martedì 29 agosto 2017

101 Il prepotente (di Ian McEwan)




Dopo quella precedente (post numero 100), un’altra storia di bullismo, che si risolve però in maniera positiva. Perché nei racconti succede così, mentre nella realtà le cose non finiscono sempre bene.
Il brano è tratto da “L’inventore di sogni”, un romanzo del 1993, che narra la crescita di un adolescente attratto dal mondo dei sogni.

C’era un prepotente nella classe di Peter; si chiamava Barry Tamerlane. Non aveva l’aria da prepotente. Non era di quelli sempre tutti sporchi; non aveva una faccia brutta, e neppure lo sguardo da far paura o le croste sopra le dita, e non girava armato. Non era poi tanto grosso. Ma nemmeno di quei tipi piccoli, ossuti e nervosi che quando fanno la lotta possono diventare cattivi. A casa non lo picchiavano, come spesso succede ai prepotenti, e neanche lo viziavano. Aveva genitori gentili ma fermi, che non sospettavano nulla.
La voce non ce l’aveva né acuta né rauca; gli occhi, non particolarmente piccoli e cattivi, e non era neppure troppo cretino. Anzi, a guardarlo era bello morbido e tondo, pur senza essere grasso; portava gli occhiali e, sulla sua faccia soffice e rosa luccicava l’argento dell’apparecchio dei denti. Spesso metteva su un’aria triste e innocente che a certi grandi piaceva e che gli tornava comoda quando doveva togliersi dai guai.
Come si spiega allora che Barry Tamerlane riuscisse tanto bene a fare il prepotente? Peter aveva dedicato a questa domanda un bel po’ di pensieri. Ed era giunto alla conclusione che il successo di Barry avesse due spiegazioni. La prima era che Barry sembrava capace di ridurre al minimo i tempi tra il volere una cosa e l’ottenerla. Supponiamo ad esempio che gli andasse a genio il giocattolo che aveva un bambino in cortile: lui non faceva altro che strapparglielo di mano. Oppure se in classe gli serviva una matita, si voltava e “prendeva in prestito” quella di un compagno. Se c’era da fare una coda, lui si metteva per primo. Se ce l’aveva con qualcuno, glielo diceva in faccia e poi lo picchiava senza pietà.
La seconda ragione del successo di Tamerlane era che di lui avevano tutti paura. Non si sapeva bene perché. Bastava sentirlo nominare per provare una specie di pugno gelato alla bocca dello stomaco. Uno aveva paura, perché ce l’avevano gli altri. Barry metteva paura, perché aveva la reputazione di uno che mette paura. Vedendolo arrivare, la gente se ne stava alla larga, e se chiedeva caramelle o un giocattolo, se le vedeva subito consegnare. Facevano tutti così, perciò sembrava logico non fare in modo diverso.
Barry Tamerlane era potente in tutta la scuola. Nessuno poteva impedirgli di prendersi quel che voleva. Neanche lui stesso. Era una forza cieca.
A volte Peter pensava che fosse come un robot programmato per fare tutto quel che doveva. Che strano che non gli importasse di essere senza amici, o di essere odiato ed evitato da tutti.
Naturalmente, Peter si teneva lontano da quel prepotente, ma provava per lui un interesse speciale. Barry Tamerlane era un mistero.
Quando compì undici anni, Barry invitò a casa una dozzina di compagni. Peter cercò di salvarsi, ma i suoi genitori furono irremovibili. Dal canto loro trovavano simpatici la mamma e il papa di Barry e perciò, in base a una logica adulta, Peter doveva trovare simpatico il figlio.
Il festeggiato tutto sorridente accolse i bambini sulla porta di casa. «Salve Peter! Grazie! Ehi, Mamma, guarda che cosa mi ha regalato il mio amico Peter!»
Quel pomeriggio, Barry fu cortese con tutti i suoi ospiti. Partecipava alle gare, senza pretendere di vincere sempre, soltanto perché era il suo compleanno. Rideva con i genitori e versava da bere, e aiutò addirittura a rimettere in ordine e a lavare i piatti.
A un certo momento della festa, Peter sbirciò nella stanza di Barry. C’erano libri dappertutto, una pista da trenino montata sul pavimento, un vecchio orso di pezza sul letto appoggiato al cuscino, una scatola del piccolo chimico, un gioco elettronico: una stanza identica in tutto e per tutto alla sua.
Alla fine del pomeriggio, Barry salutò Peter con una pacca sul braccio e gli disse: «A domani Peter». Allora Barry Tamerlane ha una doppia vita, pensava Peter tornando a casa. Ogni mattina in un determinato punto del tragitto tra casa e scuola, il bambino si trasforma in un mostro, e la sera, il mostro ritorna bambino. Questi pensieri portarono Peter a fantasticare su pozioni e incantesimi che trasformano le persone; poi però, nelle settimane che seguirono la festa di compleanno, si scordò tutto quanto. È già un mistero che riusciamo a vivere circondati da tanti misteri, e in fondo l’universo è pieno di enigmi ben più straordinari di quello di Barry Tamerlane.
Uno di questi enigmi aveva ingombrato la mente di Peter piuttosto spesso negli ultimi tempi. Camminando nel corridoio della scuola diretto alla biblioteca, aveva incrociato due ragazze delle classi alte. Una delle due stava dicendo all’amica: «Ma come fai a sapere che adesso non stai sognando? Magari stai solo sognando di parlare con me».
«Be',» disse l'amica, «basta che mi dia un pizzico: se mi fa male, mi sveglio».
«Ma prova a pensare,» disse la prima, «se stessi solo sognando di pizzicarti, e anche di aver sentito male. Potrebbe essere tutto un sogno e tu non lo sapresti mai...»
Svoltarono l’angolo e sparirono.
Peter rimase a riflettere. Quell’idea era venuta in mente anche a lui, ma non era mai riuscito a formularla con altrettanta chiarezza. Si guardò intorno. Lui con il libro della biblioteca in mano, il corridoio grande pieno di luce, le aule che si aprivano a destra e sinistra, i bambini che uscivano: forse non c’era niente di vero. Forse erano solo il frutto dei suoi pensieri. Sul muro proprio accanto a lui c’era un estintore. Allungò una mano e lo toccò. Il metallo rosso era freddo al tatto. Era solido, reale.
Come avrebbe potuto non esserci? E del resto, nei sogni le cose andavano esattamente così: tutto sembrava vero. Era solo svegliandosi che uno si rendeva conto di avere sognato. Come poteva essere sicuro di non averlo sognato quell’estintore, con la vernice rossa e la sensazione di freddo?
Passavano i giorni e Peter pensava sempre di più a questo problema.
Un pomeriggio si trovava in giardino e improvvisamente si rese conto che se il mondo che vedeva lo stava semplicemente sognando, allora era lui a determinare tutto quel che c’era dentro e che capitava. In alto un aereo aveva iniziato la fase di atterraggio. Il sole ne accese le ali di un luccichio d’argento. Tutta quella gente che adesso stava tirando su il sedile e mettendo da parte i giornali, non poteva avere idea di essere solo sognata da un ragazzino laggiù sulla terra.
Era colpa sua? Che pensiero orribile! Comunque, se così fosse stato, tutti gli incidenti aerei non sarebbero stati veri, no? Sarebbero stati solo dei sogni. Ciononostante, Peter fissò l’aereo sulla sua testa e desiderò con tutte le forze che arrivasse sano e salvo in aeroporto. E così fu.
Un paio di sere dopo, la mamma di Peter entrò in camera sua per augurargli la buona notte. Proprio nell’attimo in cui le labbra sfioravano la sua guancia, Peter ebbe un altro di quei pensieri.
Se questo era un sogno, che ne sarebbe stato di sua madre al risveglio? Ce ne sarebbe stata un’altra, più o meno uguale, ma vera? Oppure una completamente diversa? O magari nessuna? Mrs. Fortune rimase piuttosto sconcertata, quando suo figlio le gettò le braccia intorno al collo e non voleva più lasciarla andar via.
Con l’andar dei giorni, a furia di rigirarsi in testa quel pensiero, Peter finì per convincersi che la sua vita fosse probabilmente soltanto un sogno. C’era qualcosa di simile a un sogno nel modo in cui i bambini al mattino si riversavano tutti a scuola, e nel modo in cui la voce della maestra fluttuava nell’aria dell’aula, e nel fruscio che faceva la sua gonna, quando si dirigeva verso la lavagna. Ed era decisamente da sogno, il modo in cui la maestra gli si parava di fronte all’improvviso per chiedergli:
«Peter? Peter? Mi ascolti? Stavi fantasticando di nuovo?»
Lui si sforzò di dirle la verità. «Credo di aver sognato che stavo fantasticando».
L’intera classe scoppiò a ridere. Meno male che Mrs. Burnett aveva un debole per lui. Gli passò una mano tra i capelli e disse: «Sta’ attento». Poi si avviò al fondo dell’aula.
Fu dunque così che quel giorno durante la ricreazione, Peter si ritrovò da solo ai margini del cortile. Guardando, chiunque avrebbe visto un bambino vicino al muro che fissava lo sguardo nel vuoto, senza fare niente. In realtà, Peter pensava molto intensamente. Era stato sul punto di addentare la mela, quand’ecco un’altra delle sue idee brillanti. Un’illuminazione. Se la vita era un sogno, allora la morte doveva essere il momento in cui ci si sveglia. Era talmente semplice che non poteva non essere così. Uno moriva, il sogno era finito, e ci si svegliava. Ecco perché la gente parlava di paradiso. Era come svegliarsi. Peter sorrise. Stava quasi per concedersi la ricompensa di un morso di mela, quando sollevò lo sguardo e si ritrovò gli occhi puntati sulla faccia rosa e tondetta di Barry Tamerlane, il prepotente della scuola.
Sorrideva, ma non aveva l’aria contenta. Sorrideva, perché voleva qualcosa. Aveva attraversato il cortile in diagonale, senza badare agli altri che giocavano a pallone, a campana e a saltare la corda. Tese molto semplicemente la mano e disse: «Voglio quella mela». Poi tornò a sorridere. Un raggio di sole illuminò l’argento del suo apparecchio.
Dovete sapere che Peter non era un codardo. Una volta era sceso zoppicando da una montagna del Galles con una caviglia slogata, senza un solo lamento. E un’altra volta, si era gettato nel mare in burrasca tutto vestito, per andare a salvare il cane di una signora dalle onde. Ma non aveva coraggio per le risse. Era più forte di lui. Era un ragazzino abbastanza robusto per la sua età, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito a vincere facendo la lotta, perché non ce l’avrebbe fatta a colpire un altro sul serio. Quando in cortile scoppiava una rissa, e tutti i bambini si facevano intorno a vedere, a Peter veniva la nausea e gli tremavano le ginocchia.
«Avanti,» disse Barry Tamerlane in tono ragionevole. «Passami quella mela, se non vuoi che ti disfi la faccia».
Peter sentì il gelo salirgli dai piedi e diffondersi in tutto il corpo. La mela era gialla striata di rosso. La buccia era un po’ vizza, perché se l’era portata a scuola una settimana prima ed era rimasta nel banco tutto quel tempo, emanando un profumo dolce di legno. Valeva la pena di farsi disfare la faccia per così poco? Certamente no. E d’altra parte, era giusto cederla, solo perché un prepotente la voleva?
Rivolse lo sguardo su Barry Tamerlane. Si era fatto un po’ più vicino. La sua faccia rotonda, da rosa era diventata rossa. Le lenti gli ingrandivano gli occhi. Una bollicina di saliva brillava sospesa tra il ferretto e uno dei denti davanti. Non era più grosso, e di sicuro, nemmeno più forte di Peter.
«Dai Peter! Fagli vedere!» disse qualcuno inutilmente. Barry Tamerlane si voltò lanciando un’occhiata cattiva, e il ragazzino si rintanò in fondo alla folla.
«Dai Barry! Tocca a te!» dicevano altre voci.
A Barry Tamerlane non piaceva essere contrastato. Si stava preparando a menare le mani. Voltandosi di profilo, stava già tirando all’indietro un pugno. Teneva le ginocchia leggermente piegate e ondeggiava di qua e di là. Sembrava sapere il fatto suo.
Altri bambini si radunavano in cerchio. Peter sentì l’annuncio diffondersi in tutto il cortile: «Si picchiano! Si picchiano!» Arrivava gente da tutte le direzioni.
Peter si sentiva il cuore battere forte dentro le orecchie. L’ultima volta che si era trovato in una situazione del genere, lui era un gatto che poteva contare sui trucchi di un essere umano (1), questa volta non era così facile. Cercando di prendere tempo, si passò la mela da una mano all’altra e disse: «La vuoi davvero questa mela?»
«Hai sentito benissimo,» replicò Tamerlane con voce monotona. «Quella mela è mia».
Peter osservò il bambino che si stava preparando a colpirlo e gli venne in mente... la festa di compleanno di tre settimane prima, quando Barry era stato così affettuoso e cordiale. E adesso, eccolo lì a fare tutte le smorfie possibili per sembrare cattivo. Che cosa gli faceva credere che quando era a scuola aveva il diritto di fare e di prendersi tutto ciò che voleva?
Peter osò distogliere un attimo lo sguardo dall’avversario e vide il cerchio di facce spaventate che gli si accalcavano intorno. Gli occhi spalancati, le bocche appese. Tamerlane il terribile stava per mettere a terra un bambino e nessuno poteva farci granché. Che cosa rendeva tanto potente il roseo, il paffuto Barry? E all’improvviso, dal nulla, Peter trovò la risposta. Ma è ovvio, pensò. Siamo noi. Siamo noi che lo abbiamo sognato come il prepotente della scuola. Non è più forte di nessuno di noi. Tutta la sua forza e il potere, ce la siamo sognata noi. Noi abbiamo fatto di lui quel che è. Quando va a casa e nessuno gli crede se fa il prepotente, allora torna se stesso.
Barry tornò a parlare. «È la tua ultima occasione. Dammi quella mela o preparati a fare un volo che ti porterà diretto dentro la settimana che viene».
Per tutta risposta, Peter si portò la mela alla bocca e ne staccò un gran morso. «Vuoi sapere una cosa?» - gli disse lentamente, senza smettere di masticare. «Io non ti credo. Anzi, se proprio vuoi saperlo, non credo nemmeno che tu esista».
La folla trattenne il fiato, qualcuno azzardò una risatina. Peter sembrava talmente sicuro di sé. Magari era vero. Persino Barry aggrottò le ciglia e smise di ondeggiare. «Che cosa hai detto?»
La paura di Peter era scomparsa del tutto. Se ne stava in piedi di fronte a Barry e gli rivolgeva un sorriso, come se avesse pietà del suo non esistere. Dopo settimane di elucubrazioni intorno alla natura di sogno della vita, Peter aveva deciso che nel caso del prepotente Barry le cose stavano sicuramente così, e che perciò, se anche l’avesse colpito in faccia con tutta la forza che aveva, non gli avrebbe fatto più male di quanto poteva fargliene un’ombra.
Barry si era ripreso e si preparava a combattere.
Peter staccò un altro morso di mela. Mise la faccia vicina a quella di Barry e lo squadrò come se avesse di fronte una vignetta buffa disegnata sul muro. «Tu non sei altro che un grasso budino rosa... coi denti di ferro.»
Ci fu uno scroscio di risa tra la folla che si diffuse, differenziandosi in risolini, sghignazzi e grida. I bambini si davano di gomito, battendosi sulle ginocchia. Fingevano, naturalmente. Ciascuno voleva dimostrare agli altri che gli era passata la paura. Frammenti di quell’insulto rimbalzarono di bocca in bocca: «Budino rosa... denti di ferro... un budino coi denti!». Peter sapeva di aver detto una crudeltà. Ma che importanza poteva avere? Tanto Barry non era vero. Adesso appariva di un bel rosa acceso, più di qualunque budino mai visto. Chissà come odiava essere lì.
Peter incalzò, prima che l’altro recuperasse la rabbia.
«Sono stato a casa tua. Ti ricordi? Per il tuo compleanno. Tu sei un bambino normale, tranquillo. Ti ho anche visto aiutare tua mamma a lavare i piatti...»
«Aaaaaaah,» fece eco la folla accompagnando l’esclamazione con una nota di caloroso disprezzo.
«Non è vero,» vomitò Barry. Aveva gli occhi lucidi.
«E poi ho guardato in camera tua e ho visto l’orsacchiotto ben rincalzato sotto le coperte.»
«Aaaaaaah,» gridò la folla, procedendo dalla sorpresa al più sincero sberleffo. «Uuuuuuuuh! Piccolino... pisciasotto... dorme soltanto con l’orsacchiotto... aaaaah.»
Va da sé che non c’era uno solo tra i presenti che non nascondesse una segreta passione per qualche vecchio animale di pezza malconcio e che non se lo coccolasse tutte le notti. Ma che soddisfazione, scoprire che il prepotente non era da meno.
È probabile che Barry Tamerlane avesse ancora in mente l’idea di picchiare Peter. Con il crescere delle grida di scherno, la sua mano si sollevò in un pugno poco convinto. E proprio a quel punto accadde una cosa terribile. Barry si mise a piangere. Inutile far finta di niente. Le lacrime gli correvano ai lati del naso senza che lui riuscisse a controllarle. Sussultava con tutto il corpo e di tanto in tanto tirava su un po’ d’aria per respirare. Ma la folla non ebbe pietà.
«Oh poverino, vuole la mamma...»
«No, l'orsacchiotto...»
«Uuuuuuuh! Che vergogna...»
Ormai il pianto era tanto dirotto che Barry non ebbe neppure la forza di allontanarsi. Rimase lì, in mezzo al cerchio degli altri bambini, a piangersi e a smoccolarsi dentro le mani. Erano tutti e tutto contro di lui. Nessuno gli credeva più. La bolla del sogno era scoppiata facendo svanire anche il prepotente di prima.
A poco a poco risa e battute si spensero in un silenzio imbarazzato che contagiò la folla. I bambini incominciarono ad allontanarsi per tornare a giocare. Una maestra attraversò di corsa il cortile, cinse col braccio le spalle del ragazzino rimasto solo e lo portò via, dicendo: «Povero caro! Qualcuno ti ha fatto un dispetto?»
Per il resto di quella mattina in classe, Barry rimase muto. Si ingobbì sul quaderno senza più alzare gli occhi per non incontrare lo sguardo degli altri. Sembrava che stesse cercando di farsi più piccolo, di sparire magari.
Peter, al contrario, si sentiva pieno di sé. Rientrò dal cortile e prese posto nel banco, proprio dietro a Barry, facendo finta di ignorare le strizzatine d’occhi e i sorrisi riconoscenti che lo circondavano. Aveva messo al tappeto quel prepotente senza bisogno di alzare un dito, e quasi tutta la scuola lo aveva visto. Era diventato un eroe, un conquistatore, superman. Non c’era impresa impossibile per la sua intelligenza superiore e per la sua astuzia.
Ma col passare delle ore, incominciò a sentirsi vagamente diverso. Le parole che aveva detto si misero a ossessionarlo. Le aveva dette davvero? Non poté non notare la sagoma ricurva di Barry Tamerlane davanti a lui. Peter si chinò e gli batté sulla schiena con il righello. Ma Barry scosse la testa e non rispose... Peter trasalì al ricordo di quel che aveva detto. Si sforzò di far mente locale su tutte le atrocità commesse da Barry. Cercò di concentrarsi sulla sua vittoria, ma non provava più alcuna soddisfazione. Si era preso gioco di Barry solo perché era grasso e portava l’apparecchio e aveva un orsacchiotto e aiutava sua mamma a lavare i piatti.  Certo, aveva voluto difendersi e dare una buona lezione a Barry, ma aveva finito col trasformarlo in un oggetto di scherno per tutta la scuola. Le sue parole gli avevano fatto molto più male di qualsiasi pugno sul naso. Lo avevano umiliato. E adesso il prepotente chi era?
Uscendo per l’intervallo del pranzo, Peter appoggiò un biglietto sul banco di Barry. C’era scritto: «Ti va di giocare a pallone? PS. Ce l’ho anch'io un orsacchiotto e devo sempre aiutare mia madre a lavare i piatti. Peter».
Barry era terrorizzato al pensiero di dover affrontare gli altri nell’intervallo, perciò accettò volentieri. I due ragazzini organizzarono una partita e vollero a tutti i costi essere messi nella stessa squadra. Si aiutarono a segnare, e uscirono dal campo tenendosi sottobraccio. Non aveva più senso continuare a prendere in giro Barry. Lui e Peter divennero amici, non proprio del cuore, ma amici, comunque. Barry appese in camera sua il biglietto che Peter gli aveva scritto, e del prepotente, come succede con i brutti sogni, ci si scordò presto.

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(1) La frase fa riferimento ad un altro episodio del romanzo, nel quale Peter si era scontrato con il gatto dei vicini.


lunedì 28 agosto 2017

100 I terroristi di Pesca alla trota in America (di Richard Brautigan)




Composto da tanti racconti più o meno brevi, “Pesca alla trota in America” è il libro più noto di Richard Brautigan; a me non è piaciuto più di tanto, anche se tutto sommato si può leggere senza difficoltà (ma è solo la mia opinione). Voglio però pubblicare in questo blog uno dei racconti, quello che mi è piaciuto maggiormente (non a caso, forse, abbastanza differente dal resto): racconta un piccolo episodio di prepotenza (oggi si direbbe bullismo) di un gruppo di ragazzini contro bambini della classe prima. Interessante per ragionare in una classe su un fenomeno sempre più diffuso nelle scuole.
Dopo il racconto, pubblico la recensione apparsa su la Repubblica il 30 maggio 2017, in occasione della riedizione del romanzo presso Einaudi: poi, chi ha voglia di leggere il libro, se ne farà una propria opinione, come io mi sono fatta la mia.

Quando facevamo la sesta, una mattina di aprile, diventammo, prima per caso e poi in maniera premeditata, terroristi di pesca alla trota in America.
Successe così: eravamo uno strano gruppo di ragazzini.
Ci mandavano sempre dal preside per qualche impresa un po’ troppo audace o qualche malefatta. Il preside era giovane ed era un genio per il modo che aveva di trattare con noi.
Quella mattina di aprile, dunque, ce ne stavamo lì nel cortile comportandoci come se fosse un’enorme sala da biliardo all’aperto e quelli di prima fossero biglie che andavano e venivano. Eravamo tutti annoiati all’idea di un’altra giornata di scuola passata a studiare Cuba.
Uno di noi aveva un pezzettino di gesso e quando uno di prima gli capitò a tiro, il nostro amico senza pensarci scrisse «Pesca alla trota in America» sulla schiena del ragazzino.
Il piccolo cercava di girarsi per leggere cosa l’altro gli aveva scritto sulla schiena, ma non riusciva a vedere bene, allora alzò le spalle e andò a farsi un giro in altalena.
Noi rimanemmo lì a osservarlo mentre si allontanava con «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena e ci sembrò una bella cosa. Sembrava del tutto naturale e piacevole che uno di prima se ne andasse in giro con «Pesca alla trota in America» scritto col gesso sulla schiena.
Appena mi capitò a tiro un altro ragazzino della prima, mi feci prestare il gessetto dal mio amico e dissi: - Ehi, tu di prima! Vieni un po’ qua.
Il ragazzino mi venne vicino e io gli dissi: - Girati un po’.
Quello si girò e io gli scrissi «Pesca alla trota in America» sulla schiena. Su quest’altro la scritta sembrava ancora più bella. Non potemmo fare a meno di ammirarla. «Pesca alla trota in America». Senza dubbio aggiungeva un non so che ai ragazzini di prima. Come dire, li completava e gli dava una specie di tocco di classe.
- È proprio bello, eh?
- Come no!
- Andiamo a prendere altri gessetti.
- Certo.
- Laggiù vicino alle sbarre ce ne sono un sacco di ragazzini di prima.
- Vai!
Ci procurammo altri gessetti e più tardi quella mattina, alla fine della ricreazione, quasi tutti quelli di prima, comprese le femmine, avevano «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena.
Al preside cominciarono ad arrivare un sacco di lamentele da parte degli insegnanti di prima. Una delle lamentele arrivò sotto forma di una ragazzina.
- Mi manda la signorina Robins, - disse al preside. – Ha detto così, che deve dare un’occhiata a questo.
- Questo che? – chiese il preside, fissando la ragazzina vuota.
- Dietro la schiena, - rispose lei.
Così dicendo si voltò e il preside lesse ad alta voce: - Pesca alla trota in America-
- Chi è stato? – chiese poi il preside.
- Una banda di quelli della sesta. Quelli cattivi. L’hanno fatto a tutti noi di prima. Abbiamo tutti questa cosa qui sulla schiena. «Pesca alla trota in America». Che significa? La nonna me lo aveva appena regalato questo golfino nuovo.
- Ehm, «Pesca alla trota in America», - borbottò il preside. – Dí pure alla signorina Robins che fra poco sarò da lei -. E dopo aver rimandato in classe la ragazzina, convocò noi terroristi dai bassifondi nel suo ufficio.
Vi entrammo tutti insieme con una certa riluttanza e ci mettemmo nervosamente a strusciare i piedi per terra, a guardare fuori dalla finestra, a sbadigliare. A un certo punto, uno di noi fu sopraffatto da un folle tic a un occhio. Tenevamo le mani in tasca e guardavamo da un’altra parte, poi tornavamo a fissarlo e poi alzavamo gli occhi alla plafoniera che sembrava tanto una patata lessa e poi li abbassavamo sulla foto della madre del preside che era appesa alla parete. Era stata una diva del cinema muto e nella foto era legata sui binari.
- Ragazzi, per caso la frase «Pesca alla trota in America» risulta familiare a qualcuno di voi? – domandò il preside. – Mi chiedevo se l’avevate vista scritta da qualche parte nel corso delle vostre avventure di oggi, eh? «Pesca alla trota in America». Pensateci su bene un attimo.
Ci pensammo su bene un attimo tutti quanti.
C’era un gran silenzio nella stanza, un silenzio che tutti noi conoscevamo benissimo, essendo già stati nell’ufficio del preside un sacco di volte in passato.
- Vediamo se posso rinfrescarvi un po’ la memoria, - soggiunse il preside. – Non è che per caso avete visto la frase «Pesca alla trota in America» scritta col gesso sulla schiena degli alunni di prima? Chissà come sarà finita lì, eh?
Non riuscimmo a reprimere una risatina nervosa.
- Sono appena tornato dalla prima della signorina Robins, - annunciò il preside. – Ho chiesto a tutti gli alunni che avevano «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena di alzare la mano e tutti quelli che erano in classe l’hanno alzata, tranne uno che aveva passato tutta la ricreazione nascosto nel bagno. Che ne dite voi… di questa faccenda della «Pesca alla trota in America»?
Nessuno aprì bocca.
Quello che aveva il tic folle a un occhio continuò a sbattere la palpebra. Sono sicuro che fu quel suo tic da senso di colpa a tradirci. Avremmo dovuto sbarazzarci di lui all’inizio dell’anno.
- Siete voi i colpevoli, non è vero? – disse lui. – C’è qualcuno di voi che non c’entra? Se c’è, lo dica subito!
Rimanemmo tutti in silenzio, tranne che per quel tic, tic, tic, tic. Improvvisamente cominciai a sentire quella stramaledetta palpebra che sbatteva. Era molto simile al suono di un insetto che deposita il milionesimo uovo della nostra sventura.
- Siete stati tutti voi. Ma perché?... Perché avete scritto «Pesca alla trota in America» sulla schiena di tutti gli alunni delle prime?
Fu a quel punto che il preside tirò fuori il suo famoso trucco «E = mc² contro la sesta», quello che aveva sempre impiegato quando aveva avuto a che fare con noi.
- Ora sentite un po’: non sarebbe buffo se io chiedessi a tutti i vostri insegnanti di venire qui e dicessi loro di girarsi e poi prendessi un pezzo di gesso e scrivessi «Pesca alla trota in America» sulle loro schiene?
Ci mettemmo tutti a ridacchiare nervosamente e arrossimmo un po’.
- Vi piacerebbe vedere i vostri insegnanti andare in giro tutto il giorno con «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena mentre cercano di spiegarvi Cuba? Sarebbe una scena un po’ sciocca, non credete? Non vi piacerebbe vedere una cosa del genere, vero? Non sarebbe affatto una bella cosa, vero?
- No, - dicemmo tutti insieme come un coro greco. Qualcuno di noi lo disse con la voce, altri solo scuotendo la testa e poi c’era quello che continuava a fare tic, tic, tic con la palpebra.
- Proprio come pensavo, - disse il preside. – Quelli delle prime vi stimano e vi ammirano proprio come gli insegnanti stimano e ammirano me. Non è bello scrivere «Pesca alla trota in America» sulla loro schiena. Siamo d’accordo, signori?
Eravamo d’accordo.
Vi assicuro che funzionava ogni volta, accidenti.
Era naturale che funzionasse.
- Bene, - concluse. – Considero chiuso l’incidente «Pesca alla trota in America». D’accordo?
- D’accordo.
- D’accordo?
- D’accordo.
- Tic, tic.
Ma non era completamente vero, perché ci volle un po’ per togliere qualsiasi traccia di «Pesca alla trota in America» dai vestiti di quelli delle prime. Una buona percentuale delle scritte il giorno dopo non c’era più. Le madri ottennero presto questo risultato semplicemente cambiando i vestiti ai figli, ma ci furono anche un sacco di ragazzini le cui madri tentarono di cancellarle e poi li rimandarono a scuola il giorno dopo con gli stessi vestiti, ma vi si poteva ancora leggere «Pesca alla trota in America», anche se un po’ sbiadito, sulla schiena. Comunque, dopo qualche altro giorno ogni traccia di Pesca alla trota in America sparì del tutto, come d’altronde era destinata a fare sin dal principio, e una sorta di autunno scese su tutte le prime.


La copertina della nuova edizione italiana del libro

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Quando Moby Dick si trasformò in una trota
(di Marco Belpoliti)
Richard Brautigan è tornato. È la quarta volta che accade dal 1989, quando Riccardo Duranti tradusse il suo romanzo più importante, "Pesca alla trota in America". Erano allora trascorsi solo cinque anni da quando il suo autore si era suicidato sparandosi con una pistola presa in prestito, chiudendo così anzitempo a quarantanove anni una carriera di successo e insieme d'incomparabili fallimenti. Periodicamente il suo caleidoscopico romanzo viene ristampato alla ricerca del suo pubblico di lettori: Serra e Riva editori, Marcos y Marcos, Isbn Edizioni e ora Einaudi Stile Libero (con la traduzione di Riccardo Duranti e la prefazione di Sandro Veronesi). Riuscirà finalmente il più formidabile scrittore del movimento hippy a farsi leggere anche presso di noi? Le premesse perché diventi un autore di culto ci sono tutte.
Brautigan è stato lo scrittore che ha unito la beat generation e il romanzo postmoderno, che ha incarnato al meglio la stagione psichedelica pur restando nel solco della narrazione alla Melville, che ha bordeggiato Carlos Castaneda e nel contempo continuato lo stile comico di Mark Twain. Pesca alla trota, pubblicato in originale nel 1967, vendette dieci milioni di copie negli Usa, dando a Brautigan una fama tale da impedirgli di passeggiare liberamente per le vie San Francisco senza essere inseguito da torme di ammiratori. Il mancato successo italiano non dipende però da una qualche mancanza di Brautigan. Era e resta uno scrittore affascinante, e possiede pure il tocco magico del narratore di storie di vita vissuta come, o forse più, di Raymond Carver. E tuttavia, pur essendo oramai un classico, è rimasto sospeso nel limbo.
Richard Brautigan è uno specialista di luoghi della mente, di utopie e d'immaginari così potenti che non è facile rapportarsi con lui, e nel contempo pratica uno stile apparentemente lineare, dimesso, ironico, volto alla comicità e alla malinconia. La cosa più facile è perciò prenderlo sottogamba, senza capire che Brautigan ha fatto con il racconto breve quello che Melville ha realizzato con Moby Dick: ha porto all'America uno specchio in cui conoscere se stessa e contemplarsi, con la trota al posto della balena. Non una diminuzione, bensì un suo agevole e conseguente ampliamento.
Pesca alla trota in America è un libro etico e svagato, serio e malinconico, comico e surreale. Un capolavoro, per farla breve. Unione di realismo e nonsense sublime, lo stesso che circola nei cortometraggi di Stanlio&Ollio, nel teatro di Beckett, nei romanzi di Breton e nelle pagine del primo Wittgenstein. Cosa racconta? Tante piccole storie quotidiane che ruotano intorno a quel luogo immaginario che è un ruscello in cui guizzano, o almeno dovrebbero, le trote, e che a volte è una pozza d'acqua rafferma, una discarica o una casupola di legno.
Tutto e il contrario di tutto, come l'America di cui Brautigan narra la storia fallimentare. Gli States che ci descrive questo poeta beat, nato a Tacoma nello stato di Washington nel 1935 da una famiglia di proletari, sono gli stessi ritratti dall'obiettivo di Walker Evans: villaggi polverosi dell'Ovest, insegne di negozi, gente per strade e boschi, uomini con jeans rattoppati, ragazze e i ragazzi con le efelidi, bambini, angeli caduti in terra e demoni meridiani. Negli undici romanzi e libri di racconti che ha scritto, e nelle innumerevoli opere di poesia date alle stampe, c'è non solo l'autobiografia di un fallito di successo, ma anche quella di una intera nazione, che dagli anni Sessanta è arrivata sino a noi fedele a se stessa, e che ancora ci fa arrabbiare e ci commuove.
Brautigan è un vero dropout della letteratura. Giunto dalla provincia a San Francisco ha vissuto di espedienti, scrivendo poesie e vendendole in giro insieme ai semi di fiori, bazzicando bar e locali per chiacchierare, fino a che il romanzo ne ha fatto il profeta della "generazione Woodstock". Stampato da Four Seasons Foundation, piccola casa editrice californiana, dopo innumerevoli rifiuti, Pesca alla trota era diventato il manifesto dei giovani che ascoltavano Bob Dylan e Janis Joplin. Le sue sono storie stralunate di amori finiti male, di amari incontri, d'improvvise allegrie e malinconici congedi. Storie minori eppure uniche, che gettano una luce inattesa sul mondo degli emarginati, il rovescio della American way of life lastricato di dollari e successi facili. Adesso che l'America è il paese guidato da un miliardario bizzarro, votato da milioni di persone che vivono nelle periferie di quel paese, in minuscole cittadine come quelle descritte da Brautigan, è davvero necessario prendere in mano e leggere Pesca alla trota in America.
Per capire le origini di quel mito che Achab, al culmine dell'epica del XIX secolo inseguiva lungo i mari procellosi del globo, e che con la Trota si deposita invece in un torrente montano smontato a pezzi, venduto nel Deposito Demolizioni di Cleveland. Per capire come e perché l'America duri ancora nonostante tutto, bisogna leggere l'ultimo dei beat e il suo guizzante pesce, oltre Zucchero di cocomero, il romanzo successivo, uscito nel 1968, dove si narra dell'utopia negativa di una comunità che ha abolito conflitti sociali, gerarchie e tecnologie per vivere nell'attimo fuggente, premonizione della futura Silicon Valley. Speriamo Einaudi lo ristampi al più presto. Solo così il poeta bohémien potrà uscire dal limbo in cui è stato relegato ingiustamente, e diventare il più classico dei nostri narratori contemporanei.





venerdì 25 agosto 2017

99 Libera nos a malo: capitolo 25 (di Luigi Meneghello)



Malo e la religione, la Dottrina incomprensibile insegnata ai bambini e su cui essi finivano con il fantasticare, le donne devote con il loro culto dei santi, i dubbi dei maschi che, esclusi alcuni concetti chiave, ritengono fronzoli tutto il resto. Meneghello è qui irreligioso e anticattolico, o credente e chiesastico? Lascio al lettore il giudizio, che a me personalmente pare chiarissimo. Basta leggere questo passo in cui parla di ciò che si doveva imparare a memoria fin da piccoli: le verità della Fede, comprendenti “la definizione di Dio, la Trinità, la Redenzione; gli elenchi dei misteri, comandamenti, precetti, sacramenti, virtù, vizi e peccati; e infine gli elementi della Storia Sacra dell’umanità dalla Creazione al Concordato”. Storicizzando il modo di vivere la religione a Malo nei tempi antichi, l’autore esprime con ironia il suo pensiero.

Sti ani antichi – co i copava i peòci coi pichi. (1)

Un prete c’era qui, “questi anni” (ossia nel remoto fondo del secolo quando i nostri vecchi erano bambini, e mio padre alle sue prime prove nel mondo del lavoro, usciva col badile alle tre del mattino a raccogliere letame nelle strade), che diceva messa prima, e faceva una predica assai semplice, sempre quella.
Taceva a lungo presso la balaustra, fissando l’uditorio di rozzi ammazzatori di pidocchi, poi proferiva in tre brusche emissioni il suo messaggio:

Bisogna – èssare – bòni.

Questa era la predica. Mio papà se ne ricorda chiaramente. Mi pare che quel nostro prete, che si chiamava don Culatta, predicasse in modo esauriente: che altro c’è da dire?
Ammazzare i pidocchi col piccone è difficile e pericoloso. Eppure quest’arte dei nostri antichi, derisa nel ricordo popolare come il simbolo stesso della rozzezza, sprigiona anche, a nominarla, l’immagine di una schiatta robusta e fiera perfino nell’eseguire le piccole bisogne della vita quotidiana, come lo spidocchiarsi, che ancora quand’ero a scuola io era necessità d’ogni giorno per molti e di tanto in tanto per tutti. Questi nostri antichi col piccone non saranno mai esistiti in realtà, ma sono pur esistiti nella fantasia del popolo, e dunque hanno qualche cosa di vero.
Don Culatta una volta andò a fare un viaggetto in Toscana, e salito a una malga sull’Appennino, vi domandò puìna (2). Il vecchio malgaro disse al garzone:
«Da’ un po’ di ricotta a questo rozzo italiano».
Si dice andar giù in Italia anche quassù sugli Altipiani; però si dice anche puìna. Di don Culatta, che predicava per usanza nelle prime messe, si ricorda in paese un’altra predica nella festa di San Giuseppe, per ordine di Monsignore, a messa ultima.
«Parrocchiani,» disse con la voce a scatti, paonazzo per lo sforzo. «Sant’Antonio – È un gran santo.» Lunga pausa congestionata. «San Piero – È un gran santo anche lui.» Pausa. «Ma San Giuseppe…» E invece di aggiungere parole fece un doppio fischio, e tornò sull’altare.
Queste memorie sono molto vive tra i vecchi: insistono che è letteralmente vero che quando il prete chiamato Seleghetta si batté il petto dicendo mea maxima culpa, gli uccelletti che aveva in seno fecero pio-pio-pio.
Don Antonio, che allora chiamavano ancora il Cappellanello, predicava anche lui con molto riserbo.
«La Madonna,» disse una volta arrivando sul pulpito, e poi tacque chinando la testa. Tacque mezzo minuto, nel silenzio totale. Poi disse: «La Vergine santissima,» e tacque di nuovo, a testa china. Passarono minuti interi, il silenzio calamitato pareva ormai senza misura, la nonna di Mino si vergognava da morire. Poi don Antonio sollevando lentamente il viso disse: «Sia lodato Gesù Cristo,» e scese. A me questa predica pare commovente.

Mi dicono che adesso si può andare a messa anche alla sera. «È valida,» mi assicurano. Mi sento let down (3).
«Scommetto che si può anche andare alla comunione senza essere digiuno dalla mezzanotte?» dico amaramente, come per dire uno sproposito. Invece è vero. Basta non mangiare per due ore. Ostia, ma dove andiamo a finire?

Messa prima, messa del primo, messa granda, messa ultima. C’era anche una messa del fanci-ulo, ma ho l’impressione che l’avessero appena inventata, un’innovazione artificiosa. Invece le altre messe erano incorporate nelle strutture stesse della società, e facevano parte dell’ambiente come le ore del giorno e della notte.
La messa del primo cadeva d’inverno tra la notte e il giorno, d’estate in quel margine luminoso del giorno quando il primo sole batte sulle imposte chiuse delle finestre e rallegra le strade vuote. Era la messa della gente che ha da fare: ranghi serrati delle madri di famiglia, figlie primogenite, osti e bottegai della vecchia generazione, famigliole devote e laboriose.
La messa granda era per le famiglie di chiesa, per i puristi agiati del centro, per le frotte patriarcali dei contadini. Era, religiosamente parlando, la messa più vera di tutte, la messa dell’Arciprete che vi cantava (con una voce incredibilmente malferma però) e vi faceva le sue dichiarazioni ufficiali durante la predica. Dopo la messa i contadini si radunavano sulla piazza a far festa chiacchierando a gruppi.
La messa ultima, alle undici, era la versione elegante per i borghesi del centro, signorine e giovanotti, coppie modernizzate, persone anziane non di chiesa, signori, autorità. La tecnica per accorciare la messa valida era diventata un’arte raffinata. Tutti sanno che si può entrare al Vangelo e uscire alla Benedizione; ma secondo una corrente di pensiero abbastanza influente ai miei tempi, il vero punto critico sono i campanelli dell’Elevazione; si può a scelta o entrare al primo campanello, o uscire all’ultimo. (Alcuni tentavano un’ardita contaminazio: ma in malafede.) Del resto andare a messa ultima, specie in fondo alla chiesa, era un piacere: si facevano bellissime chiacchierate, tutti voltati verso l’altare; si facevano ridere le ragazze proprio quando passava in ispezione l’Arciprete. Era come “parlare” a scuola. E le ragazze vestite da festa, col velo sui capelli, erano specialmente attraenti. Ma la messa più bella era l’altra, la prima.

Messa prima, nel grembo insonnolito della notte, la preistoria favolosa del tempo chiamato domenica. Le stelle fuori, i primi canti dei galli; dentro, la penombra dorata e l’alone giallo delle candele. Un piccolo popolo di fedeli, poveri, usi ai lavori duri; un prete forse rozzo anche lui, che predica poco e semplicemente. Una religione che viene prima del resto, e si alza coi braccianti, i montanari, le serve, la gente che comincia a lavorare all’alba.
Messa prima! Mi pareva incredibile che ogni domenica, quando noi si dormiva, prima che la notte cominciasse a sbiadire, avvenisse davvero questa antica cosa che la fantasia isolava in un tempo fuori dal tempo, senza rapporto con la realtà quotidiana.
Vedo la piccola comunità dei fedeli che assiste in piedi alla messa prima, nel buio premattutino, assembrata davanti all’altare. Ciascuno ha un bastone nodoso a cui s’appoggia; sono vestiti di pelli, hanno la testa rapata, tranne la frangetta di capelli sulla coppa come un collare alto. Il grosso occhio ugnolo (4) è fisso sul prete.
Il sagrestano, l’antico Checco Mano, agitava al primo passaggio la borsa rossa (anime del purcatòrio), al secondo la borsa nera (prete). I ciclopi ci mettevano dentro la manciata delle ghiande, e qualche volta nella borsa nera pétole (5) di capra.
Un livello, dentro, dove le cose di notte affondano lentamente e si contraffanno.

Religione e teologia fanno da sfondo alla vita profana: «Quando andiamo in montagna siamo più vicini a Dio. Così è anche in Nuova Zelanda, dall’altra parte del mondo, quando vanno in montagna. Dunque Dio è tondo». Per Mino non è una battuta da ridere ma una deduzione tanto interessante quanto sorprendente: mentre l’enunciava gli si vedeva nel viso il gusto della scoperta. Mino non è quello che si dice un miscredente, questo Dio tondo è il suo Dio, e all’idea che è fatto così sorride ancora un po’ incerto.
Si pongono ai figli problemi che erano sconosciuti ai padri. Elia è salito nello spazio prima dei russi, ma dov’è? I preti dicono però che forse quella storia non è letteralmente vera, mentre invece è di fede che la Madonna, per esempio, è in cielo col corpo. Così un giorno, continuando a esplorare lo spazio sempre più in là, è praticamente certo che la vedremo in orbita.
«Vieni in Prà dopo cena, a vedere la Madonna? Passa alle otto.» Questi non sono scherzi sulla religione; non è la religione che si canzona, ma le stramberie esilaranti della vita moderna.
Anche i bambini hanno una sensibilità teologica naturale. La bambinuccia gioca col gatto e lo vezzeggia:
«Etto: gioia, tesoro!».
L’ammirazione la travolge, cerca la lode più iperbolica di tutte, la sola adeguata:
«Etto: Vero-dio e Vero-uomo!».
Tutto è moralizzato. «A l’inferno! la va l’inferno!» sussurrava la Franca scandalizzata e felice, avendo colto la nostra gatta, che camminava con la coda alzata, in una condizione che non merita e non ottiene perdono: era senza mutande.
Nasce a volte spontanea la questio teologica.
«Se si può fare la punta al ferro?» mi domandò il piccolo Roberto. Io stavo cercando di centrare la finestra del granaio col giavellotto che m’ero fatto, una canna alla quale Roberto mi aveva visto “fare la punta” con cura. Era ancora chiaro in cortile, dopo il tramonto.
Gli dissi che si può, ma si fa più fatica. Continuavo i miei lanci, senza però centrare la finestra. Roberto disse:
«E se si può fare la punta alla finestra?».
Mi venne da ridere: gli dissi che, in un certo senso, volendo, si potrebbe. Roberto era già pronto, e disse:
«E al Signore, se si può fargli la punta?»
Dovetti confessargli che non lo sapevo, non sappiamo nulla.
Ma se il rangotàno (6) è la più forte creatura che esiste, e può lottare chiunque altro, si arriva fatalmente al problema: il rangotàno è più forte di Dio?
Chi dice che il rangotàno può lottare anche Dio, chi dice che Dio essendo onnipotente lotta il rangotàno, ma péna-péna (7).

Che cosa credeva – o crede – la gente? Che vuol dire “credere” in paese? Le verità della Fede s’imparavano alla “Dottrina”, a cui andavamo nel primo pomeriggio della domenica chiamati da una particolare “campana”, e inoltre nei corsi speciali d’istruzione per la prima comunione e per la cresima. Le verità della Fede s’imparavano a memoria: la definizione di Dio, la Trinità, la Redenzione; gli elenchi dei misteri, comandamenti, precetti, sacramenti, virtù, vizi e peccati; e infine gli elementi della Storia Sacra dell’umanità dalla Creazione al Concordato.
Credere aveva due significati: in senso stretto voleva dire accettare tutte le verità della fede. Era permesso indagare con moderazione per sapere che cosa vogliono dire, sempre partendo dal presupposto che sono verità. Gli uni e gli altri “credevano” senza discutere. Lo stesso uso del verbo credere sottolinea i due modi del credere: si può credere-in, e si può semplicemente credere. La condizione del credere-in è di accettare una definizione autentica. Noi leggevamo e imparavamo a memoria le definizioni autentiche della “Dottrina”, e credevamo in esse, cioè non mettevamo in dubbio che fossero vere, anche quando non sapevamo che cosa mai potessero significare. In questo senso credevamo in tutte le verità della fede.
Ma nell’altro senso – di credere qualcosa che si è capito, cioè di essere intimamente convinti che le cose stanno così e così – vigeva in paese una teologia semplificata e forse un po’ svisata (non sta a me giudicare).
Stranamente il fondamento di tutto non era, com’è invece nella teologia regolare, il concetto di Dio. Si credeva in Dio, e in ciò che di lui s’insegna; si credeva nella sua bontà ma senza veramente presumere di capirla. Si credeva e si capiva invece che c’è una legge soprannaturale, un Sistema di Necessità analogo a quello che vige quaggiù, al quale non ci si può in alcun modo sottrarre.
Questo sistema è fondato sull’idea dell’Inferno, i cui orrori non sono meno comprensibili per il fatto che si possono rappresentare soltanto in forma iperbolica. Di quel fuoco una goccia sola (portata per campione da un dannato che viene a trovare un amico) trapassa la mano su cui la si lasci cadere; è un fuoco “a paragone del quale il più ardente fuoco terreno sarebbe dolcissimo refrigerio”. Così ci insegnavano con apposite citazioni a Dottrina: notare che il fuoco non è ancora nulla, è solo il principio; ma è sufficiente fermarsi al fuoco.
Inoltre l’Inferno è eterno: si viene tormentati per dieci anni, poi per altri dieci, poi per altri cento, poi ancora per altri cento: e poi si continua.
Ci spiegavano a Dottrina:

Sa tulì su na manà de sàbia, quanti granèi che ghe sìpia? Che gh’in sìpia mezo miliòn? E lora, quanti ze che gh’in sarà su tuta la spija? Un miliòn de miliardi? E lora; quanti che gh’in sìpia su tute le spije de sto mondo? E sui Deserti? E soto el mare, che ghe ze montagne de sàbia? E mi ve digo che se i ghe dizesse a un Danato: ti te saré scotà e sbuzà coi feri de fogo par tanti ani quanti che ze i granèi de sàbia che ghe ze in tuto ‘l mondo, el Danato el se metaria a sigare dala gioja. E invense quando che tuti sti ani finamentre sarà passà, alè! se taca n’antra volta. E domàn de matina anca voialtri podaressi svejarve Danati. (8)

Riascoltiamo il discorso al Feo:

Saèlo cossa sto Inferno? Mi a go rancurà na branchinèla de sabiòn e a go tacà contare i granìti. A garò coesto contare na meda ora, a garò coesto, e a ghinarò contà on mejàro e medo. Ma sa gaèa fenìo sta branchinèla? Seh, monega: na presa la jera. E mi a jera lìve ca laorava pensare te la mea testa laorava, se invense de granìti de sabiòn a ghe fusse ani, tute le branchinèle de sabiòn che ghe ze sto-mondo, e le caretà de sabiòn, e le montagne de sabiòn e le spiaje-del-mare oltra in cào che l’è tuto on sabiòn: sempre ani, cava on granéto cava on ano, e i ghe ga-ito ai Danati-de-l’Inferno se ciamarìsseli contenti? Da ver cavà on terno a ghe pararìa! E invense tuti sti mejàri de stramejàri de ani, co ben i fenisse, casso!, i scomensa danovo. Sa ve l’Inferno stanote, i scomensa doman-de-matina bonora. (9)

Questi punti venivano ribaditi a casa dalle nonne, dalle serve e dalle zie. Nessuna persona normale ne metteva in dubbio la verità letterale: i rarissimi che non ci credevano non erano persone normali, ma miscredenti.
Invece l’idea parallela dei castighi divini in questo mondo era assai più incerta. Il padrone assoluto dell’altro mondo è padrone anche di questo, ma qui interviene relativamente poco: molti cattivi se la passano benissimo, mentre ci sono donne buone e devote che patiscono ogni genere di disgrazie e di dolori, e alcune sono letteralmente tutte una piaga sui giacigli dove stanno da anni in attesa della morte che le sollevi.
Le si vede nei pomeriggi estivi languire nei cortili dove le trasportano perché trovino un po’ di fresco all’ombra delle case. Hanno un’espressione santa nei visi quasi marciti, sono circondate da mosche attaccaticce e ne sopportano il fastidio con forza misteriosa.
Ciò che conta è dunque l’altro mondo. A rigore si dovrebbe passare tutta la vita ad assicurarsi contro l’orribile prospettiva del tormento eterno, e infatti questo hanno fatto molti santi, e tentano di fare le monache e i frati. La gente qualunque vivendo nel mondo è esposta a peccare; anche i migliori peccano se perfino il fratello di San Pietro riusciva a peccare quattrocentonovanta volte e solo alla quattrocentonovantunesima San Pietro aveva il permesso di mollargli una crogna (10)! Bisognerebbe come minimo abituarsi a tener conto costantemente della minaccia dell’Inferno; e così cercano di fare i bambini, buona parte delle donne, e presumibilmente i preti; ma gli uomini generalmente no.
Sapevano anche loro che le cose stanno così, però si comportavano come se non lo sapessero. È una strana bestia l’uomo: come non vive di solo pane, così non vive di sola paura dell’Inferno. Preoccupato dal lavoro, dall’interesse e dalle passioni, si comporta come se il mondo vero fosse questo presente, la sua famiglia, il paese, i campi, la bottega, gli amici, le donne, la tavola imbandita; e non invece quell’altro dove non ci sono campi, famiglie, osterie, paesi.

Quanto all’impianto normativo della religione, esso era fondato sull’assioma che Dio nei suoi imperscrutabili e minacciosi rapporti con noi, si comporta però in modo estremamente onesto e corretto. Ha creato delle regole precise per assegnare gli uomini al Paradiso o all’Inferno, e queste regole è lui il primo a rispettarle. La sostanza della religione consiste nel tener conto di queste regole.
In teoria esse sono formulate nei dieci Comandamenti e nei cinque Precetti; ma in pratica la coscienza paesana ne estraeva un proprio codice semplificato, interamente composto di cose concrete.
È assolutamente necessario: Andare a messa alla festa; Fare la comunione almeno a Pasqua; e (per i bambini) Dire le preghiere.
È assolutamente proibito: Bestemmiare; Toccare l’ostia coi denti; Mangiare carne il venerdì; Essere disubbidienti (bambini); Uccidere altre persone; Fare atti impuri di qualsiasi genere; Rubare; Giurare il falso giuramento.
Si omettono da questo elenco alcuni punti che si possono prendere per sottintesi, p. e. che bisogna sposarsi in chiesa e non in municipio; e alcuni altri schiaritisi dopo l’ultima guerra, p. e. che non bisogna votare per i comunisti, e non bisogna interrompere il coito matrimoniale. Con tali aggiunte l’elenco di queste norme contiene tutto ciò che nella coscienza paesana era sentito come assolutamente indispensabile per salvarsi; lo stretto necessario era questo.
La violazione di una di queste norme costituisce peccato mortale. Il Peccato mortale porta all’Inferno. Esiste però un meccanismo per sottrarsi a questo semplice schema: è decretato infatti che i peccati siano automaticamente perdonati a chi li confessa, oppure a chi compie un atto di dolore-perfetto.
Per la salvezza eterna dunque ci sono tre cose essenziali:

     confessarsi quando si commette peccato mortale
     avere il dolore-imperfetto quando ci si confessa
     se si sta per morire senza confessione, procurarsi il dolore-perfetto prima di perdere conoscenza.

Ma se la vita religiosa del paese era fondata su questa roccia, la sua superficie era cosparsa di un florido humus in cui affondava radici fitte una vegetazione di peccati veniali e di devozioni non necessarie ma consigliabili per tre motivi: bisogno di un margine di sicurezza, pensiero del Purgatorio, e desiderio di assicurarsi un posto più alto in Paradiso. Dei tre motivi il primo era probabilmente il più frequente e il più forte: il meccanismo esteriore per evitare l’Inferno può incepparsi; il giudizio umano (nel valutare se un peccato è o non è mortale) può errare; la nostra memoria può tradirci, e un peccato scordato in confessione, senza malizia, può assassinarci per l’eternità. Conviene dunque propiziarci Iddio, e soprattutto i suoi dipendenti diretti e più influenti, sia con una condotta più scrupolosa nelle cose marginali (peccati veniali) sia con devozioni supplementari.
Non ho mai conosciuto nessuno in paese che avesse veramente paura del Purgatorio, anche perché c’erano delle incertezze teologiche circa la dottrina relativa: che cosa porta in Purgatorio? Solo i peccati veniali non confessati, o anche i peccati mortali confessati col solo dolore-imperfetto? o tutti, anche quelli confessati con tutte le regole, per i quali si fa bensì “penitenza” quaggiù recitando le preghiere imposte dal confessore, ma di cui è pur ragionevole pensare che nel mondo di là Iddio si riservi di ripagare almeno un pochino le canaglie peggiori?
Ad ogni modo la gente non temeva il Purgatorio per sé, mentre dava invece molta importanza all’idea dei propri congiunti in Purgatorio. C’era una sfumatura di senso del decoro, piuttosto che di apprensione per quel che potessero soffrire: era come avere dei parenti falliti, per i quali ci si sente sinceramente in dovere di darsi da fare.
Quanto al posto più alto in Paradiso, la relativa dottrina era di nuovo abbastanza incerta. L’idea dell’ “acquistar merito” era diffusa ma non distinta; in forma attiva era una specialità delle zie devote, una sorta di loro civetteria, rara fra la gente normale. Del resto lo stesso desiderio del Paradiso in generale, contava relativamente poco per le persone non specialmente devote, essendo associato a immagini di chiesa e di devozione, e a espressioni incomprensibili come “godere Dio”.
Invece l’idea del margine di sicurezza era ben lucida in tutti, benché non tutti si adoperassero per metterla in pratica. La campagna del margine (sui due fronti dei peccati veniali e delle devozioni supplementari) era combattuta dalle formazioni leggere delle donne e dalla cavalleria dei bambini; gli uomini invece, esclusi i pochi triarii (11) delle famiglie eccezionalmente devote, stavano di solito a giocare foraccio (12) nelle retrovie.
Era questo dunque il terreno delle devozioni, le comunioni-extra, i rosari e i terzetti, le litanie e le giaculatorie, i tridui e le novene, i fioretti e i primi venerdì del mese, le processioni e le esposizioni del Santissimo, le astinenze e i digiuni, il culto dei Santi.
C’erano aspetti antichi e incantevoli in molte di queste cose, lunghe radici affondate nei tempi in cui San Gaetano fu nostro Arciprete, più di quattrocento anni fa (e come diceva don Tarcisio fu salutato, quando venne a prender possesso, dalle campane di quello che è ancora il nostro campanile, ed era assai vecchio già allora), e prima ancora, nei secoli in cui eravamo una minuscola villa devota alla stessa Madonna antica che abbiamo in Castello. C’erano le candele, le lampade fioche, i veli neri delle donne, l’acquasanta, le sedie impagliate, l’incenso, le cantilene, gli altari dei santi, il corpo nudo di Gesù ferito che baciavamo il Venerdì Santo, i paramenti dei preti, la bella lingua misteriosa di certe preghiere. Alcune sequenze parevano incantate:

Turris davidica
Turris eburnea
Domus aurea
Foederis arca
Ianua coeli...

Le cose di questa religione si associavano con le altre cose della vita, l’autunno brumoso, il freddo di Natale, l’arsura dell’estate; le campane indicavano, oltre che le ore del giorno, l’ora di bagnarsi gli occhi alla pompa in corte contro la cecità, l’ora di bere un dito di vino bianco contro i morsi dei serpenti in primavera, e l’ora di riunirsi per il Terzetto dei Morti in cucina dalla nonna.
I grandi si mettevano in cerchio, le luci erano basse, la pignatta delle castagne cotte fumava sul focolare. Noi piccoli inginocchiati sulle sedie impagliate (che stampano segni violetti sui ginocchi, come cordoncini) approfittavamo delle strambe finali in èsse che le donne pronunziavano quasi come zeta alla maniera dei seminaristi, per creare imitandole effetti fonici surreali: Ora pronò-biz, Ora pronò-biz!, finché le donne s’accorgevano e tiravano scappellotti.
L’incantevole e il divertente si alternavano, specie nel culto dei Santi, con le loro diverse personalità e abilità. Era molto potente presso di noi Sant’Antonio, persona ordinata e di buona memoria, che faceva trovare la roba a chi la perdeva. Occorreva però un intermediario che conoscesse bene l’incantagione necessaria a farlo intervenire. Si chiamava i sequèri (13). Mia zia Lena la conosceva benone: si aggirava per la stanza recitando: “Secuèri miràcula...” e tutto il resto, con intensa concentrazione; e alla seconda o alla terza volta Sant’Antonio era costretto a tirar fuori deàle o gùcia, bùcola o tacolìn (14).
Di media potenza era San Luigi, che non s’era mai visto i diti dei piedi ed era considerato un simbolo della Purezza. Non c’è dubbio che un’impresa così per tutto il corso di una vita sia pur breve, richiede molta Costanza: ma come c’entrava la Purezza visto che i diti dei piedi sono così lontani? Alcuni di noi erano inclini a credere che in passato, come si vedono certi tipi di cani nei quadri antichi che adesso non ci sono più, così ci fossero anche forme di atti impuri coi diti dei piedi di cui si è perso il ricordo, e che non è più possibile risuscitare.
La zia Nina aveva il suo Registro dei Santi: con alcuni era in buona, con altri fredda, con altri ancora in rotta: ma si alternavano. San Piero era un Santo Imponente, anche per lo splendore della sua Sagra a Schio, e delle feste in casa del nonno Piero: san Giovanni m’interessava specialmente per i fiori di camomilla che finiscono di maturare proprio quando compie gli anni (anzi è il suo onomastico), e si ha il senso che qualcosa di semplice e misterioso avvenga in quella breve notte profumata, che il cielo si fermi un momento e cominci poi a ruotare dall’altra parte.
San Paolo assomigliava al Professore, un pozzo di scienza, la stessa barba, e molto simile anche nella guardatura; aveva inoltre uno spadone che gli invidiavamo e che cercammo di copiare in legno. Con questo spadone era stata tagliata la testa a San Giovanni; non ero sicuro che fosse proprio quello della camomilla, perché ce n’era più d’uno; Giovanni una volta doveva essere un cognome, questo qui di nome suo di battesimo si chiamava Battista, ad ogni modo la testa gliel’aveva tagliata Erode con questo spadone. Prima di diventare cristiano San Paolo era maomettano, ed era molto amico di Erode e del ladro di Bagdà (che poi finì crucifisso a sinistra di Gesù) ed Erode gli aveva dato questo spadone per ricordo, essendo molto amici; e poi quando San paolo fu convertito, se lo tenne, e con esso tagliava la testa ai miscredenti.
Questo spadone era dritto, invece la sciabola che avevamo nel sottoscala era ricurva, e non si riusciva a tirarla fuori dal suo fódro (15), essendosi incantata (16) a metà. Per anni andavamo ogni giorno a provare in due, in tre, in quattro. C’era la proibizione di snudarla, perciò non si accendeva la luce nel sottoscala, e si tirava per quattro cinque minuti al buio.
A tutta questa parte più cospicua e meno cruciale della nostra religione corrispondeva sul terreno morale e dogmatico l’interesse per i peccati veniali, e quindi per le definizioni delle virtù, dei vizi e dei peccati contenute nei manuali di Dottrina.
Qui si vede l’importanza del bambino nel sistema che sto descrivendo: mentre il rispetto della religione – in senso generale, come atteggiamento di fondo – si trasmette principalmente attraverso le donne, il suo contenuto teologico e normativo ufficiale viene assorbito quasi interamente nell’infanzia, quando si va a Dottrina. Ciò che s’impara, s’impara da bambini; e questo spiega la coloritura fantastica di certe interpretazioni che sopravvivono spesso nella vita adulta.
A differenza di ciò che accade in altri campi dell’apprendere, in cui la fase critica e adulta scaccia agevolmente quella fantastica e puerile, qui gli adulti non ristudiavano più queste cose, senza dire che anche ristudiandole non avrebbero forse trovato una nuova teologia critica da opporre all’altra, ma solo un’esposizione più complessa della stessa, dell’unica teologia.
La nostra indoctrination infantile ci dava un’impostazione teologica abbastanza solida (proprio perché si trattava di imparare definizioni) come mi è capitato più volte di notare a contatto con giovani di formazione protestante, che indubbiamente conoscono – ceteris paribus – molte meno definizioni di noi. D’altro canto però c’era tutta una serie di cose incomprensibili, parte per il linguaggio in cui erano trasmesse, parte per la natura remota o arcaica delle cose significate.
Che cos’è l’Accidia? Dalle migliori spiegazioni risultava che fosse una forma di pigrizia, e allora perché non chiamarla così? S’introduceva irresistibilmente l’idea che fosse un pesciolino color marrone, arricciolato come un’acciuga e fortemente salato. Dicevano che questo settimo vizio capitale colpisse specialmente i monaci e gli eremiti; si svegliavano alla mattina con innumerevoli accidie attaccate al corpo, e quelli che cedevano alla tentazione del demonio le coglievano come frutti e le mangiavano.
Il quarto dei Sette Doni dello Spirito Santo, la Fortezza, riusciva chiaro: è lo Spirito Santo che conferisce la Fortezza e consente al FORTE del circo di rompere le catene in modo innaturale. Ma cos’era il terzo Dono, chiamato Consiglio? Forse consigli che lo Spirito Santo manda in dono, o un particolare supremo Consiglio riservato a pochissimi fortunati?
La terza delle Virtù Teologali, la Carità, si pratica soprattutto il martedì, quando c’è mercato e i poveri alla porta sono numerosi. Ma che cosa sarà la Speranza? A quanto pare c’è merito a sperare, sembra tanto facile, e invece è una virtù, anzi una Virtù Teologale. Chissà cosa vuol dire veramente Virtù Teologali? Dicevano che vuol dire virtù divine. E che cosa vuol dire virtù divine? Potrebbe voler dire che le ha anche Dio, ma questo non può essere perché Dio non può avere Fede in se stesso, per esempio, non sarebbe serio; e non può neanche voler dire che ci rendono “come Dio” perché come Dio non si può essere, è un’eresia; e neanche che ce le dà Dio, perché le altre allora che ce le dà? Insomma quello che è certo è che sono virtù importanti, perché c’è dentro anche la Fede, che pare la più importante di tutte; pare e non è, perché la più importante era scritto che è la Carità.
Le Virtù Cardinali non sono quelle praticate dai cardinali, ma “sono così chiamate perché sono i cardini della vita buona”. Le vedevo in forma di porte di legno dipinto a fiori, oscillanti lentamente sui loro cardini: mi sforzavo di tradurre ciascun nome in una raccomandazione morale. Si doveva essere Prudenti, stare sempre vicino al muro nelle strade, non esporsi a rischi; la Giustizia doveva riguardare i giudici dei tribunali, noi non avremmo saputo in che circostanze praticarla; la Fortezza, come s’è visto, è un Dono dello Spirito Santo; la temperanza – respinta l’assurda idea che riguardasse in qualsiasi modo l’abilità nel temperare le matite – si associava col bere smodato all’osteria. Ma allora, che cardini erano mai questi? Cose abbastanza importanti, va bene; ma come credere che siano la base della vita buona, i cardini?
Del resto anche quando – messe da parte queste e simili fantasie – s’incominciava a intravedere qualcosa della psicologia tomistica e classica che c’è sotto quelle parole, francamente la domanda restava sempre: che cardini erano mai questi?
Così avveniva spesso; a suo tempo s’incontravano le spiegazioni scritte di ciascuno di questi concetti sconcertanti, ma esse sconcertavano ancora di più, sia perché toglievano a queste virtù ogni personalità, e venivano a dire tutte la stessa cosa (Speranza che vuol dire sperare di andare in Paradiso, Prudenza che vuol dire badare a non far beccati: era sempre la stessa minestra) sia perché introducevano nuove difficoltà.

Che cos’è la Carità? È quella virtù soprannaturale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa, e il prossimo come noi stessi per amore di Dio.”
Come dimostriamo il nostro amore a Dio? Specialmente osservando i suoi comandamenti.”
Come dobbiamo amare il prossimo? Compiendo opere di misericordia spirituale e corporale.”

In pratica insomma la Carità, oltre che voler dire come tutto il resto che i peccati non si devono fare, vuol dire anche che bisogna fare queste opere di misericordia di cui per fortuna avevamo l’elenco completo.
Ce n’è quattordici di queste opere: sette sono di misericordia corporale, e quasi tutte di difficile attuazione.
Dar da bere agli assetati: sembra una cosa da nulla, ma non trovavamo assetati. Aggirarsi per l’officina e per il paese attaccando conversazione con gli operai e coi passanti, cercando di portare il discorso sul caldo? Ripiegare sui fratelli e i cugini accaldati dopo il gioco, aspettandoli nell’acquaio con la “cassa” di rame pronta in mano? Vestire gli ignudi: non ne vedemmo mai uno; avevamo tutto pronto per Alloggiare i pellegrini nella tezza (17), ma non ne venivano. Seppellire i morti era l’attività della famiglia del mio compagno Emilio, ed Emilio stesso dava una mano in cimitero; ma ogni proposta di andarci anche noi fu respinta dai nostri genitori. Ai genitori il quarto Comandamento impone di obbedire “in tutto ciò che non è peccato”. Sarà peccato omettere la settima Opera di misericordia corporale (18)?
Anche dove si capiva, c’era come uno scompenso tra cose facili e piccole, e cose grandi e difficili, elencate insieme. La prima Opera di misericordia spirituale (Consigliare i dubbiosi), come si può paragonarla con la quinta (Perdonare le offese), quando l’una è una cosa da nulla, che anzi può far piacere, mentre l’altra è praticamente il riassunto della bontà, ed è evidentemente difficilissima? Sono obbligatorie o facoltative queste opere? Si può scegliersene una o due a giudizio proprio, e trascurare le altre? Se non è peccato omettere di insegnare agli ignoranti, è possibile che non sia peccato neanche omettere di perdonare?
Dei sei peccati contro lo Spirito Santo, non starò a dire che cosa pensavamo che volesse dire il primo (Disperazione della salute), col dubbio se riguardasse solo i malati incurabili, o anche i sani sempre esposti a perderla, la salute; né il terzo (Impugnare la verità conosciuta), con le ambiguità derivanti dal doppio uso dei pugni per colpire o per afferrare. Ricorderò solo che nell’istruzione supplementare in seno alle famiglie si apprendeva che questi sei peccati si possono considerare riassunti in uno solo, che è il Peccato contro lo Spirito Santo, formulato dalle mamme come l’ostinazione a mangiare poco pane e molto companatico, specie in tempo di guerra.
Ci attraevano per il loro stupendo nome i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: in particolare la mente correva con un vago senso di scandalo a ciò che potrebbe essere il peccato impuro contro natura. Natura è la parte dove aveva male la cliente del dottor Rossi: dev’esserci una forma di peccato impuro che si fa contro di essa, forse col coltello o col fucile da caccia, ed è il secondo peccato che grida vendetta al cospetto di Dio.
Il terzo è l’oppressione dei poveri, che io personalmente ritenevo consistesse in un atto fisico ai danni dei mendicanti catturati a uno a uno e stipati in una stanza. Entravano i ricchi, si sedevano sopra i poveri, e li opprimevano a lungo coi sederi. I poveri gridavano vendetta al cospetto di Dio.
Anche il defraudare la Mercede agli operai avveniva per opera dei ricchi: entravano nelle misere stanze in punta di piedi, e la defraudavano. La Mercede non parlava: ma le operaie tornando dalla filanda vedevano subito cosa le era successo, e si affacciavano alla finestra gridando vendetta.
Queste assurdità puerili non erano però senza importanza: alcune svanivano naturalmente da sé con la vis immaginativa della puerizia; altre serpeggiavano in modo sotterraneo anche nei pensieri e nelle credenze dell’adolescenza e dell’età adulta; alcune infine si cristallizzavano per sempre.
Le spiegazioni non erano un invito a riflettere, ma a “imparare”.

Leggetelo questo libretto, imparatelo tutto dalla prima all’ultima sillaba… Quando verrò nelle vostre parrocchie, spero che… reciterete a memoria il testo del Catechismo… (19)

E quando non si capisce quello che s’impara a memoria? Le spiegazioni (scritte) non consistevano nel “far capire”, ma offrivano definizioni autentiche da imparare a loro volta a memoria. E se la spiegazione scritta non si capisce? E se l’eventuale spiegazione verbale della spiegazione scritta lascia dei dubbi?
In definitiva l’essenziale non era capire, ma sapere. I dubbi erano scoraggiati, e se necessario proibiti. I dubbi potevano diventare sempre meno puerili e assurdi a mano a mano che si cresceva, come Gesù, in sapienza e in età; ma questo anziché facilitarne lo scioglimento sembrava renderlo più difficile. A poco a poco si finiva col ripiegare sulla posizione della stragrande maggioranza degli adulti maschi, non si era più bambini, queste cose si lasciavano ai bambini e alle donne devote: ai bambini recitatori di Peccati che gridano Vendetta al Cospetto di Dio, alle donne biascicatrici di preghiere in gerghi sconosciuti. Queste cose significheranno pur qualcosa, ma ciò che significano non riguarda noi, riguarda solo la Chiesa. Non c’è passaggio tra questi elenchi astrusi di Vizi e di Virtù, e la vita reale di ogni giorno.
Si abbandonava il corpo florido della religione per tenersi le nude ossa, the bare bones: c’è Dio, ci sono i peccati mortali, c’è l’Inferno, e c’è la confessione che permette di evitarlo. Gli altri sono fronzoli.

Mi dispiacerebbe se il Paradiso non ci fosse: quello a cui pensavano con umile speranza la zia Nina, e la nonna Esterina, e la zia Lena, che pure non era specialmente di chiesa, e forse la zia Rosa, e tante altre parenti e compaesane. Sarebbe una consolazione saperle veramente lassù, fuori dai triboli che portarono così pazientemente sulla terra.
Lo so che lassù sono in età di trentatré anni, come saranno poi anche i corpi il giorno della resurrezione della carne; ma io credo che somiglino ugualmente a quelle che erano qui negli ultimi anni prima di morire. Se il loro premio corrisponde alla speranza, staranno lì, parte in piedi parte in ginocchio, a leggere nei loro libretti da messa preghiere e litanie per tutta l’eternità, e ogni tanto alzeranno gli occhi timidamente sotto il velo per bearsi non solo di quel riflesso chiaro e soave che è la presenza di Dio, ma delle figure familiari e vicine, e ancora incredibili, dei grandi Angeli e Arcangeli, Michele e Gabriele e Raffaele, e di tutti i grandi Santi riconoscibili uno per uno.
Non so che senso avrebbe per mio nonno Piero trovarsi là in mezzo anche lui, e dover partecipare a questa interminabile funzione. “Eh, can del Passio!” direbbe come diceva qui, alludendo al Passio (20) smisurato che allungava le messe oltre ogni ragionevole proporzione; e penso che andrebbe fuori a discorrere con San Piero sulla porta.
Il Paradiso non interessava agli uomini; era l’Inferno che contava. E così siamo tornati in circolo all’Inferno, al fuoco penace, fermaglio e suggello della religione paesana. Che Santa Libera ci scampi da quelle fiamme!

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(1) Sti ani antichi – co i copava i peòci coi pichi = questi anni antichi – quando ammazzavano i pidocchi con il piccone.
(2) puìna = ricotta.
(3) let down = deluso.
(4) ugnolo = uno solo. Meneghello si immagina gli antenati come tanti ciclopi con un occhio solo.
(5) pétole = sterco.
(6) rangotàno = l’orangotango.
(7) péna-péna = appena appena.
(8) traduzione del discorso di Malo = Se raccogli una manciata di sabbia, quanti granelli ci saranno? Che ce ne sia mezzo milione? E allora, quanti ce ne saranno su tutta la spiaggia? Un milione di miliardi? E allora; quanti ce ne saranno su tutte le spiagge del mondo? E sui Deserti? E sotto al mare, dove ci sono montagne di sabbia? Io vi dico che se dicessero a un Dannato: sarai scottato e trafitto con ferri di fuoco per tanti anni quanti sono i granelli di sabbia che ci sono in tutto il mondo, il Dannato si metterebbe a gridare per la gioia. E invece quando tutti questi anni saranno finalmente passati, alè! Si ricomincia di nuovo. E domani mattina anche voi potreste svegliarvi Dannati.
(9) traduzione del discorso del Feo = Cosa sarà ‘sto Inferno? Io ho raccolto una manciata di sabbia e ho cominciato a contare i granelli. Avrò dovuto contare per mezz’ora, avrò dovuto, e ne avrò contato un miliardo e mezzo. E l’avevo finita ‘sta manciata? Eh, figurati: era appena una presa. Ed io ero lì che lavoravo pensando nella mia testa, se invece di granelli di sabbia fossero anni, tutte le manciate di sabbia che ci sono a questo mondo, e le carrettate di sabbia, e le montagne di sabbia e le spiagge che sono tutte di sabbia: sempre anni, leva un granello leva un anno, hanno detto ai Dannati dell’Inferno e loro si direbbero contenti? Di aver vinto un terno gli sembrerebbe! E invece tutti i miliardi di questi stramiliardi di anni, quando finiscono, cazzo! ricominciano di nuovo. Se finisci all’Inferno stanotte, cominciano domani mattina di buon’ora.
(10) crogna = botta, colpo dato in testa con le nocche.
(11) triarii = parte della fanteria romana repubblicana.
(12) foraccio = gioco di carte simile allo scopone.
(13) sequèri = forma di preghiera popolare atta a recuperare le cose perdute; com’è scritto poco dopo incominciava con “Si quaeris miracula”.
(14) deàle, gùcia, bùcola, tacolìn = ditale, ago, orecchino, portamonete.
(15) fódro = fodero.
(16) incantata = incastrata, come in uno stato di intorpidimento.
(17) tezza = fienile, o tettoia.
(18) è proprio quella del Seppellire i morti.
(19) Meneghello stesso nelle note spiega che il passo è tratto dalla Prefazione a una “Dottrina” per la classe quinta del 1939.
(20) Passio = la parte dei Vangeli che narra della passione di Gesù e viene letta o cantata durante la settimana santa.

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Con questo capitolo termino di postare le parti di “Libera nos a malo” che ho trovato più interessanti; ma il libro è bellissimo e consiglio a tutti (anche ai non veneti) di leggerlo.