martedì 13 febbraio 2018

162 La messa in carcere (di Lev Tolstoj)



Se qualcuno si chiede perché Tolstoj sia stato scomunicato dalla Chiesa, legga questo brano (corrispondente ai capitoli XXXIX e XL del romanzo “Resurrezione”): vi si descrive una messa celebrata nella chiesa della prigione in cui si trova Katjuša (qui identificata con il suo nome originario di Maslova), a edificazione dei carcerati. Nessuno, dice Tolstoj, si rende conto che quella cerimonia è la più grande profanazione e derisione di Cristo e dei suoi insegnamenti.
È una pagina terribile, ancor oggi condivisibile nella descrizione di una fede superficiale e valida in molte chiese.

XXXIX
La messa incominciò.
Questa messa si svolgeva nel modo seguente: il sacerdote, con indosso un vestito di broccato, di forma assai strana e molto incomodo, tagliava dei pezzettini di pane e li disponeva sopra una sottocoppa, poi li metteva in una tazza di vino, borbottando intanto diversi nomi e preghiere. Nello stesso tempo, il sagrestano non la smetteva, prima, di leggere, poi, di cantare, alternando col coro dei prigionieri, certe preghiere slave, per sé stesse poco intelligibili e che lo diventavano ancora maggiormente a causa della rapidità colla quale venivano recitate. Il contenuto di quelle preghiere era specialmente destinato ad augurare il benessere all’Imperatore ed alla sua famiglia. Preghiere a tale scopo si ripetevano ogni tanto, separatamente o unite ad altre, e sempre in ginocchio. Oltre di ciò, il sagrestano leggeva alcuni versetti degli atti degli Apostoli, con voce così strana e nasale che non era possibile capirne un’acca, ed il sacerdote invece leggeva assai chiaramente un brano del Vangelo di S. Marco, nel quale è detto che Gesù Cristo, risorto, prima di volare in cielo per sedersi alla destra di suo padre, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale cacciò sette demoni, e poi agli undici apostoli, ai quali comandò di predicare il Vangelo a tutto l’universo, dichiarando che
chi non ci crederà, perirà, e che invece chi ci crederà sarà salvo, non solo, ma caccerà pure i demoni, guarirà la gente colla sola applicazione delle mani, parlerà lingue nuove, prenderà impunemente delle serpi, e se berrà del veleno, non ne morrà, ma resterà sano e salvo.
La sostanza della messa consisteva nella supposizione che i pezzettini di pane tagliati dal sacerdote e messi nel vino, dopo certe manipolazioni e preghiere, si cambiassero in corpo ed in sangue di Dio. Queste manipolazioni consistevano nel fatto che il sacerdote – non badando all’impiccio che gli dava il sacco di broccato che aveva indosso – alzava ogni tanto le due braccia e le teneva qualche tempo in su, poi le abbassava fino alle ginocchia, e baciava la tavola e ciò che vi si trovava sopra. Ma il punto più importante della cerimonia era quando il Sacerdote, presa una salvietta con ambo le mani, l’agitava in cadenza al disopra della sottocoppa e della tazza dorata. Si presumeva che proprio in quel momento il pane ed il vino si cambiassero in corpo ed in sangue, ed è perciò che quella parte della cerimonia era circondata da una solennità speciale.
«Preghiamo con fervore la santissima, la purissima, la beatissima Vergine Madre!» gridava dopo a voce alta il sacerdote, nascosto dietro una divisione, ed il coro intonava solennemente un canto che diceva che sta molto bene il lodare la Vergine Maria che diede alla luce Cristo conservando la verginità, la quale per questo merita più onore che certi cherubini, e più gloria che non certi serafini. Dopo ciò era ammesso che il cambiamento fosse avvenuto, ed il sacerdote, tolta la salvietta dalla sottocoppa, tagliò in quattro parti il pezzettino di mezzo, lo immerse prima nel vino e poi lo mise in bocca. Si presumeva che avesse mangiato un bocconcino del corpo di Dio e che avesse bevuto un sorso del suo sangue. Dopo di ciò il sacerdote tirò una tenda, aprì la porta centrale, e presa in mano la tazza dorata, uscì per quella porta ed invitò i fedeli a mangiare pur essi il corpo del Signore ed a bere del suo sangue, i quali erano ancora nel sottocoppa.
Si presentarono alcuni bambini.
Avendo prima domandato a quei bambini i loro nomi, il sacerdote tolse accuratamente, con un cucchiaino, un pezzetto di pane intinto nel vino, e lo ficcò profondamente in bocca al primo fanciullo, poi al secondo, e così di seguito, ed il sagrestano, dopo aver asciugato la bocca ad ognuno dei bambini, intonò con voce allegra un canto nel quale è detto che essi mangiano il corpo di Dio e bevono il suo sangue. Fatto questo, il sacerdote riportò la tazza dietro la divisione, e, bevuto tutto quello che ci rimaneva del sangue del Signore e mangiati tutti i pezzettini del Suo corpo, si leccò accuratamente i baffi, si asciugò ben bene la bocca, come pure la tazza, poi nella più allegra disposizione d’animo e facendo scricchiolare la suola dei suoi stivali, uscì di nuovo di dietro la divisione.
Così terminò la parte principale della messa. Ma il sacerdote, desideroso di consolare gli sventurati prigionieri, ci aggiunse una parte secondaria. Questa seconda cerimonia si svolse come segue: il sacerdote si piazzò davanti all’immagine (dal volto e dalle mani nere) di quello stesso Dio che aveva poc’anzi mangiato e che era illuminato da una decina di ceri, e con voce strana, tutta in falsetto, incominciò ora a cantare, ora a recitare le parole seguenti:
«O Gesù dolcissimo, gloria degli apostoli, Gesù lode dei martiri, Signore onnipossente, salvami! Gesù mio, bellissimo, ricorro a Te, salvami! Abbi pietà di me, per le preghiere della madre tua, Gesù, e di tutti i Tuoi santi e di tutti i profeti, salvami, Gesù mio! E concedimi i godimenti del paradiso. Gesù misericordioso!»
A questo punto si fermò, respirò, fece il segno della croce, s’inchinò fino a terra, e tutti lo imitarono. S’inchinarono il direttore, il carceriere, i detenuti; e nell’alto della navata, le catene dei prigionieri risuonarono maggiormente.
«Creatore degli angeli e signore delle potenze, - continuò il prete, - Gesù meraviglioso, meraviglia degli angeli, Gesù Onnipotente, salvatore degli avi! Dolce Gesù, grandezza dei Patriarchi! Glorioso Gesù, potenza dei re! Beato Gesù, volontà dei Profeti! Splendido Gesù, fermezza dei martiri! Rassegnato Gesù, gioia dei monaci! Gesù misericordioso, dolcezza dei preti! Magnanimo Gesù, astinenza dei digiunatori! Dolcissimo Gesù, felicità dei santi! Purissimo Gesù, castità delle vergini! Eterno Gesù, salute dei peccatori! Gesù figlio di Dio, abbi pietà di noi!» – era il punto di fermata ed il nome di «Gesù» fu pronunciato con un fischio stridente. Il prete sollevò con una mano la sottana foderata di seta, piegò un ginocchio e s’inchinò fino a terra, mentre il coro cantava le ultime parole: «Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di noi!»
I prigionieri caddero in ginocchio e si rialzarono nuovamente, scotendo i capelli rimasti sopra una metà del capo, e facendo risuonare i ferri che illividivano le gambe dimagrate.
La funzione durò ancora per molto tempo. Da principio erano delle lodi che finivano con le parole: «Abbi pietà di noi!» Poi altre parole che finivano con «Alleluia!» Al principio i prigionieri avevano fatto dei segni di croce e si erano inginocchiati ad ogni segno di fermata; poi non s’inchinarono che ogni due fermate, poi ogni tre, e furono contentissimi quando tutto fu finito. Dopo aver dato un sospiro di sollievo, il sacerdote riprese il suo breviario e tornò dietro la divisione. Ma restava l’ultimo atto: il sacerdote prese sulla grande tavola una croce dorata, le cui estremità erano ornate da medaglioni smaltati e si avanzò nel mezzo della chiesa. Tutti cominciarono a sfilare, e a baciare la croce; dapprima il direttore, poi i custodi, indi passarono i prigionieri spingendosi l’un l’altro e ingiuriandosi sottovoce. Mentre il sacerdote parlava con il direttore, porgeva la croce o la mano sulla bocca, e talvolta sul naso dei prigionieri, i quali si sforzavano di baciare l’una e l’altra. Così finì l’ufficio cristiano, celebrato per la consolazione e l’insegnamento del prossimo traviato.

XL
Ed a nessuno dei presenti, a cominciare dal sacerdote e dal direttore per finire con la Maslova, venne in mente che quello stesso Gesù, il cui nome era stato ripetuto con un fischio centinaia di volte, che quello stesso Gesù le cui lodi erano state cantate in termini così stravaganti, ha proibito appunto tutto ciò che era stato fatto in quella chiesa, che ha proibito non solo quella sciocca magniloquenza e quella sacrilega stregoneria sul pane e sul vino, ma che ha pure vietato, nei termini più precisi, agli uomini di chiamare altri uomini col nome di pastori, che ha proibito le preghiere nei templi, e comandato di pregare isolatamente nella solitudine, dicendo che era venuto per distruggere i templi e che bisogna pregare solo nell’anima e nella verità; che ha vietato poi, in modo più speciale, di giudicare gli uomini, di tenerli prigioni, di tormentarli, di punirli, di martirizzarli come si faceva in quel locale, dicendo che era venuto in terra per liberare tutti i prigionieri.
Nessuno degli astanti rifletté che quello che si commetteva in quel luogo era la più grande bestemmia e la più sanguinosa ingiuria contro quello stesso Cristo, in nome del quale si facevano tutte quelle funzioni. Nessuno pensò che la croce dorata, coi suoi medaglioni dorati, portata dal sacerdote e baciata dai fedeli, non era che la riproduzione della forca sulla quale Cristo fu messo in supplizio, perché egli aveva proibito quegli stessi atti che si commettevano qui in nome suo. Nessuno pensò che i sacerdoti, figurandosi di mangiare la carne e bere il sangue di Cristo, sotto l’aspetto di pane e di vino, non solo inducono in errore gli umili coi quali Cristo si è identificato, ma che fanno perdere loro il più gran bene e li spingono nelle più atroci sofferenze nascondendo loro la rivelazione della felicità che egli aveva portato loro!
Il sacerdote eseguiva queste cerimonie con la coscienza tranquilla, perché, fino dall’infanzia, gli avevano inculcato che esse erano la vera ed unica credenza, professata da tutti i santi, e adottate al giorno d’oggi da tutte le autorità spirituali e temporali. Egli non credeva certamente al fatto della trasformazione del pane in carne, né che la fraseologia ecclesiastica fosse utile all’anima, né di aver mangiato veramente un pezzetto di Dio, - a questo è impossibile credere, - ma credeva esser necessario prestar fede a questa credenza. E ciò che lo confermava specialmente in questa credenza, era di aver ricavato tanti utili dall’esercizio del suo sacerdozio, in diciotto anni, da aver potuto assicurare la vita della sua famiglia, da poter mandare suo figlio al ginnasio e sua figlia alla scuola ecclesiastica. Identica ed ancora più salda era la credenza del sagrestano, poiché egli aveva completamente dimenticato l’essenza dei dogmi della sua fede e sapeva soltanto che le preghiere per i morti, che le quarant’ore, che le messe semplici e le messe cantate, che tutte queste varie funzioni avevano un prezzo fisso, pagato volentieri dai veri cristiani. Per la qual cosa egli declamava i suoi «miserere», leggeva e cantava tutto ciò che imponeva la regola, con quella stessa tranquilla sicurezza che caratterizza la necessità, per altri uomini, di vendere della legna, della farina, delle patate. Il direttore della prigione e i sorveglianti – benché non avessero mai cercato di sapere in che consistessero i dogmi di questa fede, né ciò che significassero quelle cerimonie chiesastiche – credevano che era assolutamente necessario credere in quella fede perché l’autorità superiore, e lo stesso zar, vi credevano. Oltre di ciò sentivano, ma vagamente, (perché non sapevano spiegarselo) che quella fede giustificava la crudeltà delle loro funzioni. Se quella religione non fosse esistita, sarebbe stato loro difficile, anzi impossibile, di adoperare tutti i loro sforzi per martirizzare gli uomini, come facevano ora, con la coscienza serena. Il direttore della prigione era un ottimo uomo e non avrebbe potuto vivere a quel modo se non avesse trovato un appoggio in quella religione. Perciò egli era rimasto immobile e rigido e aveva fatto molti inchini ed innumerevoli segni di croce, e si era intenerito quando avevano cantato i «Cherubini»; e quando era cominciata la comunione dei bambini, egli si era avvicinato per sollevare un bambinello e lo aveva tenuto fra le braccia mentre riceveva l’eucarestia.
In quanto ai prigionieri, – salvo pochissimi fra di loro, i quali vedevano chiaramente tutto l’inganno che quella fede produceva fra gli uomini, e che ne ridevano internamente, – la gran maggioranza credeva che appunto in quelle immagini dorate, in quei ceri, in quelle tazze, in quelle stole, in quelle croci, in quelle parole così spesso ripetute: «Gesù dolcissimo, miserere!» risiedesse la forza misteriosa, mercé la quale si potevano acquistare grandi vantaggi in questa vita e in quella futura. Benché molti di essi avessero, più di una volta, tentato, ma senza risultato alcuno, di acquistare anch’essi i vantaggi terreni per mezzo di quelle preghiere, messe, ceri, ognuno era fermamente convinto che quel loro insuccesso era accidentale, e che quell’istituzione era assai importante, indispensabile se non per questa vita, almeno per la vita futura.
Così credeva pure la Maslova. Ella, come gli altri, provava durante la messa un sentimento misto di devozione e di noia. Da principio, stando in mezzo alla folla, non aveva potuto vedere che le sue compagne; ma quando i fedeli si erano spinti in avanti essa pure si avanzò con Fedos’ja e poté vedere l’ispettore, i soprastanti e dietro di essi un contadino con una barbetta bionda e capelli rossi, il marito di Fedos’ja che guardava con occhi fissi la moglie. Da quel momento, ella si divertì ad esaminarlo ed a sussurrare con Fedos’ja che egli s’inchinava e faceva il segno della croce solo quando vedeva che tutti lo facevano.




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