quale si accosta, sul finire dell’Ottocento nella Russia zarista, al Partito rivoluzionario socialista. Attraverso di lui anche la madre, che dapprima non capisce le idee del figlio e dei suoi amici, comincia a interessarsi e a voler sapere come si può migliorare il mondo, che è quanto vanno dicendo Pavel e i suoi compagni.
Nel brano riportato la madre accompagna il figlio, quando organizza, assieme ai compagni, una manifestazione non autorizzata per il Primo Maggio, festa dei lavoratori.

Quando fu in strada e sentì nell’aria il clamore inquieto, pieno di attesa, di tante voci, quando vide a tutte le finestre e accanto alle porte gruppi di persone che accompagnavano suo figlio e Andréj (1) con sguardi curiosi, cominciò a tremolarle davanti agli occhi una macchia nebbiosa che mutava colore facendosi, ora di un verde trasparente, ora di un grigio opaco.
Tutti li salutavano, e in quei saluti c’era qualcosa di particolare. Il suo orecchio coglieva osservazioni spezzate, fatte a mezza voce:
«Ecco i capi…»
«Noi non sappiamo chi sono i capi…»
«Ma io non detto niente di male!»
In un altro punto, qualcuno gridava irritato:
«La polizia li pescherà tutti… finiranno male!»
«Li pescherà, certo…»
Una voce urlante di donna spaventata rimbalzava da una finestra sulla strada:
«Rifletti a ciò che fai… non sei mica scapolo, tu!»
Quando passarono davanti alla casa di Zosimov, che era senza gambe e riceveva dalla fabbrica un sussidio per la sua invalidità, quello sporse il capo dalla finestra e gridò:
«Paška! Ti torceranno il collo, canaglia, per quello che fai… Aspetta!»
La madre ebbe un sussulto e si fermò. Quel grido aveva suscitato in lei un acuto sentimento di odio. Guardò il viso grosso e gonfio dell’invalido che, imprecando, si ritirò. Allora essa, affrettando il passo, raggiunse il figlio e lo seguì, cercando di non restare indietro.
Pavel e Andréj pareva non si accorgessero di nulla e non udissero le esclamazioni che li accompagnavano. Procedevano tranquilli, senza fretta. Li fermò, a un tratto, Mironov, un uomo anziano e modesto, stimato da tutti per la sua vita sobria e onesta.
«Neppur voi lavorate, Danilo Ivànovic?» chiese Pavel.
«Mia moglie sta per partorire… e in un giorno così agitato…» disse Mironov, fissando i compagni e, a voce bassa, domandò:
«Si dice che voi, ragazzi, volete fare del chiasso al direttore e rompergli i vetri: è vero?»
«Non siamo mica ubriachi!» esclamò Pavel.
«Percorreremo semplicemente le vie con la bandiera e canteremo la nostra canzone!» disse l’ucraino «Prestate orecchio alla canzone: in essa è espressa la nostra fede!»
«La vostra fede la conosco!» rispose Mironov, pensieroso «Ho letto i vostri manifesti. Oh, Nìlovna, vai anche a tu a far la ribelle?» esclamò sorridendo alla madre con i suoi occhi intelligenti.
«Almeno una volta, prima di morire, bisogna andare a passeggio con la verità!»
«Senti, senti!» disse Mironov «Si vede, allora, che è vero ciò che si dice di te: che eri tu che portavi alla fabbrica gli opuscoli proibiti… (2)»
«Chi lo dice?» chiese Pavel.
«Così… si dice. Be’, arrivederci, state in gamba!»
La madre ebbe un lieve sorriso: le faceva piacere che parlassero così di lei. Pavel le disse ridendo:
«Finirai in prigione, mamma!»
Il sole saliva e avvolgeva con il suo calore la freschezza ardita di quella giornata primaverile. Le nuvole si movevano più lente e le loro ombre si facevano più lievi e trasparenti. Scivolavano dolci lungo la via e sui tetti delle case, avvolgevano le persone e parevano ripulire il sobborgo, portando via il sudiciume e la polvere dai muri e dai tetti e la noia dai volti. Ci si sentiva più allegri, le voci risonavano più forti, soffocando il rumore lontano delle macchine in movimento.
Di nuovo, da tutte le parti, dalle finestre e dai cortili, giungevano scivolando agli orecchi della madre parole allarmate e maligne, allegre e preoccupate. Ma ora ella sentiva il desiderio di rispondere, di ringraziare, di spiegare, il desiderio di prender parte alla vita stranamente movimentata di quel giorno.
Dietro l’angolo di una strada, in uno stretto vicolo, si era riunito un gruppo di persone, circa un centinaio, in mezzo alle quali risonava la voce di Vessòvščikov (3).
«Spremono il nostro sangue come il succo di una bacca!» erano le parole goffe che cadevano sulla testa della gente.
«È vero!» risposero varie voci come un sordo rimbombo.
«Fa del suo meglio, poveretto!» disse l’ucraino «Vado ad aiutarlo!»
Si curvò e, prima che Pavel potesse trattenerlo, il suo lungo, agile corpo era penetrato nella folla come un cavatappi in un turacciolo, e già risonava la sua voce:
«Compagni! Dicono che sulla terra vivano popoli differenti: Ebrei e Tedeschi, Inglesi e Tartari. Ma io non ci credo! Esistono solo due popoli, due razze inconciliabili: i ricchi e i poveri! La gente si veste in modo diverso e parla in modo diverso, ma guardate come i ricchi, Tedeschi, Francesi e Inglesi trattano i lavoratori e vedrete che sono tutti loro nemici. Che gli resti una spina in gola, a quella gente!»
Tra la folla qualcuno rise.
«E se guardiamo dall’altro lato, vediamo che gli operai francesi, tartari, turchi, fanno la stessa vita da cani che facciamo noi, operai russi!»
Dalla strada affluiva sempre più gente e, uno dopo l’altro, in silenzio, allungando il collo, sollevandosi in punta di piedi, si pigiavano nel vicolo.
Andréj parlava a voce sempre più alta.
«All’estero gli operai hanno ormai capito questa semplice verità e oggi, nella luminosa giornata del Primo Maggio…»
«La polizia!» gridò qualcuno.
Dalla strada avanzavano verso il vicolo, contro la folla, agitando gli staffili (4), quattro uomini della polizia a cavallo che gridavano:
«Scioglietevi!»
Gli uomini si accigliavano e, controvoglia, facevano largo ai cavalli. Alcuni si arrampicavano sulle palizzate.
«Hanno messo a cavallo dei porci… Senti come grugniscono: “Siamo noi che comandiamo…”» gridava con forza una voce indignata.
L’ucraino si trovò solo in mezzo al vicolo, e due cavalli, scotendo la testa, gli andavano addosso. Egli si gettò da una parte ma, nello stesso momento, la madre, afferrandolo per un braccio, se lo trascinò dietro, brontolando:
«Avevi promesso di restare con Pavel e invece, ecco, ti butti da solo…»
«Scusate!» disse l’ucraino, sorridendo.
Una stanchezza inquieta e spossante si era impadronita della madre. Le saliva dal profondo e le faceva girare la testa, alternando stranamente nel suo cuore gioia e tristezza. Avrebbe voluto che la sirena (5) del mezzogiorno lanciasse il suo urlo.
Si trovarono sulla piazza, di fronte alla chiesa. Là attorno, nel recinto, in parte sedute e in parte in piedi, stavano assiepate almeno cinquecento persone, giovani allegri, donne e bambini. La folla ondeggiava, le teste si sollevavano inquiete e guardavano lontano, in tutte le direzioni, in un’impaziente attesa. Vibrava nell’aria qualcosa di insolito: alcuni si guardavano attorno smarriti, altri si comportavano con ostentata spavalderia. Fioche e abbattute risonavano le voci delle donne; gli uomini voltavano loro le spalle con stizza, qua e là si udivano imprecazioni sommesse. Il rumore sordo di un disaccordo ostile avvolgeva quella folla variopinta.
«Mìtenka!» pregava una tremante voce di donna «Sta’ attento!»
«Lasciami stare!» fu la risposta.
Intanto la voce posata e grave di Sizov diceva, in tono persuasivo:
«No, non dobbiamo abbandonare i giovani! Essi sono più intelligenti di noi e più audaci. Chi ha fatto sentire una voce di protesta per la copeca dello stagno (6)? Loro, i giovani. Non bisogna dimenticarlo. In prigione sono stati trascinati loro e il vantaggio lo hanno avuti tutti gli altri…»
Urlò la sirena e inghiottì con il suo cupo suono le voci umane. La folla ebbe un fremito, quelli che erano seduti si alzarono, per un attimo tutti ammutolirono, attenti, e molti volti impallidirono.
«Compagni!» echeggiò la voce di Pavel, vibrante e decisa. Una nebbia arida e ardente bruciò gli occhi della madre che, con un rapido movimento del corpo che aveva ritrovato la sua forza, si collocò alle spalle del figlio. Tutti si volsero verso Pavel e lo circondarono, come la limatura di ferro circonda la calamita.
La madre lo guardava e non vedeva che i suoi occhi fieri, arditi e fiammeggianti.
«Compagni! Abbiamo deciso di mostrare apertamente chi siamo: oggi leveremo la nostra bandiera, la bandiera della libertà, della ragione, della verità!»
Un’asta bianca e lunga balenò nell’aria, si chinò, tagliò la folla, si nascose in mezzo a essa e, dopo un minuto, al di sopra dei volti sollevati, ondeggiò come un uccello rosso l’ampia tela fiammeggiante della bandiera dei lavoratori.
Pavel sollevò il braccio, l’asta vacillò, ma una diecina di mani l’afferrarono, e fra queste era la mano della madre.
«Evviva i lavoratori!» gridò egli.
Centinaia di voci fecero eco con un fragoroso grido:
«Evviva il partito socialista democratico dei lavoratori, il nostro partito, compagni, la nostra patria spirituale!»
La folla fremeva e, in mezzo a essa, si facevano strada verso la bandiera coloro che ne avevano capito il significato; accanto a Pavel si posero Mazin, Sàmojlov, i due Gussev; a capo basso, urtando la gente, si apriva un varco Nikolàj, e altre persone che la madre non conosceva, giovani dagli occhi ardenti, la spingevano per passare…
«Evviva i lavoratori di tutti i paesi!» gridò Pavel. E, in un crescendo gioioso di forza, gli rispose un’eco di mille voci che, con il loro fragore, squassavano l’anima.
La madre afferrò la mano di Nikolàj e di qualcun altro; ansava per la piena delle lacrime che la soffocavano, ma non piangeva e, con le labbra tremanti, diceva:
«Cari…»
Sul viso butterato (7) di Nikolàj appariva un largo sorriso; egli guardava la bandiera e, mugolando qualcosa, tese verso di essa il braccio; poi, a un tratto, con lo stesso braccio, cinse il collo della madre, la baciò e si mise a ridere.
«Compagni!» gridò l’ucraino, ricoprendo con la sua voce il rombo della folla «Noi andiamo ora in processione nel nome di un Dio nuovo, Dio di luce e di verità, Dio della ragione e del bene. È ancora lontana da noi la nostra meta; vicine sono, invece, le corone di spine. Chi non crede nella forza della verità, chi non ha l’ardire di seguirla fino alla morte, chi non ha fede in se stesso e teme la sofferenza, si allontani da noi! Noi chiamiamo coloro che credono nella nostra vittoria; coloro che questa meta non vedono, non ci seguano, perché li attendono soltanto dolori. In fila, compagni! Viva il Primo Maggio!»
La folla si fece più fitta.
Pavel agitò la bandiera che, spiegandosi nell’aria, ondeggiò in una fiammeggiante risata…

Ripudiamo il vecchio mondo… (8)

intonò Fédja Mazin con la sua voce sonora, e diecine di voci lo seguirono in un’ondata dolce e vigorosa:

E disperdiamo la sua polvere…

La madre, con un sorriso ardente sulle labbra, andava dietro a Mazin e, al di là della sua testa, scorgeva il figlio e la bandiera. Attorno a lei si vedevano volti lieti, occhi scintillanti. Davanti a tutti camminavano suo figlio e Andrèj. Ella udiva le loro voci; quella dolce e morbida dell’ucraino si fondeva in un unico suono concorde con quella profonda e possente del figlio:

In piedi, sollevati, o popolo di lavoratori!
Correte a lottare, fratelli affamati…

Il popolo accorreva incontro alla bandiera rossa, gridava, si univa al corteo, insieme con esso rifaceva la strada, e le sue grida si mescolavano con le note della canzone, di quella canzone che a casa essi cantavano a voce più sommessa delle altre e che ora, nella strada, echeggiava libera, sicura, con la sua terribile forza. Risonava in essa un coraggio ferreo e, mentre indicava agli uomini il lungo cammino verso l’avvenire, onestamente ne prevedeva le difficoltà. Nella sua grande fiamma tranquilla si distruggevano le cupe scorie del passato, il pesante fardello dei sentimenti radicati, e si inceneriva la maledetta paura del nuovo…
Un volto ignoto, dall’espressione gioiosa e spaurita insieme, ondeggiava accanto alla madre, e una voce tremante esclamava fra i singhiozzi:
«Mìtja, dove vai?» La madre, senza fermarsi, disse:
«Lasciatelo andare, non preoccupatevi! Anch’io avevo tanta paura… Il mio è avanti a tutti. Quello che porta la bandiera è mio figlio!»
«Disgraziati! Dove andate? Laggiù ci sono i soldati!»
E, a un tratto, una grossa mano ossuta afferrò quella della madre, e una donna alta e magra esclamò:
«E loro cantano! Anche il mio Mìtja canta…»
«Non preoccupatevi!» mormorò la madre «È un’impresa santa… Pensate: oggi non ci sarebbe nemmeno Cristo se, per amor Suo, non fossero morti tanti uomini…»
Questo pensiero le era balenato improvviso e l’aveva colpita con la sua evidente, semplice verità. Fissò in viso la donna che con forza stringeva ancora la sua mano e ripeté, con un sorriso meravigliato:
«Non ci sarebbe Cristo se tanti uomini non fossero morti per Lui…»
Accanto alla madre comparve Sizov; si levò il berretto e, agitandolo al ritmo del canto, disse:
«Ora vanno avanti sicuri, eh madre! Hanno trovato una bella canzone… che canzone, eh!

Lo zar vuole soldati,
Dategli i vostri figli…

E non hanno paura di nulla!» continuò Sizov «Ah, se mio figlio non fosse nella tomba...»
Il cuore della madre cominciò a battere troppo forte, ed ella dovette fermarsi. Ben presto si trovò spinta da una parte, addossata a un recinto… Una folla di gente le passò davanti, ondeggiando… una folla numerosa che le diede un senso di allegria.

In piedi, sollevati, o popolo di lavoratori!

Pareva che un’enorme tromba di rame squillasse nell’aria e destasse la gente, suscitando nel petto di alcuni la prontezza alla lotta, in altri una gioia indistinta, il presentimento di qualcosa di nuovo, una curiosità ardente, qui accendendo vaghe speranze, là offrendo libero sfogo a un astioso sentimento radicato nel cuore dal passare degli anni. Tutti guardavano in avanti ove ondeggiava nell’aria la bandiera rossa.
«Come marciano uniti!» gridò una voce «Bravi, ragazzi!»
E l’uomo, sentendo evidentemente dentro di sé qualcosa di grande che non riusciva a esprimere con le comuni parole, lanciò una grossa bestemmia. Ma anche la rabbia, la cupa cieca rabbia dello schiavo, sibilava come una serpe, si torceva in oscure parole, esasperata dalla luce che le pioveva addosso.
«Eretici!» gridò qualcuno da una finestra, con voce spezzata, minacciando con il pugno.
Irritanti penetrarono negli orecchi della madre le stridule parole di un altro:
«Contro il sovrano imperatore, contro la maestà dello zar… ribellarsi?»
Davanti a lei passavano volti eccitati, correvano uomini e donne, il popolo avanzava come una lava scura, trascinato da quella canzone che con lo slancio del suo ritmo pareva abbattere tutto dinanzi a sé per aprirsi la strada. Guardando la bandiera rossa ormai lontana, la madre vedeva, senza vederlo, il volto del figlio, la sua fronte color del bronzo e gli occhi ardenti del fuoco della fede.
Ed eccola in coda alla folla, in mezzo a gente che andava senza fretta, guardando con indifferenza davanti a sé, con la fredda curiosità degli spettatori che già in anticipo conoscono la conclusione dello spettacolo. Camminavano e dicevano piano, in tono sicuro: «Un plotone si trova presso la scuola, un altro all’ingresso della fabbrica…»
«È arrivato il governatore…»
«Davvero?»
«L’ho veduto io… è arrivato.»
Qualcuno, imprecando allegramente, osservava: «Si vede che cominciano ad aver paura di noi… I soldati… il governatore…»
“Figli miei!” invocava, palpitando, il cuore della madre.
Ma attorno a lei risonavano parole fredde, senza vita. Affrettò il passo per allontanarsi da quella gente che le fu facile lasciare indietro, data la loro andatura lenta e pigra.
A un tratto, parve che la testa del corteo avesse urtato contro qualcosa; il corpo, senza fermarsi, arretrò con un rumore sordo e allarmante. Anche la canzone ebbe un brivido, un attimo di esitazione… ma subito riprese più rapida e più ardente. Poi, di nuovo, l’onda densa dei suoni si abbassò, si ritrasse… Le voci, una dopo l’altra, uscivano dal coro, e si levavano esclamazioni isolate che cercavano di riportare il canto alle altezze di prima e di spingerlo avanti:

In piedi, sollevato, o popolo di lavoratori…
Correte a lottare, fratelli affamati!

Ma in questo appello non c’era più la ferma, incrollabile sicurezza di prima e già si sentiva vibrare in esso l’incertezza e la trepidazione.
Non vedendo nessuno, non sapendo che cosa accadeva in testa al corteo, la madre si faceva largo tra la folla, spingendosi rapidamente avanti, ma incontrava gente che se ne tornava indietro, alcuni accigliati e a testa bassa, altri con un sorriso imbarazzato, altri ancora fischiettando beffardamente. La madre guardava angosciata quei visi; i suoi occhi interrogavano, pregavano, chiamavano!
«Compagni!» risonò la voce di Pavel «I soldati sono uomini come noi. Essi non ci colpiranno. Perché dovrebbero farlo? Perché noi rechiamo la verità indispensabile a tutti? Anche per loro questa verità è necessaria. Finora non l’hanno capita, ma è vicino il momento in cui si affiancheranno a noi, in cui non marceranno più sotto la bandiera della rapina e dell’assassinio, ma sotto la nostra bandiera, quella della libertà! E, affinché essi comprendano al più presto la nostra verità, noi dobbiamo andare avanti. Avanti compagni! Sempre avanti!»
La voce di Pavel sonava ferma e decisa, le parole vibravano nell’aria limpide e chiare, ma la folla si disperdeva, gli uomini uno dopo l’altro andavano verso le loro case, chi a destra, chi a sinistra, o si appoggiavano alle palizzate. Adesso la folla aveva assunto la forma di un cuneo il cui vertice era Pavel, e sulla cui testa fiammeggiava la bandiera dei lavoratori. Quella folla pareva ora un uccello nero dalle grandi ali aperte e le orecchie tese, pronto a levarsi in volo, e Pavel era il becco…

La narrazione continua nel prossimo post, LA MANIFESTAZIONE DEL PRIMO MAGGIO – seconda parte

(1) È un amico fraterno di Pavel, più oltre indicato come l’ucraino, che è la sua nazionalità
(2) Nelle pagine precedenti la donna aveva effettivamente introdotto di nascosto nella fabbrica del sobborgo degli opuscoli socialisti e li aveva distribuiti agli operai
(3) È uno degli amici di Pavel, ma al momento è ancora insicuro e rozzo nelle sue idee, che vive con esagerata focosità; più avanti è indicato con il nome di Nikolàj
(4) Sferze formate da una lunga striscia di cuoio attaccata a un’impugnatura
(5) La sirena della fabbrica, che segnala i momenti in cui si comincia o si smette il lavoro
(6) La copeca (o copeco) è un centesimo del rublo, la moneta russa. Nelle pagine precedenti il direttore della fabbrica in cui lavora Pavel voleva imporre quella somma a tutti gli operai, per il prosciugamento di una palude nelle vicinanze; Pavel aveva protestato, dicendo che toccava ai padroni della fabbrica pagare quel lavoro, non agli operai che già stentavano a vivere con il loro salario
(7) Ricoperto di piccole cicatrici, lasciate dal vaiolo, o dall’acne, o da altre malattie della pelle
(8) Si tratta di una canzone russa, intitolata “Stavaj podnjimajaja rabòci narod

Poster per la festa dei lavoratori