lunedì 12 febbraio 2018

161 Il ladro di stuoie (di Lev Tolstoj)



Il principe Nechljudov, protagonista di “Resurrezione”, si rende conto progressivamente del male che nasce dalla vita oziosa e dissoluta di quelli come lui, e dell’insensatezza delle istituzioni che non solo non eliminano le cause del degrado sociale della Russia, ma anzi le alimentano e le perpetuano. Dopo aver assistito in tribunale al dibattimento contro Katjuša, che ha sedotto e abbandonato spingendola sulla via della prostituzione, segue anche il processo contro un giovane responsabile di un furto di nessuna importanza.  Matura così in lui il disagio morale contro una società che non insegna il bene e punisce chi si comporta esattamente secondo i dettami di una tale società.
Il racconto è parte del capitolo XXXIV del romanzo.

L’imputato era un giovanotto di venti anni, dalle spalle strette, dal viso esangue vestito di un cappotto grigio. Fiancheggiato da due gendarmi colla spada sguainata, egli lanciava degli sguardi furtivi a ogni nuovo venuto. Aiutato da un compagno, quel giovanotto aveva scassinato la porta di una rimessa e si era impadronito di un pacco di vecchie stuoie del valore complessivo di tre rubli e sessantasette copeche. L’atto di accusa diceva che un poliziotto aveva arrestati i ladri mentre tentavano di scappare portandosi via il bottino. Avevano confessato tutto ed erano stati messi in prigione. Il compagno del ragazzo, che era un meccanico, vi era morto; e questa era la ragione per cui egli veniva processato da solo. Le vecchie stuoie stavano sul tavolo dei corpi del reato.
Il processo si svolse esattamente come il giorno prima, con tutto l’arsenale di prove, indizi, testimoni e relativo giuramento, interrogatorio degli esperti e domande incrociate. Il poliziotto (che aveva arrestato l’accusato) rispondeva invariabilmente a tutte le domande del presidente, del sostituto, dell’avvocato, con dei: «Signorsì!», «Non posso saperlo!» e di nuovo «Signorsì!», ma, nonostante la sua ottusità e la sua rigidezza militare, si vedeva che compiangeva l’accusato e non si mostrava superbo della sua cattura.
Il secondo testimone, la parte lesa, un vecchietto bilioso, proprietario delle stuoie e della casa in cui era avvenuto il furto, rispondeva con evidente cattiva volontà che egli riconosceva il corpo del delitto. E, quando il sostituto gli chiese che uso avesse l’intenzione di farne e se gli servissero assai, rispose con voce irritata:
- Che il diavolo si porti via queste stuoie che non mi servono affatto! Darei volentieri dieci ed anche venti rubli, per evitarmi tante noie. Per sole carrozze da nolo ho speso più di cinque rubli! E sono ammalato! Ho un’ernia e dei reumatismi.
Tale era la deposizione dei testimoni. In quanto all’accusato, egli confessava tutto quello che era successo. Simile ad una bestia presa in trappola, cogli occhi spaventati e la testa voltata ora di qui ora di là, raccontava ingenuamente e con voce interrotta tutto ciò che aveva fatto.
Il caso era chiarissimo; ma il sostituto procuratore, come il giorno prima, alzava le spalle, si studiava di fare delle domande insidiose, quasi volesse confondere l’accusato e smascherare le sue astuzie.
Nella sua requisitoria egli concluse che il furto era stato fatto con effrazione in una casa chiusa, e che meritava, in conseguenza, il più severo castigo.
Da parte sua l’avvocato destinato d’ufficio, stabilì che il furto era stato consumato in una parte di abitazione non chiusa; e, benché non potesse negare il delitto, affermò che l’accusato non era così pericoloso per la società come aveva detto il sostituto.
Poi il presidente, sforzandosi di essere altrettanto imparziale quanto il giorno prima, spiegò ai giurati, punto per punto, tutto ciò che essi sapevano dell’affare, e ciò che essi non avevano il diritto di ignorare. Si sospese l’udienza, e, come il giorno prima, i giurati fumarono le loro sigarette; poi, l’usciere annunciò: «Entra la Corte!», e così, pure come il giorno prima, i due gendarmi, cercando di non addormentarsi, sedettero con le armi sguainate a minacciare il criminale.
Dal dibattimento emerse che quel ragazzo fin da bambino era stato posto dal padre in una fabbrica di tabacchi, dove era rimasto per cinque anni. Quell’anno era stato licenziato in seguito ad un alterco tra il direttore della fabbrica ed i suoi operai. Allora, rimasto senza lavoro, girava sfaccendato per la città, bevendosi gli ultimi soldi. In un’osteria aveva incontrato un altro come lui, un operaio meccanico, del pari disoccupato, e che beveva parecchio. Una notte in cui erano entrambi ubriachi, avevano scassinato la porta di una rimessa e si erano impadroniti del primo oggetto capitato loro sottomano. Li avevano afferrati ed essi avevano confessato tutto. Il meccanico era morto in prigione ed il suo complice era comparso innanzi al giurì come un essere pericoloso che minacciasse la società. «Pericoloso quanto la condannata di ieri! - pensava Nechljudov, ascoltando quanto si svolgeva dinanzi a lui. - Loro sono pericolosi, e noi non lo siamo? Io sono un dissoluto, un libertino, un traditore, e tutti noi, tutti quelli che, conoscendomi così come sono, non solo non mi disprezzavano, ma mi rispettavano? Ma se anche fosse questo ragazzo la persona più pericolosa per la società fra tutta la gente che si trova in quest’aula, che cosa bisognerebbe fare, secondo il buon senso, ora che l’abbiamo in mano nostra?
«Perché è evidente che questo ragazzo non è un malfattore speciale, ma una persona comunissima, lo vedono tutti, e che si è ridotto così solo perché si è trovato nelle condizioni che generano le persone come lui. E perciò mi sembra chiaro che perché non ci siano ragazzi simili bisogna sforzarsi di eliminare le condizioni in cui si formano questi infelici. 
«E invece cosa facciamo? Acciuffiamo il primo ragazzo del genere che ci capita sotto mano per caso, sapendo benissimo che migliaia di altri restano impuniti, e lo rinchiudiamo in prigione, in condizioni di ozio assoluto e del più malsano e insensato lavoro, in compagnia di persone indebolite e smarrite nella vita come lui, e poi lo deportiamo a spese dello stato, insieme alla gente più depravata, dal governatorato di Mosca a quello d’Irkutsk.
«E per eliminare le condizioni che generano tali persone non solo non facciamo nulla, ma anzi promuoviamo le istituzioni in cui si producono. E si sa quali sono queste istituzioni: fabbriche, officine, laboratori, osterie, bettole, case di tolleranza. E non solo non eliminiamo tali istituzioni, ma ritenendole necessarie le promuoviamo, le regolamentiamo.
«E così educhiamo non uno, ma milioni di uomini, e poi ne acciuffiamo uno e c’immaginiamo di aver fatto qualcosa, di esserci tutelati, e che ormai non si possa pretendere altro da noi: l’abbiamo tradotto dal governatorato di Mosca a quello d’Irkutsk, - pensava Nechljudov con insolita lucidità e chiarezza, seduto sulla sua sedia vicino al colonnello, mentre ascoltava le diverse intonazioni delle voci del difensore, del procuratore e del presidente, e guardava i loro gesti sicuri. - E poi quanti e quali strenui sforzi costa questa finzione, - continuava a pensare Nechljudov, osservando quella sala enorme, quei ritratti, le lampade, le poltrone, le uniformi, quei muri spessi, le finestre, ricordando tutta la mole di quell’edificio e la mole ancor maggiore dell’istituzione stessa, tutto l’esercito di funzionari, scrivani, custodi, fattorini, non solo lì, ma in tutta la Russia, che ricevevano uno stipendio per quella commedia che non serviva a nessuno. - Che accadrebbe si indirizzassimo anche solo la centesima parte di questi sforzi per aiutare le creature derelitte a cui ora guardiamo come a braccia e corpi necessari alla nostra tranquillità e comodità? Perché sarebbe bastato che si trovasse una persona - pensava Nechljudov guardando il viso malato e impaurito del ragazzo, - che s’impietosisse di lui, fin da quando la miseria spinse i suoi a mandarlo in città dalla campagna, e soccorresse quella miseria; o anche quando era già in città e dopo dodici ore di lavoro in fabbrica si faceva trascinare in osteria dai compagni più grandi, se allora si fosse trovata una persona che gli dicesse: “Non andarci, Vanja, non è bene”, quel ragazzo non ci sarebbe andato, non avrebbe perso tempo in chiacchiere e non avrebbe fatto nulla di male.
«Ma di persone che s’impietosissero di lui non se n’era trovata neanche una in tutto quel tempo, mentre come una bestiolina viveva in città i suoi anni di apprendistato, e rapato a zero per non prendersi i pidocchi correva a far compere per gli operai; al contrario, tutto ciò che aveva sentito da operai e compagni da quando viveva in città era che è in gamba chi inganna, chi beve, chi bestemmia, chi picchia e conduce una vita viziosa. Quando poi, ammalato e corrotto da un lavoro malsano, dal bere e dal vizio, inebetito e sventato, come in sogno, bighellonando senza meta per la città va a introdursi stupidamente in una rimessa e ne ruba delle stuoie che non servono a nessuno, allora noi tutti, uomini agiati, ricchi, colti, che non ci siamo affatto preoccupati di eliminare le cause che hanno condotto quel ragazzo alla sua attuale situazione, pretendiamo per giunta di rimediare punendo il ragazzo.
«Orrore! Non sai se qui è più la crudeltà o il nonsenso. Ma pare che sia l’una che l’altro abbiano raggiunto il colmo».
Nechljudov pensava a tutto ciò, e ormai non ascoltava più quello che gli si svolgeva dinanzi. E inorridiva egli stesso di ciò che gli si andava rivelando. Si stupiva di come avesse potuto non vederlo prima, di come avessero potuto non vederlo gli altri.




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