domenica 25 febbraio 2018

167 Posate e pistole (di Philip Roth)



Ira Ringold è un simpatizzante comunista nell’America degli anni Quaranta-Cinquanta; dopo aver fatto diversi umili lavori, diventa la star di un programma radiofonico, col nome di Iron Rinn e il soprannome di “Uomo di Ferro”. Divenuto amico di Nathan Zuckermann, più giovane di lui di vent’anni, un giorno lo porta con sé, quand’è ancora adolescente, a casa di un suo ex commilitone che, durante la guerra, aveva come lui idee di sinistra. Troverà però un uomo profondamente cambiato e la visita si risolverà in un drammatico litigio.
Il brano (tratto da “Ho sposato un comunista”, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Vincenzo Mantovani) descrive molto bene, secondo me, non solo le differenze tra comunisti e capitalisti negli anni in cui è ambientato il romanzo, ma anche quelle attuali, tra chi negli Usa vota Trump e in Europa la destra più conservatrice, e coloro che credono ancora nella favola della fratellanza umana (con l’unica differenza che oggi quasi nessuno si definisce ancora comunista).

Sulle pagine dei notes marrone che Ira aveva portato dalla guerra, sparsi tra le sue osservazioni e le professioni di fede, c’erano i nomi e gli indirizzi di quasi tutti i militari che la pensavano come lui incontrati sotto le armi. Aveva cominciato a cercare questi uomini, spedendo lettere in tutto il paese e visitando quelli che abitavano a New York e nel New Jersey. Un giorno facemmo una puntata nei sobborghi di Maplewood, a ovest di Newark, per andare a trovare l’ex sergente Erwin Goldstine, che in Iran era stato di sinistra come Johnny O’Day, - «un marxista ottimamente sviluppato», lo definiva Ira - ma che, tornato a casa, scoprimmo, aveva sposato la figlia del proprietario di una fabbrica di materassi di Newark e ora, padre di tre bambini, era diventato un aderente a tutto ciò che un tempo aveva contrastato. Della Taft-Hartley, delle relazioni razziali, dei controlli dei prezzi, Goldstine non volle neanche discutere con Ira. Rideva e basta.
Moglie e figli erano via per il pomeriggio, dai parenti della donna, e noi ci sedemmo in cucina a bere acqua di selz mentre Goldstine, un ometto ben piantato con l’aria altezzosa e saccente di un imbroglione da marciapiede, rideva e si burlava di tutto ciò che Ira diceva. La sua spiegazione per il voltafaccia? - Ero un povero ignorante. Non sapevo quello che dicevo -. A me Goldstine raccomandò: - Ragazzo, non ascoltarlo. Tu vivi in America. È il più grande paese del mondo ed è il più grande sistema del mondo. Certo, c’è chi fa una vita di merda. Perché, credi che nell’Unione Sovietica non facciano una vita di merda? Lui ti dice che il capitalismo è un sistema dove cane mangia cane. Cos’è la vita se non un sistema dove cane mangia cane? È un sistema in sintonia con la vita. Ed è proprio per questo che funziona. Guarda, tutto quello che i comunisti dicono del capitalismo è vero, e tutto quello che i capitalisti dicono del comunismo è vero. La differenza è che il nostro sistema funziona perché si basa su quella verità che è l’egoismo della gente, e il loro non funziona perché si basa su quella favola che è la fratellanza. È una favola così fantastica che, per costringere la gente a crederci, hanno dovuto prenderla e spedirla in Siberia. Per costringere la gente a credere alla loro fratellanza, hanno dovuto controllarne ogni pensiero o fucilarli. E intanto in America, in Europa, i comunisti continuano a raccontare questa favola anche quando sanno qual è la verità. Certo, per qualche tempo tu non la conosci. Ma cos’è che non conosci? Conosci gli esseri umani. E allora sai tutto. Sai che questa favola è impossibile. Se sei molto giovane, immagino sia okay. Venti, ventuno, ventidue anni, okay. Ma dopo? Non c’è ragione per cui una persona d’intelligenza media possa ascoltare questa storia, questa favola del comunismo, e crederci. «Faremo cose meravigliose…» Ma noi sappiamo cos’è nostro fratello, no? È una merda. E sappiamo cos’è il nostro amico, no? È una mezza merda. E anche noi siamo mezze merde. Dunque, come possiamo fare cose meravigliose? Non si tratta nemmeno di cinismo, né di scettiscismo, sono i semplici poteri di osservazione che ha l’uomo a dirci che non è possibile.
- Vuoi venire nella mia fabbrica capitalista a veder produrre un materasso nel modo in cui un capitalista produce un materasso? Vieni, e ti faccio parlare con dei veri lavoratori, il tuo amico, qui, è un divo della radio. Tu non stai parlando con un lavoratore, stai parlando con un divo della radio. Su, Ira, tu sei una star come Jack Benny: cosa diavolo sai, tu, del lavoro? Questo ragazzo venga nella mia fabbrica e vedrà come produciamo un materasso, vedrà la cura che ci mettiamo, vedrà come mi tocca di sorvegliare passo passo l’intera operazione se voglio che non me lo mandino in malora, il mio materasso. Vedrà cosa significa essere il malvagio proprietario dei mezzi di produzione. Significa farsi un culo così ventiquattr’ore al giorno. Gli operai vanno a casa alle cinque, io no. Io sono lì ogni sera fino a mezzanotte. Torno a casa e non dormo perché mentalmente faccio i conti e poi sono ancora lì alle sei del mattino per aprire lo stabilimento. Non farti riempire di idee comuniste da lui, ragazzo. Sono tutte balle. Fa’ soldi. I soldi non sono una balla. I soldi sono il modo democratico di segnare punti. Fa’ soldi; poi, se proprio non puoi farne a meno, predica pure la fratellanza umana.
Ira si adagiò contro la spalliera, alzò le braccia in modo da intrecciare le dita delle mani sulla nuca e, senza nascondere il suo disprezzo, disse (non al nostro ospite ma, per provocarlo al massimo, a me): - Sai qual è una delle sensazioni più belle della vita? Forse la migliore? Non avere paura. L’idiota mercenario nella casa del quale ci troviamo… Sai qual è la sua storia? Ha paura. Ecco la semplice realtà. Durante la seconda guerra mondiale Erwin Goldstine non aveva paura. Ma ora la guerra è finita, e Erwin Goldstine ha paura di sua moglie, paura di suo suocero, paura che gli scadano le cambiali… Ha paura di tutto. Tu guardi con i tuoi occhioni spalancati nella vetrina del capitalismo, e vuoi sempre più cose, arraffi sempre più cose, prendi sempre più cose, raccogli e possiedi e accumuli, ed ecco la fine delle tue convinzioni e l’inizio delle tue paure. Non c’è nulla di ciò che possiedo alla quale io non possa rinunciare. Capisci? Non c’è nulla sulla mia strada alla quale io sia legato mani e piedi come un mercenario. Come abbia mai fatto, dalla casa miserabile di mio padre in Factory Street, a diventare questo personaggio di Iron Rinn, come Ira Ringold, con un anno e mezzo di ginnasio alle spalle, abbia potuto incontrare le persone che incontro e conoscere la gente che conosco e avere le comodità che ho adesso come iscritto tesserato alla classe privilegiata, è tutto talmente incredibile che perdere ogni cosa da un giorno all’altro non mi sembrerebbe strano. Capisci? Mi capisci? Posso sempre tornare nel Midwest. Posso lavorare in fabbrica. E, se devo farlo, lo farò. Tutto tranne diventare un coniglio come questo signore. Ecco cosa sei, adesso, politicamente, - disse, guardando finalmente Goldstine, - non un uomo ma un coniglio, un coniglio che non conta nulla.
- Stronzo in Iran e stronzo ancor oggi, Uomo di ferro -. Poi, tornando a rivolgersi a me (io ero la cassa armonica, la spalla, la miccia della bomba), Goldstine disse: - Nessuno ha mai potuto ascoltare quello che dice. Nessuno ha mai potuto prenderlo sul serio. Quest’uomo è una barzelletta. Non è capace di usare la testa. Non è mai stato capace. Non sa niente, non vede niente, non impara niente. I comunisti si procurano un pupazzo come Ira e lo usano. Il genere umano al colmo della stupidità non può diventare più stupido di così -. Poi, rivolto a Ira, disse: - Esci dalla mia casa, deficiente d’un rompicoglioni comunista.
Il cuore mi batteva già furiosamente prima ancora che io vedessi la pistola che Goldstine aveva preso dal cassetto di un credenzino della cucina, dal cassetto alle sue spalle dov’era riposta l’argenteria. Non avevo mai visto una pistola da vicino, tranne che, ben chiusa nella fondina, sull’anca di un poliziotto di Newark. Non era perché Goldstine era piccolo che la pistola sembrava grande. Era veramente grande, inverosimilmente grande, nera e ben fatta, ben modellata, ben lavorata: gravida di possibilità.
Sebbene fosse in piedi e puntasse la pistola alla fronte di Ira, anche in piedi Goldstine non era molto più alto di Ira seduto.
- Ho paura di te, Ira, - gli disse Goldstine. - Ho sempre avuto paura di te. Tu sei un selvaggio, Ira. Non aspetterò che tu mi faccia quello che hai fatto a Butts. Ti ricordi di Butts? Ti ricordi del piccolo Butts? Alzati e vattene, Uomo di Ferro. E portati via il Piccolo Leccaculo. Leccaculo, l’Uomo di Ferro non ti ha mai parlato di Butts? - mi disse Goldstine. - Ha cercato di ucciderlo, Butts. Ha cercato di farlo affogare. L’ha trascinato fuori dalla mensa… Non hai parlato al ragazzo, Ira, di te in Iran, delle tue sfuriate e delle tue arrabbiature? Un ragazzo di cinquanta chili attacca l’Uomo di Ferro col coltello del vassoio della mensa, un’arma molto pericolosa, capisci, e l’Uomo di Ferro lo solleva, lo porta fuori della mensa e lo trascina fino al porto, e lo tiene sopra l’acqua a testa in giù, e dice: «Nuota, grullo». Butts piange: «No, no. Non so nuotare», e l’Uomo di Ferro dice: «Non sai nuotare?» e lo molla dentro. A capofitto nello Shaṭṭ-al-‘Arab da una banchina del porto. Un fiume profondo almeno dieci metri. Butts affonda. Allora Ira si volta e ci grida: «Lasciate stare quel bastardo d’un bifolco! Via di qui! Nessuno si avvicini all’acqua!» «Sta affogando, Uomo di Ferro». «Che affoghi, - dice Ira, - state indietro! So quello che faccio! Vada pure a fondo!» Qualcuno si getta in acqua per cercar di raggiungere Butts, e allora Ira si tuffa dopo di lui, gli piomba dritto addosso, e comincia a pestare con i pugni sulla testa di questo tizio e a cercare di cavargli gli occhi e di tenere sotto lui. Non avevi parlato al ragazzo di Butts? Come mai? Non gli hai detto neanche di Garwych? Di Solak? Di Becker? (1) Alzati. Alzati e vattene, pazzo assassino squilibrato del cazzo.
Ma Ira non si mosse. A parte gli occhi. I suoi occhi parevano uccelli che volessero volargli via dalla faccia. Ammiccavano e si contraevano come non avevo mai visto prima, mentre il corpo di Ira, da capo a piedi, pareva ossificato, e mostrava una tensione terrificante come il palpito dei suoi occhi.
- No, Erwin, - disse, - non con una pistola puntata sul viso. Hai solo due modi per farmi uscire: tirare il grilletto o chiamare la polizia.
Non avrei saputo dire quale dei due era più spaventoso. Perché Ira non faceva quello che voleva Goldstine? Perché non ci alzavamo per andarcene, noi due? Chi era più insensato, il fabbricante di materassi con la pistola carica o il gigante che lo sfidava a sparare? Che stava succedendo in quella casa? Eravamo in una cucina soleggiata di Maplewood, New Jersey, a bere Royal Crown dalla bottiglia. Eravamo tutti ebrei. Ira era venuto a salutare un ex commilitone. Cos’aveva questa gente che non andava?
Fu quando io cominciai a tremare che Ira smise di sembrare deformato dai pensieri irrazionali che dovevano passargli per la testa. Seduto davanti a me, notò che i miei denti battevano per conto loro, che le mie mani tremavano incontrollabilmente da sole, e tornò in sé e si alzò lentamente dalla sedia. Mise le mani sopra la testa come fanno i clienti nelle banche quando i rapinatori gridano «Questa è una rapina!»
- Finito tutto, Nathan. Incontro sospeso per sopravvenuta oscurità -. Ma malgrado il tono bonaccione in cui era riuscito a dirlo, malgrado la capitolazione che era implicita nelle braccia beffardamente alzate, mentre uscivamo dalla casa attraverso la porta della cucina e lungo il vialetto ci avviavamo alla macchina di Murray, Goldstine continuò a seguirci, con la pistola ad appena qualche centimetro dal cranio di Ira.
In una specie di trance, Ira guidò la macchina attraverso le strade tranquille di Maplewood, passando davanti a tutte le belle case unifamiliari dove abitavano gli ebrei di Newark che negli ultimi tempi avevano comprato la loro prima casa, il loro primo prato e la loro prima iscrizione a un country club. Non il tipo di persone o il tipo di quartiere dove ti aspetteresti di trovare una pistola nel cassetto delle posate.
Solo quando attraversammo la linea ferroviaria di Irvington, e stavamo per entrare a Newark, Ira si voltò e chiese: - Stai bene?
Ero al colmo dell’infelicità, anche se meno atterrito, adesso, che umiliato e pieno di vergogna. Schiarendomi la gola per avere la certezza di parlare con voce ferma, dissi: - Mi sono pisciato nei calzoni.
- Davvero?
- Credevo che volesse ammazzarti.
- Sei stato coraggioso. Sei stato molto coraggioso. Sei stato in gamba.
- Mentre camminavo lungo il vialetto, mi sono pisciato nei calzoni! – dissi rabbiosamente. – Maledizione! Merda!
- È colpa mia. Tutta questa storia. Non dovevo portarti da quell’idiota. Puntare una pistola! Una pistola!
-Perché l’ha fatto?
- Butts non è affogato, - disse Ira all’improvviso. – Non è affogato nessuno. Non sarebbe affogato nessuno.
- L’avevi buttato dentro tu?
- Certo. Certo che l’avevo buttato dentro io. Era il bifolco che mi aveva dato del giudeo. Te l’ho già raccontata, quella storia.
- Ricordo -. Ma quella che mi aveva raccontata era solo una parte della storia. – Fu la sera in cui ti tesero l’agguato. Quando ti picchiarono.
- Già. Mi picchiarono sì. Dopo aver ripescato quel figlio di puttana.
Mi lasciò davanti a casa mia, dove non c’era nessuno e io potei buttare la roba bagnata nel cesto e fare una doccia e calmarmi. Sotto la doccia mi tornò la tremarella, non tanto perché ricordavo di essere stato là seduto a quel tavolo di cucina con Goldstine che puntava la pistola alla fronte di Ira o perché ricordavo che gli occhi di Ira sembravano volergli volar via dalla testa, ma perché pensavo: una pistola carica con i coltelli e le forchette? A Maplewood, New Jersey? Perché? A causa di Garwych, ecco perché! A causa di Solak! A causa di Becker! (2)
Tutte le domande che non avevo osato porgli in macchina, cominciai a pormele da solo ad alta voce sotto la doccia: - Cosa gli avevi fatto, a quella gente, Ira?
   
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(1) In realtà Ira ha parlato a Nathan di un’aggressione subita da un commilitone, a cui aveva reagito in maniera violenta, ma senza scendere nei particolari. Non ha detto niente, invece, degli altri tre uomini che vengono nominati e di cui neanche il lettore sa qualcosa.
(2) Nathan si sente nuovamente tremare, perché si chiede cosa Ira può aver mai fatto con questi tre uomini.




venerdì 23 febbraio 2018

166 Iraniani e negri (di Philip Roth)



Nathan Zuckerman ripensa al suo amico Ira e a ciò che ha significato nella sua vita di ragazzo statunitense negli anni della guerra fredda e del maccartismo; ricorda ciò che Ira gli ha raccontato di quand’era in Iran durante la seconda guerra mondiale e di quando era a Chicago, dopo la guerra, a lavorare in una fabbrica in cui la maggioranza degli operai era gente di colore (nel romanzo chiamati negri, come si usava in quegli anni).
Il brano è tratto da “Ho sposato un comunista”, il romanzo di Roth pubblicato da Einaudi nel 2000 con la traduzione di Vincenzo Mantovani.

Ascoltando Murray, non potevo far a meno di essere assalito dai ricordi della mia amicizia con Ira, ricordi che non sapevo nemmeno di avere ancora, ricordi di come usavo ingozzarmi delle sue parole e delle sue convinzioni di adulto, precisi ricordi di noi due a spasso in Weequahic Park e di lui che mi parlava dei ragazzi poveri che aveva visto in Iran.
- Quando giunsi in Iran, - mi disse Ira, - la gente del posto soffriva di ogni genere possibile e immaginabile di malattie. Essendo musulmani, si lavavano le mani prima e dopo avere defecato: ma lo facevano nel fiume, nel fiume che era davanti a noi, per così dire. Si lavavano le mani nella stessa acqua in cui orinavano. Le loro condizioni di vita erano terribili, Nathan. Il paese era governato dagli sceicchi. E non erano sceicchi da romanzo. Questi tipi erano come il dittatore della tribù. Capisci? L’esercito gli dava dei soldi perché gli indigeni lavorassero per noi, e noi davamo agli indigeni razioni di riso e di tè. Tutto qui. Riso e tè. Quelle condizioni di vita! Non avevo mai visto nulla di simile. Avevo cercato lavoro durante la depressione, non ero cresciuto al Ritz, ma quella era un’altra cosa. Quando noi dovevamo defecare, per esempio, lo facevamo nel bugliolo militare: un secchio di ferro, ecco che cos’era. E qualcuno doveva vuotarli, e allora li vuotavamo sul mucchio dei rifiuti. E chi credi che ci fosse, là?
Improvvisamente Ira non poteva continuare, non poteva più parlare. Non poteva camminare. Entravo sempre in agitazione, quando gli capitava. E, poiché lo sapeva, lui mi faceva dei segni con la mano, invitandomi a stare tranquillo, ad aspettare, ché si sarebbe subito ripreso.
Delle cose che non gli andavano giù non riusciva a discutere in modo equilibrato. Tutto il suo virile portamento poteva essere alterato, fino a diventare irriconoscibile, da qualunque cosa implicasse la degradazione umana; e, forse a causa del suo contrastato sviluppo da ragazzo, da qualunque cosa implicasse, in particolare, la sofferenza e la degradazione dei bambini. Quando mi disse: - E chi credi che ci fosse, là? - io sapevo già chi c’era per come aveva cominciato a respirare: - Ahhh… Ahhh… Ahhh -. Rantolando come uno che stesse per morire. Quando si fu rimesso in sesto emotivamente per riprendere la passeggiata, gli chiesi, come se non lo sapessi: - Chi, Ira? Chi c’era?
- I bambini. Vivevano là. E frugavano nel mucchio dei rifiuti in cerca di cibo…
Questa volta, quando smise di parlare, non riuscii a controllare la mia agitazione; temendo che potesse restare bloccato, che potesse essere così schiacciato - non soltanto dalle sue emozioni, ma da un’immensa solitudine che pareva svuotarlo improvvisamente della sua forza - da non poter ritrovare mai più la strada per ridiventare l’eroe ardito e rabbioso che adoravo, sapevo di dover fare qualcosa, di dover fare tutto quello che potevo, e così cercai almeno di completare, al suo posto, il suo pensiero. Dissi: - Ed era orribile.
Mi diede un buffetto sulle spalle e ci rimettemmo in cammino.
- Per me sì, - rispose alla fine. - Per i miei commilitoni non aveva la minima importanza. Non ho mai sentito nessuno fare commenti. Non ho mai visto nessuno - americano come me - deplorare la situazione. Ero veramente incazzato. Ma non potevo farci niente. Sotto le armi non c’è democrazia. Capisci? Che fai, vai a dirlo ai superiori? E le cose andavano avanti così da Dio sa quanto tempo. Ecco qual è la storia del mondo. Ecco come vive la gente -. Poi sbottò: - Ecco come la fanno vivere!
Insieme facevamo dei giri a Newark perché Ira potesse mostrarmi i quartieri non ebraici che io non conoscevo – il primo distretto, dove lui era cresciuto e dove abitavano gli italiani poveri; Down Neck, dove stavano gli irlandesi e i polacchi poveri – e per tutto il tempo Ira mi spiegava che, contrariamente a ciò che potevo aver udito da ragazzo, questi non erano semplici goím, ma «lavoratori come tutti gli altri lavoratori di questo paese, diligenti, poveri, senza potere, che lottano ogni maledetto giorno per vivere una vita decente e dignitosa».
Andammo nel terzo distretto di Newark, dove i negri erano venuti a occupare le strade e le case dei vecchi immigrati ebrei. Ira rivolgeva la parola a tutte le persone che incontrava, uomini e donne, ragazzi e ragazze, chiedeva cosa facevano e come vivevano e se non pensavano, magari, che fosse ora di cambiare «quel sistema vergognoso e tutto il quadro d’ignorante crudeltà» che li privava dell’uguaglianza. Si sedeva su una panca davanti al salone di un barbiere negro nella squallida Spruce Street, a due passi da dove mio padre era cresciuto in una casa popolare di Belmont Avenue, e diceva agli uomini raccolti sul marciapiede: - Se c’è una cosa che mi piace è ficcare il naso nelle conversazioni degli altri, - e cominciava a parlare di eguaglianza, e mai come in quel momento era più somigliante al lungo Abramo Lincoln di bronzo ai piedi dello scalone che porta al tribunale di contea di Newark, il Lincoln – localmente famoso – di Gutzon Borglum, là seduto ad aspettare su una panchina di marmo davanti al tribunale, nella sua posa affabile e cordiale, mostrando, con la faccia scavata e barbuta, quant’è saggio, grave, paterno, giudizioso e buono. Davanti a quel barbiere di Spruce Street - con Ira che proclamava, quando qualcuno gli chiedeva la sua opinione, che «un negro ha tutto il diritto, perdio, di mangiare ovunque se la senta di pagare il conto» - mi resi conto che prima di allora non avevo mai immaginato che potesse esistere, per non dire visto con i miei occhi, un bianco così pacioccone e a suo agio con i negri.
- Quella che, nei negri, la maggior parte della gente scambia per tetraggine e stupidità… Sai cos’è, Nathan? È uno scudo protettivo. Ma quando incontrano uno che non ha pregiudizi razziali, vedi che cosa succede? Che non hanno più bisogno di quello scudo. Hanno anche loro la loro quota di pazzoidi, certo, ma dimmi tu chi non ne ha.
Quando Ira, un giorno, scoprì davanti al salone un nero molto vecchio e amareggiato la cui passione più grande era sfogare il proprio malumore in veementi discussioni sulla bestialità del genere umano, - «Tutto quello che sappiamo è nato non dalla tirannia dei tiranni ma dalla tirannia dell’ignoranza, della cupidigia, dell’odio e della brutalità del genere umano. Il tiranno del male è l’Uomo della strada!» - ci tornammo molte altre volte, e la gente si raccolse intorno a noi per sentirlo discutere animatamente con questo solenne brontolone che portava sempre un lindo abito nero e una cravatta, e che tutti gli altri uomini chiamavano rispettosamente «Signor Prescott»: Ira che tentava di fare proseliti battendosi, a singolar tenzone, con un negro alla volta; i dibattiti tra Lincoln e Douglas in una nuova strana forma.
- Lei è sempre convinto, - gli chiedeva Ira, amabilmente, - che la classe lavoratrice continuerà ad accontentarsi delle briciole della tavola imperialista? – Certamente, signore! La massa, di qualunque colore siano gli uomini che la compongono, è e sarà sempre torpida, irragionevole, stupida e malvagia. Semmai dovessero diventare meno poveri, saranno ancora più torpidi, irragionevoli, stupidi e malvagi! – Be’, io ci ho pensato, signor Prescott, e sono convinto che lei sia in errore. Il semplice fatto che non ci sono abbastanza briciole per mantenere la classe lavoratrice docile e ben pasciuta confuta quella teoria. Signori, tutti voi qui presenti sottovalutate l’imminenza del crollo industriale. È vero che la maggior parte dei nostri lavoratori appoggerebbero Truman e il Piano Marshall, se così facendo fossero sicuri di non perdere il posto. Ma la contraddizione è questa: l’incanalamento del grosso della produzione verso il settore del materiale bellico, sia per le forze americane che per quelle dei governi fantoccio, sta impoverendo i lavoratori americani.
Anche davanti a quella misantropia, raggiunta dal signor Prescott – apparentemente – dopo una dura lotta, Ira si sforzava di mettere nella discussione un pizzico di ragione e di speranza, di far nascere, se non nel signor Prescott, almeno nel pubblico schierato sul marciapiede, la consapevolezza delle trasformazioni che si potevano operare nella vita degli uomini mediante l’azione politica concertata. Per me era, come Wordsworth (1) descrive i giorni della Rivoluzione Francese, «il Paradiso stesso»: «Esser vivi in quell’alba era la felicità, | Ma essere giovani era il Paradiso stesso!» Noi due, bianchi e attorniati da dieci o dodici neri, e non c’era nulla di cui dovessimo preoccuparci, e nulla che essi dovessero temete: i loro oppressori non eravamo noi, ed essi non erano i nostri nemici: il nemico-oppressore che ci lasciava tutti sgomenti era il modo in cui la società era organizzata e diretta.
Fu dopo la prima puntata in Spruce Street che Ira mi offrì un cheese cake allo Weequahic Diner e, mentre mangiavamo, mi parlò dei negri con i quali aveva lavorato a Chicago.
- Questa fabbrica si trovava nel cuore della «cintura nera» di Chicago, - disse. – Circa il novantacinque per cento dei dipendenti erano di colore, ed è lì che si nota l’esprit di cui parlavo. È l’unico posto che io abbia visitato dove un negro è su un piano di assoluta parità con tutti gli altri. Così i bianchi non si sentono in colpa e i negri non sono sempre incazzati. Capisci? Promozioni basate esclusivamente sull’anzianità: nessun intrallazzo.
- Come sono i negri quando lavori con loro?
- Da quello che vedevo, noi bianchi non destavamo alcun sospetto. In primo luogo, la gente di colore sapeva che tutti i bianchi mandati dall’Ue in quello stabilimento erano o comunisti o leali «compagni di strada». Dunque, non erano inibiti con noi. Sapevano che eravamo liberi da pregiudizi razziali quanto può esserlo un adulto in quest’epoca e in questa società. Quando vedevi qualcuno leggere un giornale, due persone su tre leggevano il «Daily Worker» (2). Testa a testa per il secondo posto il «Chicago Defender» (3) e il «Racing Form» (4). Hearst e McCormick (5) squalificati ed esclusi dall’ordine d’arrivo.
- Ma come sono i negri, veramente? Di persona.
- Be’, ragazzo mio, ci sono anche delle brutte bestie, se è questo il senso della tua domanda. È un dato di fatto. Ma si tratta di una piccola minoranza, e basta fare un giro nel ghetto negro per capire, se non si ha una benda sugli occhi, cos’è che guasta la gente in quel modo. La caratteristica che mi ha più colpito tra i negri è la loro straordinaria cordialità. E, nella nostra fabbrica di dischi, la passione per la musica. Nella nostra fabbrica c’erano altoparlanti dappertutto, amplificatori, e chiunque volesse ascoltare un pezzo particolare – e tutto questo in orario di lavoro – non doveva far altro che chiederlo. I ragazzi cantavano, battevano i piedi, e non era insolito che uno pigliasse una ragazza e si mettesse a ballare. Circa un terzo dei dipendenti erano donne. Belle ragazze. Si fumava, si leggeva, si preparava il caffè, si discuteva fino a rimanere senza voce, e il lavoro procedeva senza interruzioni e senza intoppi.
- Tra i negri tu avevi degli amici?
- Certo. Certo che li avevo. C’era un omone di nome Earl Vattelapesca che mi riuscì subito simpatico perché somigliava a Paul Robeson (6). Non mi ci volle molto per scoprire che era un vagabondo come me. Earl prendeva la sopraelevata e lo stesso tram che prendevo io, e così cercavamo di viaggiare nelle stesse carrozze, per fare quattro chiacchiere durante il tragitto. Fino ai cancelli dello stabilimento Earl e io si parlava e si rideva come sul lavoro. Ma una volta dentro, dove c’erano dei bianchi che non conosceva, Earl tace di colpo e, quando scendo dalla sopraelevata, dice solo «Arrivederci». Così. Capisci?

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(1) William Wordsworth (1770-1850), poeta inglese che ammirava la rivoluzione francese.
(2) Daily Worker = quotidiano del Partito Comunista USA, in edicola dal 1924 al 1958 (precedentemente, per alcuni anni, fu un settimanale).
(3) Chicago Defender = giornale settimanale fondata da un afroamericano nel 1905 e destinato alle comunità afroamericane; viene ancora pubblicato.
(4) Racing Form = giornale fondato a Chicago alla fine dell’Ottocento e dedicato principalmente alle corse dei cavalli.
(5) Rispettivamente William Randolph Hearst e Robert R. McCormick; il primo fu editore e politico (sostenitore nel tempo sia dei repubblicani che dei democratici), considerato il padre del giornalismo scandalistico; il secondo, repubblicano e conservatore, fu editore del “Chicago Tribune”.
(6) Paul Robeson = cantante, attore e sportivo afroamericano (1898-1976), famoso anche come attivista per i diritti civili negli Stati Uniti.


lunedì 19 febbraio 2018

165 Dubinuška e altri suoni (di Philip Roth)



Il vecchio professor Murray Ringold sta raccontando al suo ex allievo Nathan la vita di suo fratello Ira; in questo brano si concentra sui rapporti tra Ira e sua figlia Lorraine, quand’ella era una bambina con la frangetta nera.
Il brano (tratto da “Ho sposato un comunista” – traduzione di Vincenzo Mantovani, pubblicato da Einaudi) è interessante – oltre che per alcune considerazioni sul comunismo, che voleva cambiare il mondo – per la descrizione dei rumori che si odono attorno ai due personaggi. Scolasticamente è un ottimo passo per parlare appunto di descrizione dal punto di vista uditivo.

- Ira si affezionò a quella bambina con la frangetta nera. E lei si affezionò a lui. Quando Ira veniva a casa nostra, lo costringeva a giocare con le sue matrioske. Gliele aveva regalate lui per un compleanno. Sai, la tradizionale donna russa con la babuška, tutte uguali, l’una dentro l’altra, finché arrivi all’ultima che è grande come una noce. Inventavano delle storie per ognuna delle bambole, e su come piegavano la schiena, queste nanerottole, in Russia. Poi lui prendeva tutte le bambole in una mano e la chiudeva in modo tale che non si vedevano più. erano semplicemente sparite tra quelle dita a spatola: dita lunghe e strane, le stesse che doveva aver avuto Paganini. Lorraine andava in brodo di giuggiole quando lui faceva così: la matrioska più grande di tutte era questo enorme zio.
- Per il successivo compleanno di Lorraine le comprò l’album del Coro e della Banda dell’Armata Rossa che eseguivano canzoni russe. Più di cento uomini in quel coro, altri cento nella banda. Il prodigioso rimbombo dei bassi: che suono straordinario! Lei e Ira si divertivano un mondo con quei dischi. Le canzoni erano in russo, e le ascoltavano insieme, e Ira faceva finta di essere il basso solista, muovendo le labbra come per pronunciare quelle parole incomprensibili e facendo drammatici gesti «russi»; e, quando veniva il ritornello, Lorraine muoveva le labbra alle incomprensibili parole del coro. Mia figlia sapeva essere divertente.
- C’era una canzone che amava in particolar modo: ed era bella, un canto popolare funebre e struggente che somigliava un po’ a un inno e s’intitolava Dubinuška, una canzone molto semplice cantata con l’accompagnamento di una balalaika. Le parole di Dubinuška erano stampate in inglese dentro la copertina dell’album, e lei le imparò a memoria e per mesi girò cantandole per la casa.

Molti canti ho sentito nella mia terra natía,
Canti di gioia e di dolore.
Ma uno mi s’è inciso a fondo nella memoria
Ed è il canto del comune lavoratore.

Questa era la parte dell’assolo. Ma quello che cantava più volentieri era il ritornello corale. Perché dentro c’era «Oh, issa!».

Su, alzate quella mazza,
Oh, issa!
Tirate più forte tutti insieme,
Oh, issa!

Quando era sola nella sua stanza, Lorraine allineava tutte le matrioske, metteva su il disco di Dubinuška e cantava tragicamente «Issa! Issa!» spingendo le bambole qua e là sul pavimento.
- Fermati un momento. Murray, aspetta, - dissi, e mi alzai e dalla veranda entrai in casa e andai in camera da letto, dove tenevo il lettore di Cd e il mio vecchio fonografo. La maggior parte dei miei dischi erano in certe scatole chiuse in un armadio, ma sapevo in che scatola trovare quello che cercavo. Tirai fuori l’album che Ira aveva regalato a me nel 1948 e presi il disco sul quale era incisa Dubinuška, eseguita dal Coro e dalla Banda dell’Armata Rossa. Regolai il contagiri a 78, spolverai il disco e lo misi sul piatto. Abbassai la puntina sul margine prima dell’ultimo pezzo registrato, alzai il volume di quel tanto che bastava perché Murray potesse udire la musica attraverso le porte aperte tra la camera da letto e la veranda, e lo raggiunsi.
Al buio ascoltammo, non più io lui o lui me, ma insieme Dubinuška. Era proprio come l’aveva descritta Murray: una bella canzone popolare, funebre e struggente, un po’ simile a un inno. Solo che, per il crepitio che mandava la logora superficie del vecchio disco (un suono ciclico non diverso da certi familiari, naturali rumori notturni della campagna estiva), la canzone sembrava arrivare fino a noi da un passato storico remoto. Non era affatto come starsene distesi sulla mia veranda ad ascoltare i concerti del sabato sera in diretta da Tanglewood. «Oh, issa! Oh, issa!» veniva da un luogo e da un tempo distanti, spettrale residuo di quegli estatici giorni rivoluzionari in cui tutti coloro che volevano cambiare il mondo programmaticamente, ingenuamente (follemente, imperdonabilmente), sottovalutavano il modo in cui l’umanità fa scempio delle sue idee più nobili e le trasforma in una tragica farsa. Oh, issa! Oh, issa! Come se l’astuzia, la debolezza, la corruzione e la stupidità umana non avessero la minima probabilità di successo contro la collettività, contro la forza della gente che tira tutta insieme per rinnovare la propria vita e abolire l’ingiustizia. Oh, issa!
Quando Dubinuška terminò, Murray tacque e io ripresi a sentire tutto ciò che il mio orecchio aveva escluso mentre ascoltavo le parole della canzone: il gracidare nasale e vibrante delle rane, i porciglioni della Blue Swamp – la palude piena di canneti a est della mia casa – che intonavano energicamente il loro canto metallico e gli scriccioli che facevano l’accompagnamento. E le strolaghe, i pianti e le risate di quei soggetti maniaco-depressivi che sono le strolaghe. Ogni due o tre minuti c’era il nitrito di un lontano barbagianni, e per tutto il tempo, senza posa, l’orchestra d’archi dei grilli del New England occidentale continuò a suonare un suo grillesco Bartók. Un procione pigolava nel bosco vicino e, man mano che passava il tempo, ebbi addirittura l’impressione di udire i castori che rodevano un tronco d’albero là dove i tributari di quella regione silvestre alimentavano il mio stagno. Alcuni cervi, ingannati dal silenzio, dovevano essersi avvicinati troppa alla casa, perché tutt’a un tratto – avendo avvertito la nostra presenza – ecco risuonare celermente il codice Morse della loro fuga: gli sbuffi dalle froge, il rumore sordo dell’arresto, lo scalpitio, il tonfo degli zoccoli, i balzi di quella corsa pazza. I loro corpi spariscono flessuosi nel folto dei cespugli e poi, ormai quasi impercettibili all’orecchio, i cervi cercano scampo nella fuga. Si sente solo il pesante respiro di Murray, l’eloquenza di un vecchio che emette regolarmente il suo fiato.
Quasi mezz’ora doveva essere passata prima che riprendesse a parlare. Il braccio del fonografo non era tornato nella posizione di partenza, e ora si udiva anche la puntina che ronzava sopra l’etichetta. Non andai dentro a fermarla per non interrompere ciò che aveva fatto ammutolire il mio narratore, qualunque cosa fosse, e creato l’intensità del suo silenzio. Mi chiedevo quanto tempo sarebbe passato prima che Murray dicesse qualcosa, se non sarebbe rimasto semplicemente in silenzio prima di alzarsi e di chiedermi di essere riaccompagnato al dormitorio: se i pensieri che si erano liberati dentro di lui, quali che fossero, avrebbero richiesto una notte di sonno per mitigare il proprio effetto.

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Puoi ascoltare la canzone Dubinuška cliccando qui sotto:

giovedì 15 febbraio 2018

164 Il funerale del canarino (di Philip Roth)



Il professor Murray Ringold, vecchio insegnante di inglese, racconta a un suo ex allievo, Nathan Zuckerman, la storia del suo fratello minore Ira, di cui Nathan è stato amico. Nel brano qui riportato narra in particolare un episodio accaduto nel 1920 nel quartiere italiano di Newark, dove un vecchio calzolaio decise di organizzare un pomposo funerale per l’essere da lui più amato: il suo canarino Jimmy!
Il brano è tratto dal romanzo “Ho sposato un comunista”, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Vincenzo Mantovani.

- Conosci la storia del funerale del canarino in quello che una volta era il primo distretto, quando uno dei calzolai del posto seppellì il suo canarino? Questo ti farà capire com’era tosto Ira… e quanto poco lo era. Fu nel 1920. Io avevo tredici anni e Ira sette, e in Boyden Street, a due strade dalla nostra casa popolare, c’era un ciabattino, Russomanno, Emidio Russomanno, un vecchio dall’aria misera, piccino, con due grandi orecchie e una faccia smunta e la barba bianca sul mento e, sulle spalle, un abito liso di cent’anni prima. Russomanno, per avere un po’ di compagnia, teneva in bottega un canarino. Il canarino si chiamava Jimmy e Jimmy visse a lungo e poi Jimmy mangiò qualcosa che non avrebbe dovuto mangiare e morì.
- Russomanno era distrutto, e allora ingaggiò una fanfara da parate, noleggiò un carro funebre e due carrozze tirate da cavalli, e dopo che il canarino venne esposto in una specie di camera ardente sopra un banco della bottega – con tanto di fiori, candele e un crocifisso – ci fu una processione per le strade dell’intero distretto, una processione che passò davanti al negozio di generi alimentari Del Guercio, dove avevano i frutti di mare fuori nelle ceste e una bandiera americana in vetrina, davanti al banco di frutta e verdura Melillo, davanti al forno Giordano, davanti al forno Mascellino, davanti all’Arre’s Italian Tasty Crust Bakery. Passò davanti alla macelleria Biondi e alla selleria De Lucca e al garage De Carlo e al Caffè D’Innocenzo e alla calzoleria Parisi e al negozio di biciclette Nole e alla latteria Celentano e alla sala biliardi Grande e al salone di barbiere Basso e al salone di barbiere Esposito e al banchetto dei lustrascarpe con le due poltrone vecchie e graffiate per accomodarsi nelle quali i clienti dovevano montare sull’alta pedana.
- Tutto sparito da quarant’anni. Nel ’53 il municipio sventrò l’intero quartiere italiano per far posto a una fungaia di alti palazzoni popolari ad affitto moderato. Nel ’94 fecero saltare i palazzoni davanti alla tivù. Ormai non ci viveva più nessuno da una ventina d’anni. Inabitabili. Oggi non resta più nulla. St. Lucy e basta. L’unica cosa che è rimasta in piedi. La chiesa parrocchiale, ma senza parrocchia e senza parrocchiani.
- Il Caffè Nicodemi nella Settima Avenue e il Caffè Roma nella Settima Avenue e la banca D’Auria della Settima Avenue. Era la banca dove, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, concedevano crediti a Mussolini. Quando Mussolini invase l’Etiopia, il prete suonò le campane della chiesa per mezz’ora. Qui in America, nel primo distretto di Newark.
- Il pastificio e la fabbrica di addobbi e il marmista e il teatro di marionette e il cinematografo e i campi di bocce e la fabbrica di ghiaccio e la tipografia e i vari circoli e ristoranti. Davanti al ritrovo abituale del gangster Ritchie Boiardo, il Victory Café. Negli anni Trenta, quando uscì di prigione, Boiardo costruì il Vittorio Castle all’angolo dell’Ottava con Summer. Quelli del mondo dello spettacolo venivano apposta da New York per cenare al Castle. Il Castle è dove Joe DiMaggio andava a mangiare quando veniva a Newark. Il Castle è dove DiMaggio e la sua ragazza fecero la festa di fidanzamento. Era dal Castle che Boiardo spadroneggiava sul primo distretto. Ritchie Boiardo dominava gli italiani nel primo distretto e Longy Zwillman dominava gli ebrei nel terzo distretto, e questi due gangster erano sempre in guerra.
- Davanti alla dozzina di bar del quartiere il corteo si snodò da est a ovest, a nord su per una strada e a sud giù per quella dopo, fino ai Bagni Municipali di Clifton Avenue: il modello architettonico più stravagante del primo distretto dopo la chiesa e la cattedrale, la sede dei vecchi e massicci bagni pubblici dove mia madre ci portava a fare il bagno da bambini. Ci andava anche mio padre. Doccia gratis e un soldino per l’asciugamano.
- Il canarino venne messo in una piccola bara bianca issata sulle spalle di quattro portatori. Si radunò una grande folla, lungo il percorso della processione si schierarono forse diecimila persone. La gente si pigiava sulle scale antincendio e sui tetti delle case. Intere famiglie si sporgevano dalle finestre delle case popolari per assistere allo spettacolo.
- Russomanno viaggiava nella carrozza dietro la bara, Emidio Russomanno che piangeva mentre tutti gli altri abitanti del primo distretto ridevano. Qualcuno rideva così forte che finì èer rotolarsi per terra. Ridevano tanto da non riuscire a stare in piedi. Ridevano persino i portatori. Era contagioso. Rideva il tizio che guidava il carro funebre. In segno di rispetto verso il padrone del canarino, la gente sul marciapiede si sforzava di resistere fino a quando era passata la carrozza di Russomanno, ma per la maggior parte dei presenti era troppo comico, specie per i bambini.
- Il nostro era un piccolo quartiere brulicante di bambini: bambini nei vicoli, bambini pigiati sui gradini dei portoni, bambini che uscivano a frotte dalle case popolari e correvano da Clifton Avenue fino a Broad Street. Per tutto il giorno e, d’estate, per metà della notte si potevano sentire questi bambini che gridavano: - Guaglio’! Guaglio’! – Ovunque uno volgesse lo sguardo, bande di bambini, battaglioni di bambini: che tiravano monetine, giocavano a carte, facevano rotolare i dadi, giocavano a biliardo, leccavano gelati, giocavano a palla, accendevano falò, spaventavano le bambine. Solo le suore armate di righello potevano controllare questi bambini. Migliaia e migliaia erano, tutti sotto i dieci anni. Ira era uno di loro. Migliaia e migliaia di rissosi bambinetti italiani, i figli degli italiani che posavano i binari della ferrovia e lastricavano le strade e scavavano le fogne, i figli dei venditori ambulanti e degli operai di fabbrica e degli straccivendoli e dei baristi. Bambini chiamati Giuseppe e Rodolfo e Raffaele e Gaetano, e un solo bimbo ebreo chiamato Ira.
- Be’, gli italiani si divertivano un mondo. Non avevano mai visto una cosa come il funerale di quel canarino. E non videro mai più una cosa simile. Certo, c’erano già stati cortei funebri prima di quello, e bande che suonavano marce funebri e persone in lutto che riempivano le strade. Tutto l’anno c’erano feste con processioni per tutti quei santi che si erano portati dall’Italia, centinaia e centinaia di persone che veneravano lo speciale santo della loro congregazione religiosa mettendosi tutte in ghingheri, sventolando lo stendardo ricamato del patrono e portando ceri grossi come cavacopertoni. E per Natale c’era il presepio di Santa Lucia, la copia di un villaggio napoletano che rappresentava la nascita di Gesù, popolato da cento statuine italiane comprendenti Maria, Giuseppe e il Bambino. C’erano gli zampognari italiani che sfilavano con un Bambino di gesso e, dietro il Bambino, la gente in processione che cantava inni natalizi in italiano. E nelle strade gli ambulanti che vendevano le anguille per la cena della vigilia. La gente usciva in folla per le manifestazioni religiose, e attaccava biglietti da un dollaro al mantello della statua di gesso del santo del momento, e dalle finestre delle case faceva piovere petali di fiori come i coriandoli di nastro per telescrivente di Wall Street. Liberavano anche uccelli dalle gabbie, colombe che volavano impazzite sopra la folla da un palo del telefono all’altro. Quando c’era la festa del patrono queste colombe forse avrebbero voluto non avere mai visto l’esterno di una gabbia.
- Per la festa di San Michele gli italiani vestivano una coppia di bambine da angioletti. Dalle scale antincendio ai lati della strada le facevano dondolare sopra la gente con le corde alle quali le bambine erano attaccate. Esili bimbette in camicia bianca con l’aureola e un paio d’ali sulle spalle, e la folla ammutoliva, intimidita, quando comparivano lassù, recitando una preghiera; e quando le bambine avevano finito di essere degli angeli la folla andava in delirio. Era in quel momento che liberavano le colombe ed era in quel momento che esplodevano i fuochi artificiali e qualcuno finiva all’ospedale con due dita in meno.
- Spettacoli vivaci come questi, dunque, non erano una novità per gli italiani del primo distretto. Buffi personaggi, stramberie del vecchio continente, chiasso e liti, pittoresche esibizioni: niente di nuovo. E nuovi non erano di certo i funerali. Durante l’epidemia influenzale era morta tanta gente che si erano dovute allineare le bare sulla strada. Millenovecentodiciotto. Le imprese di pompe funebri non ce la facevano più. dietro le bare, lunghi i tre chilometri di strada fino allo Holy Sepulcher Cemetery, le processioni da St. Lucy si susseguivano per tutta la giornata. Per i bambini piccoli c’erano delle minuscole bare. Per seppellire tuo figlio dovevi aspettare il tuo turno: dovevi aspettare che, prima, i tuoi vicini seppellissero il loro. Terrore indimenticabile per un bambino. Eppure, due anni dopo l’epidemia d’influenza il funerale di Jimmy il canarino… Be’, quello li batté tutti.
- Tutti, quel giorno, si sbellicarono dalle risa. Tutti tranne uno. Ira fu il solo, a Newark, a non apprezzare lo scherzo. Io non riuscii a spiegarglielo. Ci provai, ma stentava a capire. Perché? Forse perché era stupido, o forse perché non lo era. Forse, semplicemente, non amava le carnevalate: molti utopisti sono così. O forse dipendeva dal fatto che nostra madre era morta qualche mese prima e anche noi avevamo avuto il nostro funerale, al quale Ira non avrebbe voluto partecipare. Lui avrebbe preferito scendere in strada e prendere a calci un pallone, e mi pregò di non costringerlo a cambiarsi per andare al cimitero. Cercò addirittura di nascondersi in un armadio. Ma alla fine dovette venire con noi. Provvide mio padre a convincerlo. E al cimitero rimase là a guardarci mentre noi la seppellivamo, ma si rifiutò di darmi la mano e non mi permise di abbracciarlo. Si limitò a scoccare occhiate bieche all’indirizzo del rabbino. A guardarlo in cagnesco. Non volle essere toccato, né confortato da nessuno. E non pianse, non versò una lacrima. Era troppo arrabbiato per piangere.
- Ma quando morì il canarino al funerale risero tutti, tutti tranne Ira. Ira conosceva Jimmy solo per essere passato davanti alla bottega del ciabattino mentre andava a scuola e per averne visto la gabbia in vetrina. Non credo che fosse mai entrato nella bottega e tuttavia, a parte Russomanno, fu l’unico dei presenti a sciogliersi in lacrime.
- Quando io scoppiai a ridere (perché era buffo, Nathan, molto buffo), Ira perse ogni controllo. Fu la prima volta che lo vidi comportarsi così. Alzò i pugni e si mise a gridare. Era, già allora, un bambino grande e grosso, e io non riuscii a immobilizzarlo, e tutt’a un tratto lo vidi avventarsi su un paio di ragazzi accanto a noi che stavano, anche loro, ridendo come pazzi, e quando mi chinai per sollevarlo e impedirgli di farsi massacrare da una torma di monelli, uno dei suoi pugni mi colpì sul naso. Mi ruppe il naso qui alla radice, un bambino di sette anni. Sanguinavo, quel maledetto naso si era rotto, evidentemente, e Ira allora scappò via.
- Non lo trovammo fino al giorno dopo. Aveva dormito dietro la distilleria di Clifton Avenue. Non era la prima volta. Nel cortile, sotto il piano di caricamento. La mattina mio padre lo trovò là. Lo prese per la collottola e lo trascinò per tutta la strada fino all’aula della scuola dov’era già cominciata la lezione. Quando i compagni lo videro, con quella tuta sporca in cui aveva passato la notte, scaraventato nell’aula da suo padre, cominciarono a gridare «Uee-uee», e da allora quello fu, per mesi, il nomignolo di Ira. Uee-uee Ringold. Il ragazzo ebreo che aveva pianto al funerale del canarino.
- Per fortuna, Ira era sempre più grosso degli altri ragazzi della sua età, ed era forte, e sapeva giocare a pallone. Ira sarebbe stato un grande atleta, se non fosse stato per gli occhi. Se riuscì a farsi rispettare, in quel quartiere, fu perché era un bravo giocatore di pallone. Ma le risse? Da allora in poi fu una rissa dopo l’altra. Fu in quel periodo che nacque il suo estremismo.
- Fu una fortuna, sai, che non fossimo cresciuti con gli ebrei poveri del terzo distretto. Crescendo nel primo distretto, Ira per gli italiani fu sempre un estraneo, uno spaccone giudeo, e così, per grosso, forte e bellicoso che fosse, Boiardo non gli riconobbe mai le doti di una possibile recluta della mafia. Ma nel terzo distretto, tra gli ebrei, avrebbe potuto andare diversamente. Là Ira non sarebbe stato il reietto ufficiale del branco. Se non altro per la sua taglia, avrebbe probabilmente richiamato l’attenzione di Longy Zwillman. Da quanto mi risulta, Longy, che aveva dieci anni più di Ira, gli somigliava molto, da ragazzo: grosso, ostile e rabbioso, anche lui aveva abbandonato gli studi, affrontava impavido ogni rissa e aveva l’autorità di chi sa usare il cervello. Nel contrabbando degli alcolici, nel gioco, nelle macchine a gettone, sui docks, nel movimento operaio e nell’edilizia, Longy alla fine fece una bella carriera. Ma anche quando arrivò al vertice, quando era socio di Bugsy Siegel, di Lansky e di Lucky Luciano, i suoi amici più fidati erano quelli con i quali era cresciuto nelle strade, ragazzi ebrei del terzo distretto come lui, per i quali un nonnulla era una provocazione. Niggy Rutkin, il suo giustiziere. Sam Katz, la sua guardia del corpo. George Goldstein, il suo contabile. Billy Tiplitz, il responsabile delle scommesse. Doc Stacher, la sua calcolatrice. Abe Lew, il cugino di Longy, dirigeva per lui il sindacato commessi negozi al dettaglio. Cristo, e Meyer Ellenstein, un altro ragazzo di strada del ghetto del terzo distretto? Quando fu eletto sindaco di Newark, Ellenstein per Longy diresse il municipio. O quasi.
- Ira avrebbe potuto diventare uno dei giannizzeri di Longy, pronto a sbrigare lealmente tutti i loro «lavoretti». Era maturo per il reclutamento. Non ci sarebbe stato nulla di aberrante: quei ragazzi erano destinati a diventare dei criminali. Era il passo logico successivo. Avevano dentro quella violenza che è una tattica indispensabile, nelle bande, per ispirare timore e battere la concorrenza. Ira avrebbe potuto cominciare giù a Port Newark, scaricando dai motoscafi il whiskey di contrabbando proveniente dal Canada per accatastarlo nei camion di Longy, e avrebbe potuto finire, come Longy, con una villa da miliardario a West Orange e una corda al collo.
- Com’è tutto casuale, vero? Chi possiamo diventare, in che modo… Fu solo per una piccola casualità della geografia che Ira non ebbe mai l’occasione di incontrare Longy. L’occasione d’intraprendere una brillante carriera usando lo sfollagente sui concorrenti di Longy, mettendo i clienti di Longy con le spalle al muro, sorvegliando i tavoli da gioco nei casinò di Longy. L’occasione di concluderla testimoniando per un paio d’ore davanti alla commissione Kefauver prima di tornare a casa e d’impiccarsi.






martedì 13 febbraio 2018

163 Il vecchio generale (di Lev Tolstoj)




Per capire meglio il carattere della crisi etico-religiosa del principe Nechljudov, il protagonista di “Resurrezione” (e anche quella del vecchio Tolstoj), posto quest’altro brano (il capitolo XIX della seconda parte del romanzo) in cui il principe si reca all’abitazione di un vecchio generale, responsabile del funzionamento della prigione di stato. La descrizione che ne fa lo scrittore russo è perfetta: non solo per immaginarsene l’aspetto fisico, ma anche per comprendere il carattere e la mentalità, che Tolstoj rifiuta completamente.

L’uomo dal quale dipendeva il miglioramento del destino dei prigionieri di Pietroburgo, era un vecchio generale, discendente da baroni tedeschi, che si diceva un po’ rimbambito. Egli aveva un lungo stato di servizio e molte decorazioni, delle quali portava la sola croce bianca all’occhiello. Egli aveva meritato questa croce, specialmente al Caucaso, per aver obbligato dei contadini russi, col capo rasato e rivestiti di uniformi e armati di fucili e baionette, ad uccidere migliaia di cittadini che difendevano la loro libertà, le loro case, le loro famiglie. Egli aveva servito poi in Polonia, dove aveva di nuovo obbligato dei contadini russi a commettere altri delitti, che gli avevano fruttato nuove decorazioni e nuovi galloni alla sua uniforme; poi era stato mandato anche in altre parti. Egli occupava, ora, quel posto, che gli dava un buon alloggio, un buon vitto ed altre onorificenze. Egli eseguiva gli ordini che gli venivano dall’alto con scrupoloso rigore, e ne riteneva l’esecuzione come cosa eminentemente preziosa. E siccome attribuiva ad essi un valore del tutto particolare, pensava che tutto poteva cambiare sulla terra, fatta eccezione di quegli ordini. I doveri della sua carica consistevano a conservare segretamente dei detenuti politici dei due sessi nelle casematte, e vi riusciva così bene che circa la metà di essi sparivano nello spazio di dieci anni, alcuni impazzivano, altri morivano tisici, o si suicidavano lasciandosi morire di fame, tagliandosi le vene con un pezzo di vetro, impiccandosi o bruciandosi vivi.
Il vecchio generale sapeva tutto questo, giacché lo vedeva ogni giorno; ma tutti questi incidenti non avevano il potere di scuotere la sua coscienza, come non lo sfioravano i danni prodotti dalle tempeste, dalle inondazioni, ecc., ecc. Questi casi accadevano in seguito all’esecuzione di ordini superiori, nel nome del sovrano imperatore. E dal momento che questi ordini dovevano eseguirsi letteralmente; era dunque inutile preoccuparsi delle loro conseguenze. Il vecchio generale non pensava né punto né poco, perché il suo dovere gli proibiva qualunque riflessione che avesse potuto indurlo a qualche debolezza negli obblighi della sua carica, che egli riteneva assai importanti.
Attenendosi strettamente al regolamento, egli visitava una volta alla settimana tutte le celle, informandosi se avessero da presentargli qualche domanda. Spesso gliene presentavano, allora egli ascoltava tranquillamente i prigionieri senza dire una parola; ma non li esaudiva mai, sapendo anticipatamente che quelle suppliche erano incompatibili col regolamento.
Nel momento in cui la vettura di Nechljudov si fermava innanzi al caseggiato abitato dal vecchio generale, l’orologio della torre, con debole soneria, cantò: «Dio sia lodato!» Poi suonarono le due. Ascoltando quella soneria, Nechljudov si ricordò di ciò che aveva letto nelle memorie dei Decabristi, riguardo all’impressione prodotta da quella dolce musica, che si ripeteva ad ogni ora, sui detenuti a vita. Il vecchio generale, al momento in cui Nechljudov si avvicinava alla sua casa, si trovava in un salottino scuro, in compagnia di un giovane pittore, fratello di un suo subordinato. Entrambi, seduti davanti ad un tavolino incrostato di madreperla, facevano girare una sottocoppa, al disopra del foglio di carta sul quale erano scritte tutte le lettere dell’alfabeto. La sottocoppa stava rispondendo alla domanda del generale, che voleva sapere come le anime si riconosceranno dopo la morte.
Nel momento in cui un attendente, facendo le funzioni di cameriere, entrò con il biglietto da visita di Nechljudov, l’anima di Giovanna d’Arco parlava per mezzo del sottocoppa. L’anima di Giovanna d’Arco aveva già detto, lettera dopo lettera, le parole «Si riconosceranno», che erano state trascritte. Quando arrivò l’attendente, la sottocoppa, fermatasi una volta sulla «p», un’altra volta sulla «o», aveva aggiunto la «s» e si era fermata su questa lettera, dando strappi avanti e indietro. Dava strappi perché secondo il generale la lettera seguente doveva essere una «l», cioè Giovanna d’Arco secondo lui doveva dire che le anime si riconosceranno «posle», «dopo» la loro purificazione da ogni residuo terreno, o qualche cosa di simile, e perciò la lettera seguente doveva essere una «l»; invece, l’artista era d’avviso che la lettera seguente dovesse essere una «v», il che voleva dire che le anime si riconosceranno «po svetu», dalla luce emanata dal loro corpo etereo. Il generale, aggrottando tetramente le sue grosse sopracciglia bianche, si guardava fisso le mani, e, persuaso che la sottocoppa si movesse da sé, l’attirava verso la «l». Invece il giovane pittore anemico, coi suoi radi capelli dietro le orecchie, guardava coi suoi grandi occhi spenti verso un angolo scuro del salotto, ed agitando nervosamente le labbra, attirava il piattino verso la «v». Irritato di essere interrotto nel bel mezzo della sua occupazione, il generale corrugò la fronte, e, dopo un momento di silenzio, prese il biglietto da visita, inforcò il suo pince-nez, e gemendo del male che gli facevano le reni, si drizzò di tutta l’altezza della sua statura, stropicciandosi le dita irrigidite.
- Fallo accomodare nello studio.
- Permettetemi, Vostra Eccellenza, che finisca da solo, - disse il pittore alzandosi. - Sento la presenza.
- Va bene, finisca, - disse il generale deciso e severo e si avviò verso lo studio coi lunghi passi decisi e cadenzati delle sue gambe anchilosate. - Lieto di vedervi, - disse il generale a Nechljudov, pronunciando quelle parole cortesi con una voce ruvida e mostrandogli col gesto una poltrona vicina allo scrittoio. - Siete giunto a Pietroburgo da molto tempo?
Nechljudov rispose che vi si trovava da poco tempo.
- La principessa, vostra madre, sta bene?
- Mia madre è morta.
- Perdonatemi, me ne dispiace tanto tanto. Mio figlio mi ha detto che vi aveva incontrato.
Il figlio del generale seguiva la carriera del padre: dopo essere uscito dalla scuola di guerra, era entrato nell’ufficio informazioni, ed era assai superbo delle occupazioni che gli si affidavano, le quali consistevano nell’udire le spie e nel leggere i loro rapporti.
- Sicuro, ho servito con vostro padre. Siamo stati amici, compagni d’arme. E voi, prestate servizio?
- Nossignore.
Il generale abbassò il capo con aria di rimprovero.
- Ho un favore da chiedervi, generale, - disse Nechljudov.
- Mo-o-o-lto lieto. Ed in che posso servirvi?
- Se la mia domanda vi sembra inopportuna vi prego di perdonarmi. Ma debbo assolutamente presentarvela.
- Che cos’è?
- Fra i vostri detenuti, vi è un certo Gurkevič: sua madre chiede di poterlo vedere, o, almeno, di potergli mandare alcuni libri.
Il generale non espresse né contento né scontento a queste parole di Nechljudov; ma, inchinando la testa da un lato, si limitò a corrugare la fronte ed a rimanere un momento sopra pensiero. Veramente, non pensava a nulla, e anzi non provava il minimo interesse per la domanda di Nechljudov, sapendo benissimo che gli avrebbe risposto secondo il regolamento. Faceva solo riposare la sua mente, senza occuparla di alcun pensiero.
- Ecco, vedete, tutto ciò non dipende da me, - disse dopo essersi riposato alquanto. - Per le visite dei parenti dei detenuti c’è un regolamento imperiale, e ciò che vi è ordinato è legge. In quanto ai libri, abbiamo una biblioteca, e si danno ai prigionieri i libri autorizzati.
- Sì, ma egli ha bisogno di libri scientifici che vorrebbe studiare.
- Non ci credete. - Ed il generale tacque. - Non ci credete: non è per studiare; è semplicemente per dare disturbo alla gente.
- Ma come, devono pur occupare in qualche modo il loro tempo, nella loro dolorosissima posizione, - disse Nechljudov.
- Si lagnano sempre, - rispose il generale. - Li conosciamo bene. - Ne parlava collettivamente, come di una razza di uomini speciale, inferiore. - Mentre hanno qui tante comodità che sarebbe assai difficile trovare in altri luoghi di detenzione, - continuò il generale.
E cominciò, come per giustificarsi, a descrivere dettagliatamente tutte le comodità messe a disposizione dei carcerati, come se lo scopo principale di quell’istituzione fosse organizzare un piacevole soggiorno per i suoi ospiti.
- È vero che in altri tempi, li trattavano assai male: ma ora la cosa è assai diversa. Mangiano tre piatti di cui uno sempre di carne: polpette o crocchette. Di domenica si aggiunge un quarto piatto: un dolce. Dio faccia che tutti i russi siano nutriti come loro!
Il generale, come tutte le persone anziane, trascinato dal soggetto ripeteva cento volte le stesse cose per dimostrare l’ingratitudine dei prigionieri.
- In quanto ai libri, noi diamo loro dei libri di contenuto religioso ed anche delle vecchie riviste. Ne abbiamo un’intera biblioteca. Ma essi leggono di rado; spesso, fingono d’interessarsi alla lettura e, poco tempo dopo, ci restituiscono i libri ancora intonsi e che non hanno neppure aperti. I vecchi non li sfogliano neppure; per convincercene ci abbiamo spesso messo un pezzo di carta, - aggiunse il generale con qualcosa di lontanamente somigliante a un sorriso. - Possono pure scrivere. Noi diamo loro, a questo scopo, delle lavagne sulle quali possono divertirsi a scrivere, cancellare e tornare a scrivere. Ma neppure questo garba loro. Solo nei primi tempi sono in agitazione; poi s’ingrassano e si fanno sempre più tranquilli, - diceva il generale senza immaginare per nulla quale terribile significato avessero le sue parole.
Nechljudov ascoltava quella voce monotona, guardava quelle membra pesanti, quelle palpebre gonfie sotto gl’ispidi sopraccigli, quelle gote flosce e rase, sostenute dal colletto militare, quella piccola croce bianca di cui quell’uomo era così fiero, perché era la ricompensa di una crudele carneficina in massa, e capiva sempre più l’inutilità di spiegare cosa alcuna a quell’uomo. Fece però uno sforzo per parlargli di un altro affare; di quello della prigioniera Šustova, di cui aveva saputo prossima la scarcerazione.
- Šustova? Šustova... Non li conosco tutti di nome. Sono così numerosi!... - rispose egli come se rimproverasse loro di essere in tanti. Egli suonò e disse di chiamare il segretario. Mentre che ne andavano in cerca, egli consigliò a Nechljudov di riprendere servizio, dicendo che gli uomini onesti ed onorevoli, tra i quali metteva sé stesso, erano indispensabili allo zar... «ed alla patria», aggiunse egli, evidentemente solo per questione di stile.
- Io sono vecchio; eppure presto servizio, per quanto le forze me lo consentano.
Entrò il segretario, un uomo secco, con occhi inquieti e maligni, e riferì che la Šustova era detenuta in qualche recinto fortificato, ma che non era giunto nessun ordine relativo a lei.
- Appena riceviamo quest’ordine, li rimettiamo subito in libertà; non li tratteniamo affatto. Non cerchiamo certo di prolungare la loro visita, - disse il generale con un nuovo sforzo di sorriso canzonatorio, il quale riuscì soltanto a far fare una smorfia al suo vecchio viso.
Nechljudov si alzò, stentando a dissimulare l’orrore, misto a pietà, che gli ispirava quell’orribile vecchio. E costui intanto pensava che non doveva essere troppo severo col figlio traviato del suo antico camerata e si credeva in dovere di fargli la lezione.
- Addio, mio caro! Non ve ne abbiate a male di quello che vi dico, è per vera amicizia: non v’immischiate negli affari dei nostri prigionieri. Non vi è un solo innocente! Sono tutti depravati e noi li conosciamo bene! - disse con tono che non permetteva il dubbio. E difatti, egli non ne dubitava, non perché fosse vero, ma perché, in caso contrario, invece di considerarsi un venerabile eroe che finisce degnamente la vita esemplare, egli avrebbe dovuto riconoscersi come un miserabile che avesse venduto la coscienza e continuasse a venderla anche nella vecchiaia. - Credete a me, farete meglio a riprendere servizio. Lo zar ha bisogno di gente onesta... e la patria, pure. Pensate un po’ che cosa succederebbe se io, se tutti gli uomini del nostro rango, non servissimo. Chi rimarrebbe allora? Ecco, vedete, noi spesso disapproviamo l’ordine costituito, ma senza voler dare aiuto al governo.
Nechljudov sospirò, salutò profondamente, strinse la grossa mano anchilosata del vecchio e se ne andò.
Dopo aver scosso il capo in segno di disapprovazione, il generale si strofinò le reni e tornò nel salottino, in cui l’aspettava il pittore, che già aveva annotato la risposta di Giovanna d’Arco. Il generale si mise il pince-nez e lesse: «Si riconoscono reciprocamente dalla luce che emana dal loro etereo corpo...»
- Ah! esclamò il vecchio chiudendo gli occhi con vera soddisfazione. - Ma come si fa a riconoscersi, se la luce è uguale per tutti? - chiese egli. E stringendo nuovamente le mani dell’artista, andò a sedersi innanzi alla piccola tavola.
Il cocchiere di Nechljudov uscì dalla porta della fortezza.
- Che tristezza qui, signore, - disse rivolgendosi a Nechljudov. – Quasi quasi, sarei partito senza aspettarvi!
- Sì, che tristezza! - confermò Nechljudov, respirando a pieni polmoni, e fissando gli occhi, per calmarsi, sulle leggere nuvolette che attraversavano il cielo, e sul luccichio della Neva, sulla quale scivolavano delle barche e dei battelli.




162 La messa in carcere (di Lev Tolstoj)



Se qualcuno si chiede perché Tolstoj sia stato scomunicato dalla Chiesa, legga questo brano (corrispondente ai capitoli XXXIX e XL del romanzo “Resurrezione”): vi si descrive una messa celebrata nella chiesa della prigione in cui si trova Katjuša (qui identificata con il suo nome originario di Maslova), a edificazione dei carcerati. Nessuno, dice Tolstoj, si rende conto che quella cerimonia è la più grande profanazione e derisione di Cristo e dei suoi insegnamenti.
È una pagina terribile, ancor oggi condivisibile nella descrizione di una fede superficiale e valida in molte chiese.

XXXIX
La messa incominciò.
Questa messa si svolgeva nel modo seguente: il sacerdote, con indosso un vestito di broccato, di forma assai strana e molto incomodo, tagliava dei pezzettini di pane e li disponeva sopra una sottocoppa, poi li metteva in una tazza di vino, borbottando intanto diversi nomi e preghiere. Nello stesso tempo, il sagrestano non la smetteva, prima, di leggere, poi, di cantare, alternando col coro dei prigionieri, certe preghiere slave, per sé stesse poco intelligibili e che lo diventavano ancora maggiormente a causa della rapidità colla quale venivano recitate. Il contenuto di quelle preghiere era specialmente destinato ad augurare il benessere all’Imperatore ed alla sua famiglia. Preghiere a tale scopo si ripetevano ogni tanto, separatamente o unite ad altre, e sempre in ginocchio. Oltre di ciò, il sagrestano leggeva alcuni versetti degli atti degli Apostoli, con voce così strana e nasale che non era possibile capirne un’acca, ed il sacerdote invece leggeva assai chiaramente un brano del Vangelo di S. Marco, nel quale è detto che Gesù Cristo, risorto, prima di volare in cielo per sedersi alla destra di suo padre, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale cacciò sette demoni, e poi agli undici apostoli, ai quali comandò di predicare il Vangelo a tutto l’universo, dichiarando che
chi non ci crederà, perirà, e che invece chi ci crederà sarà salvo, non solo, ma caccerà pure i demoni, guarirà la gente colla sola applicazione delle mani, parlerà lingue nuove, prenderà impunemente delle serpi, e se berrà del veleno, non ne morrà, ma resterà sano e salvo.
La sostanza della messa consisteva nella supposizione che i pezzettini di pane tagliati dal sacerdote e messi nel vino, dopo certe manipolazioni e preghiere, si cambiassero in corpo ed in sangue di Dio. Queste manipolazioni consistevano nel fatto che il sacerdote – non badando all’impiccio che gli dava il sacco di broccato che aveva indosso – alzava ogni tanto le due braccia e le teneva qualche tempo in su, poi le abbassava fino alle ginocchia, e baciava la tavola e ciò che vi si trovava sopra. Ma il punto più importante della cerimonia era quando il Sacerdote, presa una salvietta con ambo le mani, l’agitava in cadenza al disopra della sottocoppa e della tazza dorata. Si presumeva che proprio in quel momento il pane ed il vino si cambiassero in corpo ed in sangue, ed è perciò che quella parte della cerimonia era circondata da una solennità speciale.
«Preghiamo con fervore la santissima, la purissima, la beatissima Vergine Madre!» gridava dopo a voce alta il sacerdote, nascosto dietro una divisione, ed il coro intonava solennemente un canto che diceva che sta molto bene il lodare la Vergine Maria che diede alla luce Cristo conservando la verginità, la quale per questo merita più onore che certi cherubini, e più gloria che non certi serafini. Dopo ciò era ammesso che il cambiamento fosse avvenuto, ed il sacerdote, tolta la salvietta dalla sottocoppa, tagliò in quattro parti il pezzettino di mezzo, lo immerse prima nel vino e poi lo mise in bocca. Si presumeva che avesse mangiato un bocconcino del corpo di Dio e che avesse bevuto un sorso del suo sangue. Dopo di ciò il sacerdote tirò una tenda, aprì la porta centrale, e presa in mano la tazza dorata, uscì per quella porta ed invitò i fedeli a mangiare pur essi il corpo del Signore ed a bere del suo sangue, i quali erano ancora nel sottocoppa.
Si presentarono alcuni bambini.
Avendo prima domandato a quei bambini i loro nomi, il sacerdote tolse accuratamente, con un cucchiaino, un pezzetto di pane intinto nel vino, e lo ficcò profondamente in bocca al primo fanciullo, poi al secondo, e così di seguito, ed il sagrestano, dopo aver asciugato la bocca ad ognuno dei bambini, intonò con voce allegra un canto nel quale è detto che essi mangiano il corpo di Dio e bevono il suo sangue. Fatto questo, il sacerdote riportò la tazza dietro la divisione, e, bevuto tutto quello che ci rimaneva del sangue del Signore e mangiati tutti i pezzettini del Suo corpo, si leccò accuratamente i baffi, si asciugò ben bene la bocca, come pure la tazza, poi nella più allegra disposizione d’animo e facendo scricchiolare la suola dei suoi stivali, uscì di nuovo di dietro la divisione.
Così terminò la parte principale della messa. Ma il sacerdote, desideroso di consolare gli sventurati prigionieri, ci aggiunse una parte secondaria. Questa seconda cerimonia si svolse come segue: il sacerdote si piazzò davanti all’immagine (dal volto e dalle mani nere) di quello stesso Dio che aveva poc’anzi mangiato e che era illuminato da una decina di ceri, e con voce strana, tutta in falsetto, incominciò ora a cantare, ora a recitare le parole seguenti:
«O Gesù dolcissimo, gloria degli apostoli, Gesù lode dei martiri, Signore onnipossente, salvami! Gesù mio, bellissimo, ricorro a Te, salvami! Abbi pietà di me, per le preghiere della madre tua, Gesù, e di tutti i Tuoi santi e di tutti i profeti, salvami, Gesù mio! E concedimi i godimenti del paradiso. Gesù misericordioso!»
A questo punto si fermò, respirò, fece il segno della croce, s’inchinò fino a terra, e tutti lo imitarono. S’inchinarono il direttore, il carceriere, i detenuti; e nell’alto della navata, le catene dei prigionieri risuonarono maggiormente.
«Creatore degli angeli e signore delle potenze, - continuò il prete, - Gesù meraviglioso, meraviglia degli angeli, Gesù Onnipotente, salvatore degli avi! Dolce Gesù, grandezza dei Patriarchi! Glorioso Gesù, potenza dei re! Beato Gesù, volontà dei Profeti! Splendido Gesù, fermezza dei martiri! Rassegnato Gesù, gioia dei monaci! Gesù misericordioso, dolcezza dei preti! Magnanimo Gesù, astinenza dei digiunatori! Dolcissimo Gesù, felicità dei santi! Purissimo Gesù, castità delle vergini! Eterno Gesù, salute dei peccatori! Gesù figlio di Dio, abbi pietà di noi!» – era il punto di fermata ed il nome di «Gesù» fu pronunciato con un fischio stridente. Il prete sollevò con una mano la sottana foderata di seta, piegò un ginocchio e s’inchinò fino a terra, mentre il coro cantava le ultime parole: «Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di noi!»
I prigionieri caddero in ginocchio e si rialzarono nuovamente, scotendo i capelli rimasti sopra una metà del capo, e facendo risuonare i ferri che illividivano le gambe dimagrate.
La funzione durò ancora per molto tempo. Da principio erano delle lodi che finivano con le parole: «Abbi pietà di noi!» Poi altre parole che finivano con «Alleluia!» Al principio i prigionieri avevano fatto dei segni di croce e si erano inginocchiati ad ogni segno di fermata; poi non s’inchinarono che ogni due fermate, poi ogni tre, e furono contentissimi quando tutto fu finito. Dopo aver dato un sospiro di sollievo, il sacerdote riprese il suo breviario e tornò dietro la divisione. Ma restava l’ultimo atto: il sacerdote prese sulla grande tavola una croce dorata, le cui estremità erano ornate da medaglioni smaltati e si avanzò nel mezzo della chiesa. Tutti cominciarono a sfilare, e a baciare la croce; dapprima il direttore, poi i custodi, indi passarono i prigionieri spingendosi l’un l’altro e ingiuriandosi sottovoce. Mentre il sacerdote parlava con il direttore, porgeva la croce o la mano sulla bocca, e talvolta sul naso dei prigionieri, i quali si sforzavano di baciare l’una e l’altra. Così finì l’ufficio cristiano, celebrato per la consolazione e l’insegnamento del prossimo traviato.

XL
Ed a nessuno dei presenti, a cominciare dal sacerdote e dal direttore per finire con la Maslova, venne in mente che quello stesso Gesù, il cui nome era stato ripetuto con un fischio centinaia di volte, che quello stesso Gesù le cui lodi erano state cantate in termini così stravaganti, ha proibito appunto tutto ciò che era stato fatto in quella chiesa, che ha proibito non solo quella sciocca magniloquenza e quella sacrilega stregoneria sul pane e sul vino, ma che ha pure vietato, nei termini più precisi, agli uomini di chiamare altri uomini col nome di pastori, che ha proibito le preghiere nei templi, e comandato di pregare isolatamente nella solitudine, dicendo che era venuto per distruggere i templi e che bisogna pregare solo nell’anima e nella verità; che ha vietato poi, in modo più speciale, di giudicare gli uomini, di tenerli prigioni, di tormentarli, di punirli, di martirizzarli come si faceva in quel locale, dicendo che era venuto in terra per liberare tutti i prigionieri.
Nessuno degli astanti rifletté che quello che si commetteva in quel luogo era la più grande bestemmia e la più sanguinosa ingiuria contro quello stesso Cristo, in nome del quale si facevano tutte quelle funzioni. Nessuno pensò che la croce dorata, coi suoi medaglioni dorati, portata dal sacerdote e baciata dai fedeli, non era che la riproduzione della forca sulla quale Cristo fu messo in supplizio, perché egli aveva proibito quegli stessi atti che si commettevano qui in nome suo. Nessuno pensò che i sacerdoti, figurandosi di mangiare la carne e bere il sangue di Cristo, sotto l’aspetto di pane e di vino, non solo inducono in errore gli umili coi quali Cristo si è identificato, ma che fanno perdere loro il più gran bene e li spingono nelle più atroci sofferenze nascondendo loro la rivelazione della felicità che egli aveva portato loro!
Il sacerdote eseguiva queste cerimonie con la coscienza tranquilla, perché, fino dall’infanzia, gli avevano inculcato che esse erano la vera ed unica credenza, professata da tutti i santi, e adottate al giorno d’oggi da tutte le autorità spirituali e temporali. Egli non credeva certamente al fatto della trasformazione del pane in carne, né che la fraseologia ecclesiastica fosse utile all’anima, né di aver mangiato veramente un pezzetto di Dio, - a questo è impossibile credere, - ma credeva esser necessario prestar fede a questa credenza. E ciò che lo confermava specialmente in questa credenza, era di aver ricavato tanti utili dall’esercizio del suo sacerdozio, in diciotto anni, da aver potuto assicurare la vita della sua famiglia, da poter mandare suo figlio al ginnasio e sua figlia alla scuola ecclesiastica. Identica ed ancora più salda era la credenza del sagrestano, poiché egli aveva completamente dimenticato l’essenza dei dogmi della sua fede e sapeva soltanto che le preghiere per i morti, che le quarant’ore, che le messe semplici e le messe cantate, che tutte queste varie funzioni avevano un prezzo fisso, pagato volentieri dai veri cristiani. Per la qual cosa egli declamava i suoi «miserere», leggeva e cantava tutto ciò che imponeva la regola, con quella stessa tranquilla sicurezza che caratterizza la necessità, per altri uomini, di vendere della legna, della farina, delle patate. Il direttore della prigione e i sorveglianti – benché non avessero mai cercato di sapere in che consistessero i dogmi di questa fede, né ciò che significassero quelle cerimonie chiesastiche – credevano che era assolutamente necessario credere in quella fede perché l’autorità superiore, e lo stesso zar, vi credevano. Oltre di ciò sentivano, ma vagamente, (perché non sapevano spiegarselo) che quella fede giustificava la crudeltà delle loro funzioni. Se quella religione non fosse esistita, sarebbe stato loro difficile, anzi impossibile, di adoperare tutti i loro sforzi per martirizzare gli uomini, come facevano ora, con la coscienza serena. Il direttore della prigione era un ottimo uomo e non avrebbe potuto vivere a quel modo se non avesse trovato un appoggio in quella religione. Perciò egli era rimasto immobile e rigido e aveva fatto molti inchini ed innumerevoli segni di croce, e si era intenerito quando avevano cantato i «Cherubini»; e quando era cominciata la comunione dei bambini, egli si era avvicinato per sollevare un bambinello e lo aveva tenuto fra le braccia mentre riceveva l’eucarestia.
In quanto ai prigionieri, – salvo pochissimi fra di loro, i quali vedevano chiaramente tutto l’inganno che quella fede produceva fra gli uomini, e che ne ridevano internamente, – la gran maggioranza credeva che appunto in quelle immagini dorate, in quei ceri, in quelle tazze, in quelle stole, in quelle croci, in quelle parole così spesso ripetute: «Gesù dolcissimo, miserere!» risiedesse la forza misteriosa, mercé la quale si potevano acquistare grandi vantaggi in questa vita e in quella futura. Benché molti di essi avessero, più di una volta, tentato, ma senza risultato alcuno, di acquistare anch’essi i vantaggi terreni per mezzo di quelle preghiere, messe, ceri, ognuno era fermamente convinto che quel loro insuccesso era accidentale, e che quell’istituzione era assai importante, indispensabile se non per questa vita, almeno per la vita futura.
Così credeva pure la Maslova. Ella, come gli altri, provava durante la messa un sentimento misto di devozione e di noia. Da principio, stando in mezzo alla folla, non aveva potuto vedere che le sue compagne; ma quando i fedeli si erano spinti in avanti essa pure si avanzò con Fedos’ja e poté vedere l’ispettore, i soprastanti e dietro di essi un contadino con una barbetta bionda e capelli rossi, il marito di Fedos’ja che guardava con occhi fissi la moglie. Da quel momento, ella si divertì ad esaminarlo ed a sussurrare con Fedos’ja che egli s’inchinava e faceva il segno della croce solo quando vedeva che tutti lo facevano.