sabato 19 agosto 2017

98 Libera nos a malo: capitolo 22 (di Luigi Meneghello)




Maschi e femmine di Malo e la loro educazione sessuale; Meneghello si interroga sui comportamenti dei suoi paesani, giovani e vecchi, e sulle regole imposte dalla Chiesa in paese, raccontando storie diverse ma tutte interessanti, dal finto matrimonio fatto per scherzo alla moglie abbandonata incinta, dal marito che non vuole contrastare i comandamenti religiosi a quello che, dopo il matrimonio, diventa triste e picchia i figli.

Nel racconto del matrimonio di Fiorenzo con un’idiota, celebrato forse trent’anni fa in Castello presso il monumento ai caduti, Fiorenzo vestito da sposo, Righella da Sindaco con la fascia di seta colorata e non so chi altro in ciascun altro ruolo, mi ha sempre colpito soprattutto il finale, quando dopo la cerimonia, i discorsi e le fotografie, gli invitati se la svignarono ad uno ad uno, sparirono a mano a mano le autorità, i testimoni e lo stesso sposo, finché la scema vestita da festa restò sola sul monumento, sorridendo ancora tra i primi morsi dell’angoscia e impugnando lo scopino dei fiori.
La mattina dopo si presentò timidamente alla porta di Fiorenzo, sposa novella col pentolino del latte, a ritirare la sua razione matrimoniale.
Non credo che lo scopo principale dei promotori dello scherzo fosse di screditare il matrimonio civile (di cui la scema mostrava con quel pentolino di valutare la serietà); però è indubbio che questo aspetto della cosa aggiungeva merito al maltrattamento della scema, e va da sé che una simile parodia del Santo Matrimonio in chiesa non sarebbe stata concepibile.
Del Santo Matrimonio non si potevano fare parodie da ridere, solo da piangere. La Cattinella sposata in chiesa prima del Concordato, fu abbandonata come tante altre dopo la luna di miele, e incinta. Era una piccola industria: anziché maltrattare le sceme che non serve a nulla, stupravano e derubavano le contadine.
La Cattinella venne poi da noi a fare la serva per mantenere il bambino che si chiamava Giovanni e portava il cognome di lei. Era piccola e paziente, e parlava con le inflessioni del monte. Io le davo del lei, i miei fratelli più giovani del tu. Dovette sembrarle un mondo strano, pieno di novità moderne e di trabocchetti urbani, i Pullò di lana colorata, il Cacào nelle scodelle, gli strambi giochi, le curiose lezioni Alfa-Beta- Gamba-Svelta. Si affezionò molto a noi, specie a Gaetano che la tiranneggiava e una volta le impose persino di assaggiare quello che stava facendo accucciato in lissiara.
Lavorava come lavoravano allora le donne in casa, come bestie; ma non si lamentava. Il suo sogno era di vedere suo figlio farsi adulto e sistemarsi, e di andare un giorno a stare con lui, per rifarsi così almeno da vecchia la famiglia di cui era stata defraudata da ragazza. Glielo teneva intanto la madre contadina; lo vedeva alla domenica, era timido e testardo e non capiva bene la natura dei nostri giochi a cui cercava qualche volta di associarsi.
Quando andammo a Vicenza, prima della guerra, fu praticamente separata dal figlio, tranne nell’estate che si tornava in paese per le vacanze. In città la sua vita era anche più dura e ingrata: dormiva in uno sgabuzzino che grondava umidità, si alzava alle cinque, badava alla casa, cucinava per noi (la mamma era fuori tutto il giorno) minestroni quasi rocciosi che si potevano estrarre dalla fondina colla forchetta e brandire in aria. In tempo di guerra si tornò nella casa di Malo.
Giovanni era ormai un giovanotto, nel 1944 aveva diciannove anni, e la Cattinella domandava consiglio. Doveva presentarsi il ragazzo (1)? Si poteva lasciarlo andare con questi partigiani con cui voleva andare? Alla fine Giovanni andò con questi partigiani, col nome di battaglia di “Zampa”; ed era col reparto della Malga Zonta la notte del 12 agosto. C’è una fotografia dei quindici o venti ragazzotti in fila davanti alla malga, colle mani in alto, un momento prima che i tedeschi cominciassero a sparare: Giovanni è il primo della fila, in primo piano. Sembra stupito, come se non capisse bene la natura del gioco: ha un’ecchimosi sul viso, probabilmente causata dal calcio di un mitra.
La Cattinella che ora abita da sola in due povere stanze, quando non è all’ospedale, è riuscita ad avere questa fotografia, e la tiene in un cassetto insieme con le nostre. Sul comò ha una fotografia di mia madre, sul muro il quadro incorniciato dei partigiani morti, con i piccoli tondi delle teste e i nomi: tra gli altri c’è il partigiano Zampa, Giovanni Tessaro 1925-1944.
Ricorderò sempre la prima volta che rividi la Cattinella dopo che ebbe saputo di Giovanni. Fu in fondo al cortile della nonna, vicino alla scala dell’essiccatoio, dove si nascondevano le armi quando si veniva a passare un giorno a casa, se capitava per disdetta un rastrellamento in paese. Era vestita di nero, enfiata e sfigurata dal mal di denti, e quando l’abbracciai non disse nulla e non pianse.
Ogni anno al 12 agosto va alla Malga Zonta: spesso a piedi fino a Schio, prima dell’alba, poi col camion su per i monti. Ascolta i discorsi, depone i suoi fiori.

Dopo il Concordato il matrimonio in chiesa è diventato una botte di ferro. Però è ancora necessario accostarvisi con cautela.
«E allora, come va col moroso?»
«Ah, devo stare attenta. Perché poi, sa? quando mi ha rotto i finimenti è troppo tardi per pentirsi.»
La popolana del centro ingentilisce il discorso colle metafore; la ragazza del monte si è espressa più freddamente:
«Parché, saórlo, col me ga praticà, son ciavà (2)».

Anche tra gli sposi che vanno d’accordo ci sono dei piccoli screzi.
«Troia!» diceva il marito alla moglie. Di tanto in tanto anche la moglie esprimeva il suo punto di vista: «Non toccarmi, sai? Se mi tocchi ti mollo una pedata nei coglioni».
«Troia! Roia! Luia! Vac-ca! Brutta puttana!» diceva il marito; poi si rivolse alla figlia più piccola che frignava aggrappata alle sottane della madre, e aggiunse con velenosa improvvisazione, a voce più bassa:
«Taci tu, troietta piccola».
È una buona famiglia, rispettata da tutti, piuttosto devota; ma conversano ad alta voce.
La minaccia della pedata al marito è un antico istituto trasmesso dalla vecchia generazione. Il marito della matta (settant’anni entrambi) s’avviava a prendere la corriera in piazza. La matta stava a guardarlo dalla porta. Lui s’ingegnava di far presto, perché la corriera era già arrivata, ma era vecchio e sfibrato, e arrancava. Mino osservava dalla porta della bottega; la matta alzava la voce: «Poltrone!» strillava; «se non ti muovi vengo io, ti mollo una di quelle pedate nei coglioni, che arrivi prima della corriera». In realtà siamo più che altro sul terreno delle parole, e queste grottesche pedate non si sferrano quasi più.
Le coppie più moderne hanno del tutto abbandonato anche i rozzi insulti d’un tempo, ed esprimono i propri sentimenti in modo pacato.
«Tu ormai sei vecchia e brutta, e al mare io non intendo portare la vera, non voglio che sappiano che siamo sposati. Devono credere che tu mi mantieni.»

Che cos’è ritenuto peccato in paese nelle cose della carne e del sesso? Mi sono accorto tempo fa con un po’ di shock che durante la mia assenza dall’Italia è stato cambiato il sesto comandamento. Vivendo in un paese protestante, avevo già delle difficoltà a rispondere agli amici che volevano sapere da me perché nel nostro Decalogo cattolico manchi un comandamento e l’ultimo sia stato sdoppiato per fare dieci. Mi rivalevo un po’ col sesto che in inglese (“Thou shalt not commit adultery”) sembrava tanto meno intimo e sottile dei nostri atti impuri. Ma vedo che ora in italiano il sesto comandamento proibisce di “fornicare”, parola che a Malo suona distintamente stramba: qui ci sono dei fornici, ma naturalmente senza femmine pubbliche fisse.
Forse per questo cambiamento vi saranno state polemiche e discussioni in seno alla Chiesa, e immagino che le ragioni per la nuova formula saranno state spiegate al pubblico: di questo non sono informato, ma devo dire che non sono riuscito a farmi spiegare il point del nuovo termine dai miei compaesani, anzi ho ricavato l’impressione che in pratica questo “Non fornicare” sia inteso ancora dai piccoli discenti e dagli adulti come se volesse dire esattamente “Non commettere atti impuri”. Ad ogni modo m’importa qui descrivere che significato s’attribuisse una volta in paese al “sesto” comandamento.
Anzitutto esso era sentito come il più importante di tutti i comandamenti; ammazzare è un peccato più grosso, ma abbastanza raro; gli atti impuri invece erano frequenti, e sono mortalissimi. In certi momenti si aveva quasi l’impressione che tutta la differenza tra vivere in grazia di Dio e meritare l’Inferno, stesse proprio lì.
In questo comandamento bisogna distinguere tra una parte astratta che è l’ingiunzione assoluta della purezza, e una parte concreta che è la proibizione specifica di fare certe cose pratiche che possono essere elencate.
Il primo aspetto era preso in considerazione quasi solo dai bambini, i quali in questa materia raggiungono, com’è noto, l’età del pieno discernimento al compimento del settimo anno. A sette anni si ha infatti “l’uso della ragione”, ossia la capacità di distinguere tra il bene e il male. Le leggi dello stato, almeno in Italia, non tengono pieno conto di questo fatto, mentre invece in Inghilterra fino a non molto tempo fa, i bambini di più di sette anni venivano ancora impiccati in pubblico, non però per atti impuri, ma per esempio per piccoli furti.
Cercare di essere puri voleva dire cercare di vivere senza mai pensare al corpo delle bambine e delle donne, né in loro presenza, né in loro assenza. La parola “nuda” era potentemente calamitata (era una parola in lingua, in dialetto si usa nudo-nfante che vuol dire sprovvisto di vestiti, e quindi esposto a prendere un malanno; l’equivalente pratico del nudo cittadino sarebbe cavà-zò, che però non ha alcuna carica sessuale, oppure in camisa, che trovo poetico ma non eccitante); invece solo pensare volontariamente alla parola “nuda” era sentito come peccato contro il sesto comandamento; e pronunciarla a voce alta bastava spesso a scatenare l’orgasmo. Ricordo che ai primi film americani “di amore” compresi subito la peccaminosità delle attrici e dei loro corteggiatori. Con quelle facce, mi dicevo, sono sicuro che quelle lì quando si sposano sono capaci di andare a letto col marito con certe parti del corpo scoperte, e le peggiori addirittura “nude”. Seguiva un orgasmo indignato. Benché avessimo una certa esperienza del sesso fin dalla più tenera infanzia (molto prima di avere l’uso della ragione, quando non dovrebbe essere ancora peccato), non associavamo però il sesso col matrimonio, e l’idea di queste corrotte attrici capaci di farlo mi rivoltava e mi attraeva. Ci devono essere tali occasioni di peccato per un marito moderatamente devoto che sia sposato con una di quelle lì!
L’abitudine della confessione settimanale, spesso mantenuta fino all’adolescenza, creava dei ritmi alla nostra purezza. C’erano le ore e i giorni “puri” in cui ci tenevamo scrupolosamente lontani dalle immagini proibite, dei pensieri profani, dalle occasioni. Poi avveniva la Caduta, per una copertina di rivista, per la sgonnellata di una compagna di gioco, per una parola: e allora giù nel pozzo dell’impurità cosciente, attiva e quasi dispettosa, per tutto il resto della settimana.
Sulla masturbazione a Malo non so molto: per me è un fenomeno tipicamente vicentino. Fu a Vicenza che lo incontrai (sui dieci anni di età) e ne appresi il nome. Questo nome mi pareva improprio, intriso di volgarità cittadina: conteneva immagini assurdamente faticose, stridenti, e suoni stonati. Oltre che con le case di Vicenza, il fenomeno è associato con una Segretaria voluttuosa, vestita strettamente di rosso, con un bruto chiamato King-Kong (che teneva in mano una donna quasi nuda) e coi lunghi capelli di una Vergine Sacra chiamata Luana, che era anche lei praticamente in camicia.
A immagini urbane attività urbane: in paese c’erano gli atti impuri “con altri” e gli atti impuri “da soli”; ma era sempre ben chiaro che questi erano un proseguimento di quelli, senza le brutali linee divisorie introdotte con tanta freddezza nei lucenti e crudi gabinetti di città.
Ho pensato a lungo che la masturbazione in paese fosse tipicamente manibus turbare, non manu. La nostra vera impurità era il Pensiero del Corpo della Donna, e solo per questo Pensiero aveva importanza ciò che facessero le mani, come sollecitassero il sesso immaturo, alternamente, a condividere il turbamento dell’anima. Perciò alla domanda: «Da solo o con altri?» si era quasi indotti a polemizzare. Come sarebbe a dire «da solo», Reverendo? Che senso c’è, da solo?
Poi, in città, capii che i vicentini, e il mostruoso King-Kong, facevano così, e con quale tecnica.
Tutt’altra cosa era la masturbazione nell’ambito di quell’istituto pagano e amorale che è la Compagnia, dove diventava un’attività collettiva e ridente, priva di ogni addentellato con la purezza, e insomma una semplice prosecuzione delle comuni imprese sportive.
I miei compagni rimasti in paese, si radunavano sui prati o sui declivi oltre il torrente, e facevano gare di velocità, in linea e a cronometro. Gastone arrivava sempre primo. Ampelio, che il padre chiudeva a chiave in camera per impedirgli di partecipare a queste gare, assisteva dalla finestra di casa sua, che guardava verso il torrente, e s’ingegnava di prender parte così da lontano, fuori concorso.
Emergendo dall’infanzia, l’ingiunzione astratta e assoluta della purezza si perdeva di vista: in pratica gli atti impuri diventavano l’elenco delle cose che significano peccato mortale, mentre tutto il resto era trattato come futile materia di perfezione. Non perciò ci si restringeva alla mera considerazione dell’adultery o del fornicari.
Era proibito, oltre agli atti fisiologici che non occorre specificare (e che in paese si chiamano atti materiali), tutto ciò che quasi infallibilmente vi conduce, toccando o guardando o mostrando; ma sempre con un senso netto dei confini anatomici e fisiologici tra il mortale e il veniale. L’idea del desiderio generico (che si riteneva contemplato dal “nono” comandamento) non si associava generalmente col peccato mortale; solo gli atti e i tentativi concreti possedevano questo veleno.
A mano a mano che si diventava adulti, questi divieti avevano sempre meno a che fare col modo di comportarsi, e alla fine quasi solo col modo di confessarsi. Le confessioni diventavano più rare e meno regolari. In esse, anziché il problema della purezza, primeggiava ora quello delle abitudini e delle intenzioni. Perché confessarsi stamattina, se sappiamo benissimo che stasera siamo già impegnati per una cosa uguale a quella che dovremmo confessare? Non sarebbe più onesto rinunciare alla confessione?
Questo scrupolo esposto al confessore incontrava la risposta che confessarsi (onestamente s’intende) è sempre bene; che i sacramenti hanno effetti soprannaturali su chi li riceve, e noi non possiamo sapere per certo se dopo ricevuto il sacramento, l’intenzione peccaminosa non si potrà vincere; che la grazia di Dio è più forte delle intenzioni umane; e insomma che non era il caso di accusarsi incautamente di sacrilegio. Così alla sera si andava dove si doveva andare con la consolazione di averlo detto prima al confessore.
La Religione veniva spodestata dal Costume, che in paese ai miei tempi regnava – in questo campo – quasi solo. È usanza che l’uomo giovane si comporti così e così con le donne; la donna corre certi pericoli, tocca a lei guardarsene; del resto anche l’uomo corre certi pericoli. Nei rapporti tra l’uno e l’altra è sottinteso che vige solo quella che si riteneva la legge naturale. È una lotta col coltello, in cui pare, ma non è sempre vero, che sia l’uomo ad avere il coltello per il manico; invece a volte è la ragazza che lo impugna. L’uno e l’altra tentano di accoltellarsi sotto i platani, sotto i portici, nei prati, sui greti: lui per volontà naturale della venere vagabonda, lei per necessità delle nozze certe. Il paese stava a guardare.
La storia ideale eterna della nostra educazione sessuale si svolge dunque in queste Età:
   età dell’Innocenza e delle Brutte Cose
   età della Purezza e della Conturbazione
   età delle Compagnie e dei Concubiti Vaghi
   età dei Morosi e dei duelli per i Concubiti Certi.

È questo il ciclo che sfocia nel Matrimonio. Qui la religione torna a influenzare il costume imponendo certe regole al comportamento sessuale degli sposi, e riuscendo spesso a farle rispettare attraverso la confessione delle spose e il rifiuto dell’assoluzione.
La parte che riguarda la lascivia (interdetta agli sposi non meno che agli altri) viene facilmente aggirata attraverso la casistica derivante forse dai manuali di teologia, ma sviluppata nelle conversazioni al caffè. È pacifico che lo scopo del matrimonio è la riproduzione, alla quale basta la semplice congiunzione carnale degli sposi, e che perciò ogni lascivia supplementare è atto impuro. Però se il marito in buona fede giudica necessaria qualche specifica lascivia preparatoria per poter accedere alla congiunzione carnale con la moglie, questa lascivia fatta in casa non costituisce atto impuro.
Questa dottrina mi è stata più volte spiegata, con altre parole, dai miei amici. Invece il coitus interruptus non è affatto sentito come un atto impuro, ma come la violazione di una specie di sesto e fondamentale precetto della Chiesa da aggiungersi tacitamente agli altri cinque. Il divieto è assoluto, e nessuna circostanza può scusarne la violazione.
Per coloro che sfuggono allo schema della normale educazione sessuale paesana c’è quasi sempre, oltre all’ambiente familiare “di chiesa” un fattore di vera o immaginaria inferiorità personale, una speciale timidezza, l’essere o il credersi brutti o sgradevoli o ridicoli. Di questo si vedono i segni anche in persone che sono per altri versi simpatiche e vivaci, come Giacometto.
Allevato in una famiglia devota, abituato a prendere sul serio la religione (anzi “la canonica” come dice), e convinto inoltre di non poter piacere alle donne, Giacometto è cresciuto senza sfoghi sessuali adeguati, e con crisi “nervose” sempre più gravi fino al matrimonio. S’è sposato un po’ tardi, come capita a molti di quelli che non militano in una Compagnia: tardi e senza vera scelta sessuale, sostanzialmente “per risolvere il problema”.
Invece il problema è ricomparso dopo il matrimonio nella faccenda della limitazione della famiglia. I tempi sono cambiati, e Giacometto è una vittima del fatto che un analogo cambiamento nei costumi non è ancora avvenuto del tutto, senza dire che la sua educazione vi ripugna. Una volta si prendevano i figli che Dio mandava, e poi si cercava di arrangiarsi nelle difficoltà che nascevano; oggi si è quasi costretti a fare dei calcoli, a regolarsi in anticipo. Ma in che modo? Giacometto parla ora apertamente di queste cose, e pur trattandole con estrema serietà, ci ride sopra e fa ridere.
Forse è proprio così che è riuscito a star fuori dal mondo della madhouse and the whole thing there. Dice che il suo sesso è strabico, ha un occhio sempre puntato sul letto, e l’altro sulla canonica: «Eh,» dice, «il Signore ci ha costruiti con molta malizia!». Non farebbe mai una cosa che il prete definisca peccato, ma è troppo serio per non capire che non deve neanche fare troppi figli. Le direttive della canonica sono semplici ma, come dice Giacometto, “tecnicamente” ineseguibili; gli amici consigliano ridendo questo o quello strappo. Si ride parlandone, ma non è da ridere provando: Giacometto si è attaccato con tutta la forza del suo humour alla distinzione tra ciò che è e ciò che non è “naturale” nell’evitare la concezione.
Scartato ovviamente ogni manufatto meccanico o chimico, convinto dagli amici che l’acqua è ottima, ma incerto se sia onesta, Giacometto ha finito con l’adottare alcuni compromessi fondati sul fattore tempo, e del resto rivelatisi quasi inutili. «Io al Signore il tempo glielo dò,» diceva; ed è evidente che era vero. Ha sette figli, e non è meraviglia che li tratti male, insultandoli e picchiandoli anche a sproposito, data la pressione a cui si è sottoposto per tanti anni nello sforzo di non metterli al mondo.
Non è il caso di pensare che lo stato dei nervi di Giacometto, e l’atmosfera che regna nella sua famiglia, siano dovuti soltanto alla sua educazione sessuale: queste cose sono troppo complesse e malnote; ma è certo che la famiglia di Giacometto (fondata su una specie di piccolo martirio sessuale del padre) è un ambiente profondamente diseducativo per i figli stessi, a cui fa quasi tutto il male possibile, almeno al di qua del coltello per fare il pesto che usava la signora Orsolina.
Questa, che era vedova con un unico figlio già adulto, e devotissima, dopo aver nutrito di carte da cento il demonio che era entrato in un bove fermo alla “pesa” in Piazzetta, una notte lo pescò che s’era ficcato nel figliuolo addormentato a letto, e lo infilzò più volte col coltello del pesto; erano però ferite guaribili, la madre fu portata al manicomio, il figlio ricomparve in paese bendato, poi si rimise al suo lavoro (faceva l’elettricista), e toccando distrattamente un filo vivo, restò secco.
Se finiscono accoltellati o fulminati (come ho sentito più volte dei padri augurarsi sinceramente per il bene dei figli stessi, e di tutti) il problema è chiuso; ma molti sopravvivono, e per questi il problema dell’influsso dell’ambiente familiare è importante.
Il fratello minore di Giacometto è molto più giovane di lui. Si chiama Stefano, ed è l’unico della famiglia che abbia studiato, in seminario naturalmente. Alla fine dell’adolescenza s’accorse di non avere la vocazione, lo disse subito e tornò onorevolmente al secolo. Non lo conoscevo molto bene, ma abbastanza per dire che si sentiva, sotto, la storia semplice e genuina di un’educazione sbagliata. Aveva creduto da ragazzo che il mondo a cui intendeva rinunciare fosse una cosa, e invece era un’altra. Tornava nel mondo con l’intenzione onesta di riambientarsi pian piano; invece fu quasi travolto.
Le prime esperienze con le donne lo ubriacarono; s’associava in fretta, e provvisoriamente, con questo o quel moncone di Compagnia, senza guardare per il sottile, tanto per imparare il più presto possibile. Si mise a fare stravaganze, come per passar davanti agli altri in ciò che ancora un anno prima avrebbe chiamato la dissolutezza; finì quasi subito con la nostra principale prostituta, innamorato e disperato, però, non semplice cliente. C’era qualcosa di smodato, pericoloso (e toccante) in questo tipico amore impossibile di cui tra i giovanotti laici s’è quasi perso lo stampo: la donna – che era procace e molto più vecchia di lui – era la sua lussuria, la sua amica, la sua protetta e la sua rovina. Si sentiva naturalmente che non poteva durare, e infatti durò meno di un anno, e Stefano ne venne fuori (come credeva) purificato col cauterio (3), maturato, pronto per il matrimonio.
Era un ragazzo presentabile e istruito; poteva scegliere. Scelse una ragazzina di un paese non lontano, carina e timida, la tipica moglie a cui pensa il giovanotto normale: innocente, linda, graziosa. Entro un anno aveva passato i principali amici del marito; poi si mise a raccogliere i vicini, poi i fornitori, il ragazzo del fruttivendolo, l’elettricista; Stefano la trovò in tinello con uno che era venuto sulla porta a vendere i fichi, e ora sono separati. Stefano è in Argentina, non ci sono figli.
C’erano quattro sorelle in casa di Stefano e Giacometto, la peggiore era la Rosalia, che ha sposato un uomo ben diverso dai suoi di casa, quel tipico scapestrato simpatico che è Giulio Sterle. Sterle fa il commerciante, viene da una famiglia abbastanza agiata ed è il prodotto classico dell’educazione sessuale che si ritiene normale in paese. A suo tempo è stato uno dei primi nella sua Compagnia, uno dei più ammirati. Con le donne ha sempre avuto fortuna, in paese e fuori, ma non ne ha mai rovinate. Non faceva fidanzamenti falsi, come fanno i peggiori, ma aveva “avventure” amorose parzialmente copiate dai film, cercando di metterci dentro qualcosa di meno elementare della pura vitalità.
S’innamorava sinceramente, ma con riserve, metteva le mani avanti, che amarsi non vuol dire sposarsi, che non aveva l’intenzione di sposarsi, che poteva offrire solo amore. Le donne ascoltano questi discorsi, e continuano a pensarla a modo loro: altrimenti forse i discorsi non si farebbero. Del resto Sterle offriva qualcosa di più del solo amore; è un bell’uomo grasso e robusto, spigliato, allegro; s’appassiona di molte cose, i cavalli, la montagna, il mare; le donne di cui s’innamorava erano trattate bene. Però la Rosalia rimase incinta. L’incompatibilità di carattere è mostruosa, e Sterle da quando s’è sposato non è stato più lui; ha perso la sua verve, e le energie che non impiega nel lavoro le dedica a baruffare in famiglia.
I figli sono venuti male, forse perché ogni tanto i figli vengono male, o forse anche perché in una famiglia così è quasi impossibile che non vengano male. Il padre ingiuria le figlie e batte i maschi; quando non ci sono li difende sospirando, sono stati presi a malvolere (dai maestri, dalla guardia municipale, dai vicini, dal prete), e inoltre sono delle carogne: le due tesi si rinforzano a vicenda.
La Rosalia è una donna triste e scontrosa. In casa anche lei è in uno stato di guerra coi figli, ma si sente che per essi commetterebbe qualunque bassezza. Pare che tutta la sua personalità si sia concentrata in questa sola energia, l’unica cosa in cui è ancora viva.
Appostata in tinello ringhia contro i passanti al pensiero che siano nemici dei suoi cuccioli; e nelle stagioni degli esami, a mano a mano che arrivano le notizie sui risultati, e vanno rotte le stoviglie, la Rosalia diventa pericolosa, si teme che s’avventi contro la gente e la scanni sul marciapiede.

In seno a una stessa famiglia si vedono i figli crescere sotto gli influssi di cose antiche e nuove, mescolati un po’ a caso. Si possono vedere due sorelle, una suora e una – come si usa dire qui un po’ leggermente – vacca; belle tutt’e due. Io conoscevo un po’ la suora prima che prendesse il velo; cantava canzoni profane (era un po’ vanitosa della sua voce), e sorrideva tutta contenta.
«Perché vuol farsi suora?» le dicevo, ma solo per sapere, non per scherzare.
«E perché no?» diceva lei.
Le dicevo che mi pareva un passo grave, e lei era molto giovane; si era consigliata con qualcuno? Diceva che si era consigliata con don Paolo, forse il più ammirevole dei nostri preti, quasi un santo. Poi aggiungeva sorridendo: «Per don Paolo io farei qualunque pazzia»; e io non sapevo più che dire.
L’altra la conoscevo solo di vista; è sbocciata presto (sbocciano sempre più presto), e sui quindici anni era un amore. Quando si mise a sovrapporre alla grazia e freschezza nativa le fogge e gli stili della moda cittadina, l’effetto immediato fu clamoroso; ma era troppo presto, e infatti avvizzì in fretta, ormai pare vecchia e non ha vent’anni. Non fa che io sappia la prostituta di mestiere, a ore: farà liberi scambi, come una signora di città. Ma saprà farlo con la necessaria prudenza? Anche il suo è stato un passo grave: si sarà consigliata con qualcuno?

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(1) S’intende presentarsi alla chiamata alle armi obbligatoria nella Repubblica Sociale di Mussolini.
(2) Parché, saórlo, col me ga praticà, son ciavà = Perché, che vuole? se se la fa con me, sono fregata (per tradurre molto liberamente).
(3) cauterio = strumento chirurgico che veniva usato, dopo essere stato reso incandescente, per cauterizzare; oggi sostituito dall'ele

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