giovedì 1 settembre 2016

3 Tre chilometri di catene (di Toni Morrison)



Paul D è uno schiavo nero portato a lavorare in un campo della Virginia (uno stato del Sud degli Stati Uniti d’America) nella seconda metà del XIX secolo. Qui imparerà a riconoscere la vita dello schiavo, nelle sue particolarità: le catene ai piedi, le gabbie in cui è costretto a vivere, le strane canzoni che i prigionieri cantano, l’amore/odio per la vita.
Il brano è tratto dal romanzo “Amatissima”, pubblicato nel 1987 da Toni Morrison (scrittrice afroamericana nata nel 1931), che con questo libro vinse il prestigioso premio Pulitzer: nel 1993 la scrittrice statunitense ricevette il Premio Nobel per la letteratura.

Fuori dalla vista di Mister, lontano, sia lodato il Suo nome, dal sogghigno del capo dei galli, Paul D cominciò a tremare. Non all’improvviso e non in modo tale che chiunque se ne sarebbe accorto. Quando girò la testa, per dare un ultimo sguardo a Brother, la girò quel tanto che glielo consentiva la corda che assicurava il suo collo all’assale di un carro e, più avanti, quando gli strinsero il ferro attorno alle caviglie e gli bloccarono anche i polsi con le morse, in lui non si notava il minimo segno di tremore. Non erano passati neanche diciotto giorni quando si trovò davanti i fossati: tremila metri di terra – un metro e mezzo di profondità, un metro e mezzo di larghezza, in cui erano stati sistemati dei cubicoli di legno. Una porta fatta di sbarre che si potevano sollevare su dei cardini, come nelle gabbie, dava su tre pareti e un soffitto fatto di legnami di scarto e di terra rossa. Sessanta centimetri di quella roba sopra la testa, novanta centimetri di trincea scoperta davanti, dove tutto quello che vi strisciava o vi zampettava era bene accetto, caso mai avesse voluto dividere quella chiamata stanza. E ce n’erano altre quarantacinque, così. L’avevano mandato lì dopo che aveva tentato di uccidere Brandwyne, l’uomo al quale era stato venduto dal maestro. Brandwyne lo stava conducendo in Virginia con un convoglio di altri dieci schiavi, passando per il Kentucky. Non sapeva esattamente che cosa lo avesse spinto a farlo – al di fuori di Halle, Sixo, Paul A, Paul F e Mister (1). Ma, quando se ne accorse, il tremore ormai era una realtà.
Eppure nessun altro poteva accorgersene, perché era cominciato dentro. Una specie di vibrazione, prima il petto, poi le scapole. Era come l’incresparsi delle onde, dapprima dolce, poi furioso. Quasi come se più lo portavano a sud, più il suo sangue, rimasto coagulato per vent’anni come uno stagno ghiacciato, cominciasse a sgelarsi, spaccandosi in pezzi i quali, una volta sciolti, non potevano far altro che mettersi a turbinare e a vorticare. A volte sentiva quel tremito alle gambe. Poi si spostava nuovamente al fondo della spina dorsale. Quando infine lo staccarono dal carro e non vide altro se non i cani e due baracche in un mare d’erba sfrigolante, il sangue turbolento lo scuoteva tutto. Però, nessuno avrebbe potuto dirlo. Quando aveva teso i polsi, quella sera, per farsi mettere le manette, erano fermi, così come lo erano le gambe su cui si reggeva quando gli avevano messo le catene ai ferri. Però, quando lo spinsero nel cubicolo e lasciarono scivolar giù la porta della gabbia, le mani cessarono di prendere ordini. Si muovevano per conto loro. Niente poteva fermarle o attirare la loro attenzione. Non tenevano fermo il pene quando doveva urinare, né il cucchiaio quando doveva affondarlo nelle fave e mettersi in bocca quei grumi informi. Poi al mattino, con il martello, come per miracolo le mani tornavano a obbedirgli.
Tutti e quarantasei gli uomini si svegliavano allo sparo del fucile. Tutti e quarantasei. Tre bianchi camminavano lungo il fossato e aprivano le porte una a una. Nessuno usciva. Quando anche l’ultima porta era stata aperta, i tre tornavano indietro e alzavano le sbarre, a una a una – e a uno a uno riemergevano anche i neri – prontamente e senza lo stimolo del calcio del fucile se erano lì da più di un giorno – prontamente, e con il calcio del fucile se, come Paul D, erano appena arrivati. Quando tutti e quarantasei erano allineati nel fossato, un altro colpo di fucile segnalava il momento di arrampicarsi fuori, verso il terreno in alto, dove si allungavano tre chilometri delle migliori catene forgiate a mano di tutta la Georgia. Gli uomini si chinavano e aspettavano. Il primo sollevava l’estremità della catena e la faceva passare nel gancio del ferro che aveva alla gamba. Quindi si alzava e, strascicando un po’ i piedi, porgeva l’estremità della catena al prigioniero successivo, il quale ripeteva la stessa operazione. Mentre si facevano passare la catena e ognuno prendeva il posto dell’altro, la fila degli uomini si voltava dall’altra parte, verso i cubicoli da cui erano appena usciti. Nessuno parlava. Almeno, non con le parole. Erano gli occhi a dire quel che c’era di dire. «Aiutami, stamattina va male», «Posso farcela», «Sono nuovo di qua», «Calmati, adesso, calmati».
Dopo essersi incatenati, si inginocchiavano. Alla rugiada, a quel punto, si era con ogni probabilità sostituita la foschia. Densa, a volte, e se i cani stavano in silenzio e respiravano soltanto, si potevano sentire le colombe. […] (2)
«Eeehi!»
Era il primo suono, a parte «Sì, signore», che un nero aveva il permesso di pronunciare ogni mattina, e l’uomo che apriva la catena ce la metteva tutta. «Eeehi!» Non fu mai chiaro a Paul D come facesse a sapere quand’era ora di implorare pietà con quel grido. L’avevano soprannominato Ehi e, all’inizio, Paul D aveva creduto che fossero le guardie a dirgli di dare il segnale, affinché i prigionieri in ginocchio si tirassero su per ballare il passo doppio, al suono del ferro forgiato a mano. Poi cominciò ad avere dei dubbi. Tuttora credeva che l’«Eeehi!» all’alba e l’«Oheee!» al calar della sera fossero una responsabilità che Ehi si assumeva, perché lui solo sapeva quando era abbastanza, quando era troppo, quando era finita, quando era ora.
Raggiungevano i campi ballonzolando incatenati, attraversando il bosco fino a un sentiero che si apriva nella bellezza sorprendente del feldspato (3). E lì le mani di Paul D disobbedivano al tumultuare furioso del sangue e gli prestavano attenzione. Con il martello da fabbro in mano, seguendo la guida di Ehi, gli uomini arrivavano a destinazione. Cantavano a squarciagola e pestavano con forza, storpiando le parole in modo da renderle incomprensibili, giocando con le parole in modo da produrre nuovi significati con le loro sillabe. Cantavano le donne che conoscevano, i bambini che loro stessi erano stati un tempo, gli animali che avevano addomesticato personalmente o che avevano visto addomesticare. Cantavano i capi, i padroni e le padrone, i muli, i cani e l’impudenza della vita. Cantavano con sentimento i cimiteri e le sorelle scomparse da tempo. O il cinghiale nei boschi, il pranzo nella pentola, il pesce all’amo, il bastone, la pioggia e le sedie a dondolo.
E pestavano. Le donne, per averle conosciute e poi basta, i bambini che loro stessi erano stati un tempo, e poi mai più. Uccidevano (4) i capi talmente spesso e talmente bene che poi erano obbligati a riportarli in vita per poterli ridurre in poltiglia un’altra volta. Assaggiando le frittelle calde tra i pini, le pestavano fino a distruggerle. Cantando delle canzoni d’amore alla Morte, le fracassavano la testa. Più che altro uccidevano quella infatuazione che la gente chiamava Vita, perché li incoraggiava a continuare. Perché faceva loro credere che l’alba del giorno dopo valesse la pena, che un altro lasso di tempo finalmente avrebbe risolto qualcosa. In realtà, sarebbero stati sicuri solo quando fosse morta. Quelli che l’avevano avuta vinta – quelli che erano stati lì un numero d’anni sufficiente a paralizzarla, a mutilarla, forse anche a seppellirla – vegliavano sugli altri che ancora erano intrappolati nel suo abbraccio provocante, che avevano dei sentimenti e delle attese, che ricordavano a guardavano al passato. Erano quelli i cui occhi dicevano: Aiutami, oggi va male, oppure: Sta’ a vedere, il che voleva dire forse questo è il giorno che mi metto a urlare, o che mi mangio il mio vomito, o che me la batto, ed era soprattutto da quest’ultima cosa che bisognava guardarsi, perché se uno prendeva e scappava – tutti, tutti e quarantasei, sarebbero stati strattonati dalla catena che li univa, e non si poteva sapere quanti di loro sarebbero stati uccisi. Un uomo poteva rischiare la propria vita, ma non quella di un suo fratello. Così gli occhi dicevano: «Calmati adesso», oppure: «Sta’ vicino a me».
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(1) Sono altri schiavi come Paul D
(2) Nella parte eliminata, gli schiavi sono vittime di atroci violenze
(3) Si tratta di un minerale che gli schiavi devono estrarre dalla roccia
(4) Metaforicamente, nelle canzoni

Punizione di uno schiavo in un disegno d’epoca



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