lunedì 28 agosto 2017

100 I terroristi di Pesca alla trota in America (di Richard Brautigan)




Composto da tanti racconti più o meno brevi, “Pesca alla trota in America” è il libro più noto di Richard Brautigan; a me non è piaciuto più di tanto, anche se tutto sommato si può leggere senza difficoltà (ma è solo la mia opinione). Voglio però pubblicare in questo blog uno dei racconti, quello che mi è piaciuto maggiormente (non a caso, forse, abbastanza differente dal resto): racconta un piccolo episodio di prepotenza (oggi si direbbe bullismo) di un gruppo di ragazzini contro bambini della classe prima. Interessante per ragionare in una classe su un fenomeno sempre più diffuso nelle scuole.
Dopo il racconto, pubblico la recensione apparsa su la Repubblica il 30 maggio 2017, in occasione della riedizione del romanzo presso Einaudi: poi, chi ha voglia di leggere il libro, se ne farà una propria opinione, come io mi sono fatta la mia.

Quando facevamo la sesta, una mattina di aprile, diventammo, prima per caso e poi in maniera premeditata, terroristi di pesca alla trota in America.
Successe così: eravamo uno strano gruppo di ragazzini.
Ci mandavano sempre dal preside per qualche impresa un po’ troppo audace o qualche malefatta. Il preside era giovane ed era un genio per il modo che aveva di trattare con noi.
Quella mattina di aprile, dunque, ce ne stavamo lì nel cortile comportandoci come se fosse un’enorme sala da biliardo all’aperto e quelli di prima fossero biglie che andavano e venivano. Eravamo tutti annoiati all’idea di un’altra giornata di scuola passata a studiare Cuba.
Uno di noi aveva un pezzettino di gesso e quando uno di prima gli capitò a tiro, il nostro amico senza pensarci scrisse «Pesca alla trota in America» sulla schiena del ragazzino.
Il piccolo cercava di girarsi per leggere cosa l’altro gli aveva scritto sulla schiena, ma non riusciva a vedere bene, allora alzò le spalle e andò a farsi un giro in altalena.
Noi rimanemmo lì a osservarlo mentre si allontanava con «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena e ci sembrò una bella cosa. Sembrava del tutto naturale e piacevole che uno di prima se ne andasse in giro con «Pesca alla trota in America» scritto col gesso sulla schiena.
Appena mi capitò a tiro un altro ragazzino della prima, mi feci prestare il gessetto dal mio amico e dissi: - Ehi, tu di prima! Vieni un po’ qua.
Il ragazzino mi venne vicino e io gli dissi: - Girati un po’.
Quello si girò e io gli scrissi «Pesca alla trota in America» sulla schiena. Su quest’altro la scritta sembrava ancora più bella. Non potemmo fare a meno di ammirarla. «Pesca alla trota in America». Senza dubbio aggiungeva un non so che ai ragazzini di prima. Come dire, li completava e gli dava una specie di tocco di classe.
- È proprio bello, eh?
- Come no!
- Andiamo a prendere altri gessetti.
- Certo.
- Laggiù vicino alle sbarre ce ne sono un sacco di ragazzini di prima.
- Vai!
Ci procurammo altri gessetti e più tardi quella mattina, alla fine della ricreazione, quasi tutti quelli di prima, comprese le femmine, avevano «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena.
Al preside cominciarono ad arrivare un sacco di lamentele da parte degli insegnanti di prima. Una delle lamentele arrivò sotto forma di una ragazzina.
- Mi manda la signorina Robins, - disse al preside. – Ha detto così, che deve dare un’occhiata a questo.
- Questo che? – chiese il preside, fissando la ragazzina vuota.
- Dietro la schiena, - rispose lei.
Così dicendo si voltò e il preside lesse ad alta voce: - Pesca alla trota in America-
- Chi è stato? – chiese poi il preside.
- Una banda di quelli della sesta. Quelli cattivi. L’hanno fatto a tutti noi di prima. Abbiamo tutti questa cosa qui sulla schiena. «Pesca alla trota in America». Che significa? La nonna me lo aveva appena regalato questo golfino nuovo.
- Ehm, «Pesca alla trota in America», - borbottò il preside. – Dí pure alla signorina Robins che fra poco sarò da lei -. E dopo aver rimandato in classe la ragazzina, convocò noi terroristi dai bassifondi nel suo ufficio.
Vi entrammo tutti insieme con una certa riluttanza e ci mettemmo nervosamente a strusciare i piedi per terra, a guardare fuori dalla finestra, a sbadigliare. A un certo punto, uno di noi fu sopraffatto da un folle tic a un occhio. Tenevamo le mani in tasca e guardavamo da un’altra parte, poi tornavamo a fissarlo e poi alzavamo gli occhi alla plafoniera che sembrava tanto una patata lessa e poi li abbassavamo sulla foto della madre del preside che era appesa alla parete. Era stata una diva del cinema muto e nella foto era legata sui binari.
- Ragazzi, per caso la frase «Pesca alla trota in America» risulta familiare a qualcuno di voi? – domandò il preside. – Mi chiedevo se l’avevate vista scritta da qualche parte nel corso delle vostre avventure di oggi, eh? «Pesca alla trota in America». Pensateci su bene un attimo.
Ci pensammo su bene un attimo tutti quanti.
C’era un gran silenzio nella stanza, un silenzio che tutti noi conoscevamo benissimo, essendo già stati nell’ufficio del preside un sacco di volte in passato.
- Vediamo se posso rinfrescarvi un po’ la memoria, - soggiunse il preside. – Non è che per caso avete visto la frase «Pesca alla trota in America» scritta col gesso sulla schiena degli alunni di prima? Chissà come sarà finita lì, eh?
Non riuscimmo a reprimere una risatina nervosa.
- Sono appena tornato dalla prima della signorina Robins, - annunciò il preside. – Ho chiesto a tutti gli alunni che avevano «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena di alzare la mano e tutti quelli che erano in classe l’hanno alzata, tranne uno che aveva passato tutta la ricreazione nascosto nel bagno. Che ne dite voi… di questa faccenda della «Pesca alla trota in America»?
Nessuno aprì bocca.
Quello che aveva il tic folle a un occhio continuò a sbattere la palpebra. Sono sicuro che fu quel suo tic da senso di colpa a tradirci. Avremmo dovuto sbarazzarci di lui all’inizio dell’anno.
- Siete voi i colpevoli, non è vero? – disse lui. – C’è qualcuno di voi che non c’entra? Se c’è, lo dica subito!
Rimanemmo tutti in silenzio, tranne che per quel tic, tic, tic, tic. Improvvisamente cominciai a sentire quella stramaledetta palpebra che sbatteva. Era molto simile al suono di un insetto che deposita il milionesimo uovo della nostra sventura.
- Siete stati tutti voi. Ma perché?... Perché avete scritto «Pesca alla trota in America» sulla schiena di tutti gli alunni delle prime?
Fu a quel punto che il preside tirò fuori il suo famoso trucco «E = mc² contro la sesta», quello che aveva sempre impiegato quando aveva avuto a che fare con noi.
- Ora sentite un po’: non sarebbe buffo se io chiedessi a tutti i vostri insegnanti di venire qui e dicessi loro di girarsi e poi prendessi un pezzo di gesso e scrivessi «Pesca alla trota in America» sulle loro schiene?
Ci mettemmo tutti a ridacchiare nervosamente e arrossimmo un po’.
- Vi piacerebbe vedere i vostri insegnanti andare in giro tutto il giorno con «Pesca alla trota in America» scritto sulla schiena mentre cercano di spiegarvi Cuba? Sarebbe una scena un po’ sciocca, non credete? Non vi piacerebbe vedere una cosa del genere, vero? Non sarebbe affatto una bella cosa, vero?
- No, - dicemmo tutti insieme come un coro greco. Qualcuno di noi lo disse con la voce, altri solo scuotendo la testa e poi c’era quello che continuava a fare tic, tic, tic con la palpebra.
- Proprio come pensavo, - disse il preside. – Quelli delle prime vi stimano e vi ammirano proprio come gli insegnanti stimano e ammirano me. Non è bello scrivere «Pesca alla trota in America» sulla loro schiena. Siamo d’accordo, signori?
Eravamo d’accordo.
Vi assicuro che funzionava ogni volta, accidenti.
Era naturale che funzionasse.
- Bene, - concluse. – Considero chiuso l’incidente «Pesca alla trota in America». D’accordo?
- D’accordo.
- D’accordo?
- D’accordo.
- Tic, tic.
Ma non era completamente vero, perché ci volle un po’ per togliere qualsiasi traccia di «Pesca alla trota in America» dai vestiti di quelli delle prime. Una buona percentuale delle scritte il giorno dopo non c’era più. Le madri ottennero presto questo risultato semplicemente cambiando i vestiti ai figli, ma ci furono anche un sacco di ragazzini le cui madri tentarono di cancellarle e poi li rimandarono a scuola il giorno dopo con gli stessi vestiti, ma vi si poteva ancora leggere «Pesca alla trota in America», anche se un po’ sbiadito, sulla schiena. Comunque, dopo qualche altro giorno ogni traccia di Pesca alla trota in America sparì del tutto, come d’altronde era destinata a fare sin dal principio, e una sorta di autunno scese su tutte le prime.


La copertina della nuova edizione italiana del libro

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Quando Moby Dick si trasformò in una trota
(di Marco Belpoliti)
Richard Brautigan è tornato. È la quarta volta che accade dal 1989, quando Riccardo Duranti tradusse il suo romanzo più importante, "Pesca alla trota in America". Erano allora trascorsi solo cinque anni da quando il suo autore si era suicidato sparandosi con una pistola presa in prestito, chiudendo così anzitempo a quarantanove anni una carriera di successo e insieme d'incomparabili fallimenti. Periodicamente il suo caleidoscopico romanzo viene ristampato alla ricerca del suo pubblico di lettori: Serra e Riva editori, Marcos y Marcos, Isbn Edizioni e ora Einaudi Stile Libero (con la traduzione di Riccardo Duranti e la prefazione di Sandro Veronesi). Riuscirà finalmente il più formidabile scrittore del movimento hippy a farsi leggere anche presso di noi? Le premesse perché diventi un autore di culto ci sono tutte.
Brautigan è stato lo scrittore che ha unito la beat generation e il romanzo postmoderno, che ha incarnato al meglio la stagione psichedelica pur restando nel solco della narrazione alla Melville, che ha bordeggiato Carlos Castaneda e nel contempo continuato lo stile comico di Mark Twain. Pesca alla trota, pubblicato in originale nel 1967, vendette dieci milioni di copie negli Usa, dando a Brautigan una fama tale da impedirgli di passeggiare liberamente per le vie San Francisco senza essere inseguito da torme di ammiratori. Il mancato successo italiano non dipende però da una qualche mancanza di Brautigan. Era e resta uno scrittore affascinante, e possiede pure il tocco magico del narratore di storie di vita vissuta come, o forse più, di Raymond Carver. E tuttavia, pur essendo oramai un classico, è rimasto sospeso nel limbo.
Richard Brautigan è uno specialista di luoghi della mente, di utopie e d'immaginari così potenti che non è facile rapportarsi con lui, e nel contempo pratica uno stile apparentemente lineare, dimesso, ironico, volto alla comicità e alla malinconia. La cosa più facile è perciò prenderlo sottogamba, senza capire che Brautigan ha fatto con il racconto breve quello che Melville ha realizzato con Moby Dick: ha porto all'America uno specchio in cui conoscere se stessa e contemplarsi, con la trota al posto della balena. Non una diminuzione, bensì un suo agevole e conseguente ampliamento.
Pesca alla trota in America è un libro etico e svagato, serio e malinconico, comico e surreale. Un capolavoro, per farla breve. Unione di realismo e nonsense sublime, lo stesso che circola nei cortometraggi di Stanlio&Ollio, nel teatro di Beckett, nei romanzi di Breton e nelle pagine del primo Wittgenstein. Cosa racconta? Tante piccole storie quotidiane che ruotano intorno a quel luogo immaginario che è un ruscello in cui guizzano, o almeno dovrebbero, le trote, e che a volte è una pozza d'acqua rafferma, una discarica o una casupola di legno.
Tutto e il contrario di tutto, come l'America di cui Brautigan narra la storia fallimentare. Gli States che ci descrive questo poeta beat, nato a Tacoma nello stato di Washington nel 1935 da una famiglia di proletari, sono gli stessi ritratti dall'obiettivo di Walker Evans: villaggi polverosi dell'Ovest, insegne di negozi, gente per strade e boschi, uomini con jeans rattoppati, ragazze e i ragazzi con le efelidi, bambini, angeli caduti in terra e demoni meridiani. Negli undici romanzi e libri di racconti che ha scritto, e nelle innumerevoli opere di poesia date alle stampe, c'è non solo l'autobiografia di un fallito di successo, ma anche quella di una intera nazione, che dagli anni Sessanta è arrivata sino a noi fedele a se stessa, e che ancora ci fa arrabbiare e ci commuove.
Brautigan è un vero dropout della letteratura. Giunto dalla provincia a San Francisco ha vissuto di espedienti, scrivendo poesie e vendendole in giro insieme ai semi di fiori, bazzicando bar e locali per chiacchierare, fino a che il romanzo ne ha fatto il profeta della "generazione Woodstock". Stampato da Four Seasons Foundation, piccola casa editrice californiana, dopo innumerevoli rifiuti, Pesca alla trota era diventato il manifesto dei giovani che ascoltavano Bob Dylan e Janis Joplin. Le sue sono storie stralunate di amori finiti male, di amari incontri, d'improvvise allegrie e malinconici congedi. Storie minori eppure uniche, che gettano una luce inattesa sul mondo degli emarginati, il rovescio della American way of life lastricato di dollari e successi facili. Adesso che l'America è il paese guidato da un miliardario bizzarro, votato da milioni di persone che vivono nelle periferie di quel paese, in minuscole cittadine come quelle descritte da Brautigan, è davvero necessario prendere in mano e leggere Pesca alla trota in America.
Per capire le origini di quel mito che Achab, al culmine dell'epica del XIX secolo inseguiva lungo i mari procellosi del globo, e che con la Trota si deposita invece in un torrente montano smontato a pezzi, venduto nel Deposito Demolizioni di Cleveland. Per capire come e perché l'America duri ancora nonostante tutto, bisogna leggere l'ultimo dei beat e il suo guizzante pesce, oltre Zucchero di cocomero, il romanzo successivo, uscito nel 1968, dove si narra dell'utopia negativa di una comunità che ha abolito conflitti sociali, gerarchie e tecnologie per vivere nell'attimo fuggente, premonizione della futura Silicon Valley. Speriamo Einaudi lo ristampi al più presto. Solo così il poeta bohémien potrà uscire dal limbo in cui è stato relegato ingiustamente, e diventare il più classico dei nostri narratori contemporanei.





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