domenica 11 settembre 2016

8 Ricordi d'infanzia (di Elias Canetti)



L’autobiografia di Canetti incomincia con il primo dei suoi ricordi. E continua con altri episodi, che, al bambino che li ha vissuti, appaiono straordinari e molto più forti di quanto non sembri all’adulto che li ricorda; ma l’impressione infantile è indelebile e di solito quella più vera.

Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: «Mostrami la lingua!». Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: «Adesso gli tagliamo la lingua». Io non oso ritirarla, l’uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All’ultimo momento ritira la lama e dice: «Oggi no, domani». Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca.
Ogni mattina usciamo dalla porta che dà sul rosso pianerottolo e subito compare l’uomo sorridente che esce dall’altra porta. So benissimo che cosa dirà e aspetto il suo ordine di mostrare la lingua. So che me la taglierà e il mio timore aumenta sempre più. Così comincia la giornata, e la cosa si ripete molte volte.
Me la tengo per me e solo molto tempo dopo interrogo mia madre. Da tutto quel rosso lei riconosce la pensione di Karlsbad (1) dove aveva trascorso l’estate del 1907 con mio padre e con me. Per il bambino di due anni si erano portati dalla Bulgaria una bambinaia che aveva a malapena quindici anni. La ragazza ha l’abitudine di uscire con il bambino di prima mattina, parla soltanto bulgaro, eppure passeggia disinvolta nelle vie animate di Karlsbad, e ritorna sempre puntualmente con il piccino. Un giorno qualcuno la vede per strada con un giovanotto sconosciuto, lei non sa dire nulla di lui, spiega che l’ha conosciuto per caso. Dopo alcune settimane salta fuori che il giovanotto abita proprio nella camera di fronte a noi, sul lato opposto del pianerottolo. Qualche volta, di notte, la ragazza s’infila ratta nella sua stanza. I miei genitori, che si sentono responsabili per lei, la rimandano immediatamente in Bulgaria.
Entrambi, la ragazza e il giovanotto avevano l’abitudine di uscire il mattino molto presto, e devono essersi conosciuti in questo modo, così dev’essere cominciata fra loro. La minaccia di quel coltellino è stata efficace, il bambino ha taciuto la cosa per dieci anni.
[…]
Solo il lato più breve della nostra casa si affacciava sul cortile a giardino; la costruzione però si estendeva parecchio verso il retro, e sebbene non avesse che il pianterreno, la ricordo come una casa molto spaziosa. Partendo dall’estremità del cortile, si poteva fare il giro della casa seguendone il lato più lungo e allora si capitava dietro, in un cortiletto più piccolo, sul quale si affacciava la cucina. Lì c’era la legna da tagliare, oche e galline razzolavano intorno e nella cucina aperta c’era sempre movimento, la cuoca portava fuori utensili o li riportava dentro, e la mezza dozzina di ragazzine (2) le saltavano intorno indaffarate.
Nel cortiletto della cucina c’era spesso un servitore che tagliava la legna, di lui mi ricordo benissimo, era il mio amico, l’armeno triste. Mentre tagliava la legna cantava canzoni che io naturalmente non capivo, e che però mi dilaniavano il cuore. Quando domandai alla mamma perché fosse tanto triste, lei mi raccontò che a Istanbul gente cattiva aveva voluto uccidere tutti gli armeni e l’uomo vi aveva perduto l’intera famiglia (3). Da un nascondiglio aveva persino visto trucidare sua sorella. Poi era riuscito a fuggire in Bulgaria, e mio padre, per compassione, lo aveva preso in casa. Ora, quando tagliava la legna pensava sempre alla sua sorellina e per questo cantava canzoni tanto tristi.
Concepii per quest’uomo un profondo amore. Quando tagliava la legna, mi mettevo sul sofà all’estremità del lungo salone la cui finestra dava sul cortile della cucina. Poi mi sporgevo dalla finestra e lo guardavo, e quando cantava io pensavo alla sua sorellina – da allora desiderai sempre una sorellina. L’uomo aveva dei lunghi baffi neri e capelli neri come la pece, e mi pareva molto alto, forse perché lo vedevo quando sollevava in alto il braccio che teneva la scure. Gli volevo ancora più bene che a Tschelebon, l’impiegato del negozio (4), che del resto vedevo molto di rado. Ci scambiavamo anche alcune parole, poche però, e non so più in quale lingua. Ma lui aspettava me, prima di cominciare a tagliare la legna. Non appena mi vedeva, faceva un breve sorriso e sollevava la scure, ma era terribile la collera con cui la lasciava ricadere sul ciocco. Allora si incupiva tutto e si metteva a cantare le sue canzoni. Quando riponeva la scure, mi sorrideva di nuovo, e io aspettavo quel suo sorriso come lui, il primo profugo della mia vita, aspettava me.

Ogni venerdì arrivavano gli zingari. Il venerdì nelle case ebraiche era dedicato ai preparativi per il sabato. La casa veniva ripulita da cima a fondo, le ragazzine bulgare correvano avanti e indietro come razzi, in cucina tutti si davano un gran daffare e nessuno aveva tempo di occuparsi di me. Così ero completamente solo e aspettavo gli zingari, la faccia premuta contro la vetrata che dal grande salone dava sul giardino. Vivevo in un terrore panico (5) degli zingari. Suppongo che fossero state le ragazze a raccontarmi di loro nelle lunghe serate che passavamo al buio sul sofà. Io pensavo che rubassero i bambini ed ero convinto che avessero messo gli occhi su di me.
Ma nonostante questa tremenda paura, mai mi sarei lasciato sfuggire lo spettacolo della loro visita, che era davvero splendido. Il cancello veniva spalancato perché loro avevano bisogno di spazio. Arrivavano come una vera tribù, nel mezzo, a testa alta, il patriarca cieco, il bisnonno, mi fu detto, un bellissimo vecchio dai capelli candidi che camminava molto lentamente, sostenuto a destra e a sinistra da due nipoti adulte, vestite di stracci multicolori. Intorno a lui, pigiandosi gli uni contro gli altri, zingari di ogni età, pochissimi uomini, quasi tutte donne e innumerevoli bambini, i più piccini in braccio alle madri, altri che saltavano intorno senza però allontanarsi molto da quel superbo vegliardo che restava sempre al centro del gruppo. Il corteo, folto e denso com’era, aveva qualcosa di inquietante, tanta gente che avanzava compatta tutta insieme non l’avevo mai vista da nessuna parte: ed era davvero lo spettacolo più variopinto che si potesse osservare in quella città, pur così variopinta. I pezzi di stracci di cui era fatto il loro vestiario erano smaglianti di mille colori, ma sopra ogni altro era sempre il rosso che spiccava. Dalle spalle di molti di loro pendevano dei sacchi, ed io, guardandoli, non riuscivo a fare a meno di immaginare che contenessero i bambini rubati.
A me quegli zingari sembravano allora un’infinità, ma se ora cerco di farmi un’idea del loro numero in base all’immagine che me ne è rimasta, sono propenso a credere che non fossero più di trenta o quaranta persone. D’altro canto, tante persone tutte insieme nel nostro grande cortile non le vedevo mai, e poiché a causa del vegliardo venivano avanti con grande lentezza, il cortile rimaneva pieno per un tempo che a me pareva infinitamente lungo. Ma non si fermavano nel cortile, giravano intorno alla casa fino a raggiungere il cortiletto della cucina in cui era accatastata la legna e lì poi si mettevano a sedere.
Io ero solito aspettare il momento in cui comparivano davanti al cancello e, non appena avvistato il vecchio cieco, mi mettevo a correre urlando con voce stridula «Zinganas! Zinganas!» per tutto il lungo salone e l’ancor più lungo corridoio che lo collegava con la cucina, nella parte posteriore della casa. Là c’era la mamma che dava istruzioni su quel che bisognava cucinare per il sabato e preparava lei stessa alcuni speciali leccornie. Le ragazzine bulgare che incontravo a ogni momento sui miei passi non le vedevo neppure, e continuavo a strillare fino a quando non mi trovavo accanto alla mamma, che con le sue parole riusciva a tranquillizzarmi. Ma invece di rimanere accanto a lei, ritornavo indietro di corsa, gettavo un’occhiata dalla finestra all’avanzare degli zingari, che nel frattempo erano già un po’ più vicini, e subito andavo a darne notizia in cucina. Li volevo vedere, ero preso dalla smania di vederli, ma non appena li avvistavo, subito mi riprendeva la paura che avessero messo gli occhi su di me e urlando me ne scappavo via. Così continuavo per un po’, andando avanti e indietro, e credo che proprio questo mi abbia lasciato un’impressione così forte della lunghezza fra i due cortili.
Non appena erano arrivati alla meta, davanti alla cucina, il vecchio si metteva a sedere e gli altri si raggruppavano intorno a lui; venivano aperti i sacchi e le donne, senza bisticciarsi, prendevano i doni. Dalla catasta di legna venivano loro offerti grossi ceppi, ai quali parevano tenere in maniera particolare; e il cibo che ricevevano era vario e abbondante. Avevano la loro parte di tutto quello che si stava preparando in cucina, non venivano certo nutriti con gli avanzi. Io provavo un gran sollievo quando vedevo che nei sacchi non avevano bambini e, sotto la protezione della mamma, passavo in mezzo a loro, me li guardavo ben bene, stando attento però a non avvicinarmi troppo alle donne che mi volevano accarezzare. Il vecchio cieco mangiava lentamente dalla sua ciotola, si riposava, se la prendeva comoda. Gli altri invece non toccavano cibo, tutto quello che ricevevano scompariva nei grandi sacchi, e solo i bambini avevano il permesso di sgranocchiare i dolciumi che gli erano stati regalati. Io ero stupito di quanto fossero affettuosi con i loro bambini, non avevano per nulla l’aria di rapitori di bambini. Questo però non serviva a mitigare il terrore che mi incutevano. Dopo un certo tempo, che mi pareva lunghissimo, si rimettevano in moto, il corteo si snodava ora un po’ più veloce che all’arrivo intorno alla casa e attraverso il cortile. Io li stavo a guardare dalla finestra mentre scomparivano oltre il cancello. Poi correvo un’ultima volta in cucina e annunciavo: «Gli zingari se ne sono andati»; il nostro servitore mi prendeva allora per mano, mi conduceva fino al cancello e richiudendolo diceva: «Adesso non torneranno». Di solito il cancello rimaneva aperto di giorno, ma in quei venerdì lo si chiudeva, così se un’altra carovana di zingari arrivava a seguito della prima, capiva che la loro gente era già stata lì, e procedeva oltre.
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(1) Karlovy Vary, oggi nella Repubblica Ceca
(2) sono le giovani domestiche bulgare che lavorano in casa
(3) si tratta dei fatti repressivi che colpirono gli armeni nel 1909, ancora prima di quello che viene chiamato “genocidio armeno” e che ebbe luogo tra il 1915 e il 1916
(4) la famiglia Canetti possedeva un negozio a Rustschuck di coloniali, ossia prodotti provenienti da paesi lontani che furono colonie europee
(5) assoluto, incontrollabile, causato secondo la mitologia antica dalla presenza del dio Pan

Una foto del 1909 sul massacro di armeni perpetrato ad Adana da parte dei Giovani Turchi

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