martedì 8 agosto 2017

95 Libera nos a malo: capitolo 19 (di Luigi Meneghello)




Quando il passato acquista un valore mitologico e persino le moto (da cui cadevano guidatori e passeggeri, o che provocavano terribili dolori alla schiena perché prive di sospensioni) sembrano migliori dei “gingilli cromati di oggi”. In questo capitolo Meneghello continua il racconto, affettuoso e realistico, dei suoi familiari, in particolare dello zio Dino e di come gli anni l’hanno cambiato.

In generale noi sappiamo distinguere, in paese, tra i cronisti seri e scrupolosi (come Mino) e gli inventori di favole. Però con i più vecchi bisogna andar cauti: tante volte ci è capitato di ascoltare racconti incredibili che parevano di pura fantasia, mentre poi si sono sentiti confermare da fonti indipendenti e insospettabili.
Bisogna proprio dire che in passato accadessero cose di cui oggi si è persa l’abitudine. A noi pare incredibile che quando andavano loro a fare i giretti in moto, se il Bocchino a bordo di un’antica Garelli sbagliava la curva del ponte andando a Breganze, e la Garelli incappava nel parapetto dalla parte di qua, il Bocchino potesse proseguire il viaggio da solo per via aerea fino all’altra sponda del torrente. Invece fu proprio così. In piazza a Breganze gli amici si accorsero che mancava il Bocchino e tornarono indietro a vedere. Aveva sorvolato il torrente e aspettava in un cespuglio che gli passasse la commozione cerebrale; la Garelli che era restata all’imbocco del ponte, era fuori combattimento e la portarono via con un carretto.
La guida delle motociclette era molto più bella una volta. C’era intanto la faccenda della trasmissione a cinghia; questa cinghia si allentava in viaggio, ogni tanto dovevano scendere e non ho mai capito se scorciare la cinghia o allungare la moto. Ripartivano spingendo, naturalmente in presa diretta; i primi scoppi venivano rari e come strozzati dall’inerzia, ma quando la macchina s’era avviata andava forte.
In un certo senso le Aièsse e le Borgo di allora, e le macchinose Frera, dovevano andare più forte dei gingilli cromati di oggi. È inutile mettere in dubbio che Checco Agosti alla domenica arrivasse a Mantova in un’ora, comprese queste soste per la cinghia: tutta la vecchia generazione lo sa.
Inoltre le moto di allora avevano un’abitudine che le nostre sulle strade di adesso non hanno più: imbarcavano. Su una superficie rugosa, oltre una certa velocità la moto dava piccoli segni di avvertimento, come rapidi cenni di diniego col manubrio; il motociclista inesperto poteva scambiare la successiva fluidità della corsa, nei prossimi cento metri, per un recupero completo. Era un errore fatale.
D’improvviso il manubrio faceva “no” per l’ultima volta, e cominciava la catastrofe. La moto si metteva a tentennare, poi le venivano le convulsioni, brandiva il muso e accennava a rivoltarsi, tirava calci colla ruota di dietro, si contraddiceva in aria.
Quando la moto imbarca non bisogna cercare di controllarla: bisogna cercare un prato.
A Isola, ancora negli anni nostri, c’erano alcune centinaia di metri di “buchette”, piccole ondulazioni di m 0.10-0.15 di frequenza che avrebbero fatto imbarcare un carro armato. Chi rallentava al passo, chi spingeva la moto a mano, specie andando in giù verso Vicenza, perché in quella direzione la fase critica si raggiungeva in un punto poco adatto, con muri a sinistra e il torrente in basso a destra. Venendo in su verso Malo, il terreno era più favorevole e si poteva rischiare di più. Innumerevoli motociclisti furono gettati sui campi tra il cimitero vecchio e quello nuovo.
Annibale che è il più grande motociclista del paese, non provava nemmeno a rallentare, tornando da Vicenza; passava per Isola a ottanta, come sulle corna di un toro da rodeo, pronto al volo davanti al cimitero vecchio. Poi raccoglieva la moto sul prato di fronte, e dice che così risparmiava qualche minuto.
Le moto dei mediatori erano le Guzzi col serbatoio in discesa, e il volano turgido, come un gozzo in movimento; facevano scoppi bassi e lenti, e negli intervalli si sentiva uno sfregamento di parti metalliche. I mediatori col fazzoletto al collo le guidavano orgogliosamente a passo d’uomo. A uno di questi mediatori, Erminio seduto sulla porta del suo negozio cercava di far capire a segni che stava perdendo il cuscino dietro la sella. Il mediatore volta la testa:
«Ostia, e la donna?».
Dovette tornare indietro a cercarsela su per lo stradoncino delle Case.
Quando mio papà perse la nonna Esterina se ne accorse quasi subito: aveva sentito come un fruscio, e dopo un po’ si voltò, più che altro per curiosità. La nonna Esterina stava rannicchiata su un fianco in fondo al rettilineo; non s’era fatta niente, ma stava ferma ferma e composta in mezzo alla strada e pareva un fagottino.
La moto di famiglia era la Indian col ciclopico manubrio simile alle stanghe di un carro, e le vaste pedane su cui si poteva passeggiare. Nulla in essa suggeriva l’idea della velocità: l’enorme motore faceva cik-cik-cik bonariamente, e si aveva l’impressione di viaggiare su una grossa carriola.
Invece le moto personali di Dino erano consacrate al culto della velocità. Filavamo sulla piccola Guzzi-spinta, e Dino tra Isola e Castelnovo annunciava a me appollaiato dietro la sella:
«Novantacinque… novantotto… cento!».
La piccola Guzzi-spinta li passava appena, i Cento, benché con molta eleganza; la Sarolèa da competizione li toccava in terza, villanamente; ultima venne la Norton Turìs-Tropì, col serbatoio quasi deforme, come un organo troppo sviluppato. Era una specie di primadonna accigliata e altera, che raramente si lasciava mettere in quarta, e quando entrava in quarta pareva che recitasse una scena drammatica. Molto bene però, aveva stile.
Dino mi portava qualche volta a trovare le sue morose, per farmi fare esperienza; a quelle di maggior riguardo dava del voi, e diceva: «Siate cortese con mio nipote, è alle prime armi». Su tutte le moto di allora, prive di sospensioni, un viaggio sul parafango, anche col cuscino, faceva male alla schiena: ma la rigidezza della Sarolèa e della Norton Turìs-Tropì era micidiale. Dopo qualche chilometro arrivava la prima, ben nota, atroce pugnalata nei fianchi, e da allora ogni sobbalzo toglieva il respiro.

La stagione delle nostre moto venne tardi, nel dopoguerra, e fu breve.
Andando a fare un giretto a Vicenza, di domenica, si distinguevano le voci delle tre motociclette sportive: l’Alce di Ruaro cantava all’estroversa-via, tutta contenta, sana, stupida; il Quattro Bulloni di Aldo provava una nota vigorosa, piena di vibrazioni truculente; la mia Bicilindrica fischiava con quella sua grazia inimitabile.
Sul rettilineo della Motta l’Alce ingrossò la voce, il Quattro Bulloni si mise a sferrare mazzate, con un tintinno puro di acciaio sull’acciaio: a questo punto la Bicilindrica accelerò, passò con un’impennata la zona isterica degli urli, salì a picco nelle sfere che sole erano sue, dove brillano i modelli alti e nudi del moto e del suono.

Quando Dino era militare c’era un’aria di costernazione in casa della nonna, un buio nelle stanze, un orgoglio sottaciuto e misto col lutto, come per un figlio in prigione. Le donne si leggevano ad alta voce le sue lettere, e una morosa di Dino venne una volta a misurare per terra la lunghezza del salto che aveva fatto in una gara militare di atletica. Ripetevano con profano sbigottimento la distanza, che era di cinque metri e parecchi centimetri: la misurarono sul pavimento della cucina, e dovettero uscire di alcune spanne nell’androne delle scale. Dino però era arrivato secondo: uno schifoso di bersagliere aveva saltato ancora di più.
Tornò da soldato con una nuova visione del mondo e (sarà stato nell’ultima licenza prima del congedo) con una baionetta. Questa – la chiamavo allora lo “stilo” – mi pareva la quintessenza del pericolo e del valore, un sacro feticcio che mi feci affidare un momento nella cucina della nonna. Era grande press’a poco come me: sguainata appariva una cosa vera, muta, da adulti, terribile; aveva anche le scanalature “per far scorrere il sangue”.
Nella nuova visione del mondo c’era tra l’altro una volontà commovente di leggere libri, e questi furono a suo tempo importanti tra i libri non di scuola che lessi anch’io. Molti erano libri sulla “vita”, l’Uomo questo sconosciuto, un’Enciclopedia sessuale, romanzi dai titoli come La vita è nostra e Un’avventura a Budapest. Fra romanzi ungheresi e americani primeggiavano quelli di Jack London (pr. Londòn), i cui eroi identificai senza residui con la figura di mio zio Dino.
M’insegnava fra l’altro che la donna è una fortezza, e tutto sta nell’assediarla e prenderla; poi non si sa più cosa farne. Non erano però battute di ordinaria vanità maschile, ma quasi una scoperta che lo rattristava vagamente. Da lui udii anche le prime definizioni impegnative di quelli che chiamava gli “invertiti” (1). La parola mi pareva brillante, sia in senso scientifico che linguistico: veniva certo da un libro. Quanto alla cosa, Dino l’aveva incontrata e per così dire toccata con mano da militare a Milano, in un cinema affollato, stando appoggiato in piedi al muro laterale, tutto immerso nel film, con le mani dietro alla schiena. Strana condotta dei milanesi, misterioso mondo di agguati questa Milano, dove il nostro Plinio, anni dopo, andava in vestiti impeccabili a fare cenefredde. Dino prese paura e scappò fuori.
Con Dino si sentì passare per il parentado una ventata di modernità: era dinamico, curioso, avido di sapere. Si sentiva che era di un’altra generazione rispetto a mio padre e agli zii, un uomo nuovo. Si era creato attorno un’aura di romance (2) che non pareva paesana, ma urbana. Fumava Tre Stelle, canticchiava (è un po’ stonato anche lui) Mimì è una civèta (3) con molto sentimento, e spiegando a noi il contenuto emotivo della situazione. Civèta era un concetto che manipolava bene. Tra le due donne ce n’era una che piaceva così, senza odor di Coty (4), senza bistro negli occhi rapaci; e un’altra che aveva nome Nanù e pareva supremamente rattristata, ma forse il suo muto dolore era finzione e non più.
Quando davano un bel dramma a Schio o a Vicenza, andavamo a vederlo in moto. Il dramma era bello quando conteneva una tensione in rapporto alla Vita. Dino aveva un fiuto speciale per il modo del vivere, il suo senso: quello che emerge in una crisi, donne che si ribellano, personaggi che s’inducono a mutare o a chiarire i propri rapporti con la famiglia o la società. Scriveva alle morose raramente ma a lungo, e con l’aiuto del dizionario: «Solo una volta ogni sei mesi,» mi ammoniva; «esaurientemente». Scriveva in modo slanciato e volitivo, una grafia che somigliava tutta a una molto nota a quei tempi (5). Ammirava sommamente nelle donne la finezza della cultura (erano spesso diplomate, laureate, e insomma donne più colte di lui) e la forza del carattere.
Noi nipoti ci trattava come suoi figli o fratelli minori, era evidente l’intenzione di educarci, e avrebbe voluto che fossimo bravi nello sport; ci comprò i guantoni da boxe e il punci-bàl, e seguì in moto la mia prima corsa in bicicletta.
Dopo pochi chilometri il corridore davanti a me si soffiò il naso colle dita e io sbandai per la sorpresa. Si fece un gran mucchio di corridori e biciclette; Dino si era fermato a vedere, e a mano a mano che i caduti si rialzavano nella gran nuvola di polvere si rallegrava che non fossi io. Purtroppo quando ne restò uno solo, ero proprio io. Mi portarono in una farmacia a Monte di Malo dove fui bendato dalla testa ai piedi, tanto che rientrando in paese Dino giudicò opportuno levarmi una buona metà delle bende per non spaventare i parenti; tuttavia con l’altra metà feci la mia matta figura. Era di domenica, c’era in piazza un ottimo pubblico; io ero sul seggiolino posteriore della moto, un altro motociclista dietro a noi portava la bicicletta tutta contorta, bellissima. C’era un certo pericolo che Dino prendesse la circonvallazione, ma fortunatamente passò per la piazza.

Senza dire la parola “glamour”, ho raccontato alla Rita andando a Schio in macchina, come mi sentivo quando lo zio Dino mi portava al cinema in motocicletta di sera. Aspiravo il profumo della sua Tre Stelle, udivo il canto vibrato del motore, e mi pareva di cogliere nella notte l’essenza stessa della vita. Ho domandato alla Rita se ha qualche ricordo simile.
Uno: la zia da Valdagno che venne in visita una volta, spigliata, prepotente, con la veletta calata sul viso. In famiglia aveva fama di grande distinzione, e fu all’altezza della sua fama. Le offrirono il caffè, e lo bevve senza alzare la veletta, filtrandolo. Per la prima volta in vita sua la Rita si sentì davanti a una vera signora.

Dal Dino degli anni trenta è poi venuto fuori un altro uomo; la sorte durante la guerra gli affidò l’ultimo residuo attivo della vecchia Ditta (6), una Sette trasformata in camioncino a legna, con la quale compiva prodigiose spedizioni nell’alta Valle Padana, degne di un eroe di Jack London. Di notte viaggiavano (lui e mio cugino Mamo) senza fari, di giorno Mamo stava sopra il carico per avvistare gli aeroplani; scendevano spesso a sgranchirsi le gambe, perché la Sette a legna andava piano piano, e sulle più modeste salite, se non la spingevano loro, andava bensì, ma all’indietro.
Furono mitragliati dagli americani, requisiti dai tedeschi, travolti dagli sfollati; dormire, mangiare, avviare il motore, spegnere gli incendi, aggiustare i pezzi rotti, tutto era un problema; ma tornarono sempre sani e salvi. Dino però cambiò; vennero a galla certi suoi tratti ostinati, un’aria di baruffa con la Vita (la più importante delle sue morose), una passione un po’ tardiva per la caccia, una certa puntigliosità.
Per il termine che si scrive knock-out ha adottato da molto tempo la pronuncia conàu. L’hanno avvertito che non si dice così, ma lui ha dichiarato: «Io dico conàu,» e dice conàu.

Coi bambini di Dino avrei voluto riprendere un po’ dei rapporti che c’erano tra lui e noi, ma non è stato possibile.
Da piccolo, Ilario era chiamato da suo padre per dileggio “il sagraro” per la spiccata vocazione che aveva di andare a sagre. Quando c’era la sagra in un paese vicino, scompariva di casa e stava fuori mezza giornata, un giorno intero. Ci andava a piedi, se necessario, e da solo, e non credo che facesse nulla di speciale: guardava le bancarelle, i palloncini colorati, i sagrari veri col cesto delle paste color rosolio; ascoltava vociare gli sconosciuti, strillare le trombette; girellava per un pomeriggio, con le mani in tasca, nel regno della libertà.
Questa sua passione era muta, incomunicabile. Il bambino non provava nemmeno a giustificarsi, come chi sa che sarebbe ad ogni modo frainteso. Si aveva l’impressione di una personalità in fondo inaccessibile, segregata in un luogo remoto da cui non arrivava alcun messaggio.
Una volta mi esasperò con non so che bugia e gli diedi uno schiaffo troppo forte in faccia. Eravamo nella “sala” d’entrata, a casa loro; l’atto, lo schiocco spropositato, produssero come accade un intervallo di sospensione e di sorpresa in me non meno che in lui.
Per un attimo, prima che si mettesse a piangere, vidi un altro Ilario, che mi guardava senza rancore, né vera paura: non c’era un bambino bugiardo, ma una persona ferita da tempo immemorabile, e calma. Vidi distintamente gli occhi empirglisi di sconforto, mi pentii, mentre la guancia sbiancata s’arrossava; poi Ilario cominciò a piangere come un bambino qualunque, e io andai via.

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(1) invertiti = omosessuali.
(2) romance = romanticheria, fascino romantico.
(3) si tratta di un momento dell’opera di Puccini La Bohème, il cui testo corretto è “Mimì è una civetta”.
(4) odor di Coty = profumo di una marca francese, ma il riferimento è a una nota canzone del 1928, “Balocchi e profumi”, interpretata da vari cantanti anche negli anni successivi.
(5) non so a quale grafia si riferisca Meneghello: Mussolini? D’Annunzio?

(6) Ditta = è l’azienda di autoservizi gestita dal padre e dagli zii dell’autore.

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