martedì 29 agosto 2017

101 Il prepotente (di Ian McEwan)




Dopo quella precedente (post numero 100), un’altra storia di bullismo, che si risolve però in maniera positiva. Perché nei racconti succede così, mentre nella realtà le cose non finiscono sempre bene.
Il brano è tratto da “L’inventore di sogni”, un romanzo del 1993, che narra la crescita di un adolescente attratto dal mondo dei sogni.

C’era un prepotente nella classe di Peter; si chiamava Barry Tamerlane. Non aveva l’aria da prepotente. Non era di quelli sempre tutti sporchi; non aveva una faccia brutta, e neppure lo sguardo da far paura o le croste sopra le dita, e non girava armato. Non era poi tanto grosso. Ma nemmeno di quei tipi piccoli, ossuti e nervosi che quando fanno la lotta possono diventare cattivi. A casa non lo picchiavano, come spesso succede ai prepotenti, e neanche lo viziavano. Aveva genitori gentili ma fermi, che non sospettavano nulla.
La voce non ce l’aveva né acuta né rauca; gli occhi, non particolarmente piccoli e cattivi, e non era neppure troppo cretino. Anzi, a guardarlo era bello morbido e tondo, pur senza essere grasso; portava gli occhiali e, sulla sua faccia soffice e rosa luccicava l’argento dell’apparecchio dei denti. Spesso metteva su un’aria triste e innocente che a certi grandi piaceva e che gli tornava comoda quando doveva togliersi dai guai.
Come si spiega allora che Barry Tamerlane riuscisse tanto bene a fare il prepotente? Peter aveva dedicato a questa domanda un bel po’ di pensieri. Ed era giunto alla conclusione che il successo di Barry avesse due spiegazioni. La prima era che Barry sembrava capace di ridurre al minimo i tempi tra il volere una cosa e l’ottenerla. Supponiamo ad esempio che gli andasse a genio il giocattolo che aveva un bambino in cortile: lui non faceva altro che strapparglielo di mano. Oppure se in classe gli serviva una matita, si voltava e “prendeva in prestito” quella di un compagno. Se c’era da fare una coda, lui si metteva per primo. Se ce l’aveva con qualcuno, glielo diceva in faccia e poi lo picchiava senza pietà.
La seconda ragione del successo di Tamerlane era che di lui avevano tutti paura. Non si sapeva bene perché. Bastava sentirlo nominare per provare una specie di pugno gelato alla bocca dello stomaco. Uno aveva paura, perché ce l’avevano gli altri. Barry metteva paura, perché aveva la reputazione di uno che mette paura. Vedendolo arrivare, la gente se ne stava alla larga, e se chiedeva caramelle o un giocattolo, se le vedeva subito consegnare. Facevano tutti così, perciò sembrava logico non fare in modo diverso.
Barry Tamerlane era potente in tutta la scuola. Nessuno poteva impedirgli di prendersi quel che voleva. Neanche lui stesso. Era una forza cieca.
A volte Peter pensava che fosse come un robot programmato per fare tutto quel che doveva. Che strano che non gli importasse di essere senza amici, o di essere odiato ed evitato da tutti.
Naturalmente, Peter si teneva lontano da quel prepotente, ma provava per lui un interesse speciale. Barry Tamerlane era un mistero.
Quando compì undici anni, Barry invitò a casa una dozzina di compagni. Peter cercò di salvarsi, ma i suoi genitori furono irremovibili. Dal canto loro trovavano simpatici la mamma e il papa di Barry e perciò, in base a una logica adulta, Peter doveva trovare simpatico il figlio.
Il festeggiato tutto sorridente accolse i bambini sulla porta di casa. «Salve Peter! Grazie! Ehi, Mamma, guarda che cosa mi ha regalato il mio amico Peter!»
Quel pomeriggio, Barry fu cortese con tutti i suoi ospiti. Partecipava alle gare, senza pretendere di vincere sempre, soltanto perché era il suo compleanno. Rideva con i genitori e versava da bere, e aiutò addirittura a rimettere in ordine e a lavare i piatti.
A un certo momento della festa, Peter sbirciò nella stanza di Barry. C’erano libri dappertutto, una pista da trenino montata sul pavimento, un vecchio orso di pezza sul letto appoggiato al cuscino, una scatola del piccolo chimico, un gioco elettronico: una stanza identica in tutto e per tutto alla sua.
Alla fine del pomeriggio, Barry salutò Peter con una pacca sul braccio e gli disse: «A domani Peter». Allora Barry Tamerlane ha una doppia vita, pensava Peter tornando a casa. Ogni mattina in un determinato punto del tragitto tra casa e scuola, il bambino si trasforma in un mostro, e la sera, il mostro ritorna bambino. Questi pensieri portarono Peter a fantasticare su pozioni e incantesimi che trasformano le persone; poi però, nelle settimane che seguirono la festa di compleanno, si scordò tutto quanto. È già un mistero che riusciamo a vivere circondati da tanti misteri, e in fondo l’universo è pieno di enigmi ben più straordinari di quello di Barry Tamerlane.
Uno di questi enigmi aveva ingombrato la mente di Peter piuttosto spesso negli ultimi tempi. Camminando nel corridoio della scuola diretto alla biblioteca, aveva incrociato due ragazze delle classi alte. Una delle due stava dicendo all’amica: «Ma come fai a sapere che adesso non stai sognando? Magari stai solo sognando di parlare con me».
«Be',» disse l'amica, «basta che mi dia un pizzico: se mi fa male, mi sveglio».
«Ma prova a pensare,» disse la prima, «se stessi solo sognando di pizzicarti, e anche di aver sentito male. Potrebbe essere tutto un sogno e tu non lo sapresti mai...»
Svoltarono l’angolo e sparirono.
Peter rimase a riflettere. Quell’idea era venuta in mente anche a lui, ma non era mai riuscito a formularla con altrettanta chiarezza. Si guardò intorno. Lui con il libro della biblioteca in mano, il corridoio grande pieno di luce, le aule che si aprivano a destra e sinistra, i bambini che uscivano: forse non c’era niente di vero. Forse erano solo il frutto dei suoi pensieri. Sul muro proprio accanto a lui c’era un estintore. Allungò una mano e lo toccò. Il metallo rosso era freddo al tatto. Era solido, reale.
Come avrebbe potuto non esserci? E del resto, nei sogni le cose andavano esattamente così: tutto sembrava vero. Era solo svegliandosi che uno si rendeva conto di avere sognato. Come poteva essere sicuro di non averlo sognato quell’estintore, con la vernice rossa e la sensazione di freddo?
Passavano i giorni e Peter pensava sempre di più a questo problema.
Un pomeriggio si trovava in giardino e improvvisamente si rese conto che se il mondo che vedeva lo stava semplicemente sognando, allora era lui a determinare tutto quel che c’era dentro e che capitava. In alto un aereo aveva iniziato la fase di atterraggio. Il sole ne accese le ali di un luccichio d’argento. Tutta quella gente che adesso stava tirando su il sedile e mettendo da parte i giornali, non poteva avere idea di essere solo sognata da un ragazzino laggiù sulla terra.
Era colpa sua? Che pensiero orribile! Comunque, se così fosse stato, tutti gli incidenti aerei non sarebbero stati veri, no? Sarebbero stati solo dei sogni. Ciononostante, Peter fissò l’aereo sulla sua testa e desiderò con tutte le forze che arrivasse sano e salvo in aeroporto. E così fu.
Un paio di sere dopo, la mamma di Peter entrò in camera sua per augurargli la buona notte. Proprio nell’attimo in cui le labbra sfioravano la sua guancia, Peter ebbe un altro di quei pensieri.
Se questo era un sogno, che ne sarebbe stato di sua madre al risveglio? Ce ne sarebbe stata un’altra, più o meno uguale, ma vera? Oppure una completamente diversa? O magari nessuna? Mrs. Fortune rimase piuttosto sconcertata, quando suo figlio le gettò le braccia intorno al collo e non voleva più lasciarla andar via.
Con l’andar dei giorni, a furia di rigirarsi in testa quel pensiero, Peter finì per convincersi che la sua vita fosse probabilmente soltanto un sogno. C’era qualcosa di simile a un sogno nel modo in cui i bambini al mattino si riversavano tutti a scuola, e nel modo in cui la voce della maestra fluttuava nell’aria dell’aula, e nel fruscio che faceva la sua gonna, quando si dirigeva verso la lavagna. Ed era decisamente da sogno, il modo in cui la maestra gli si parava di fronte all’improvviso per chiedergli:
«Peter? Peter? Mi ascolti? Stavi fantasticando di nuovo?»
Lui si sforzò di dirle la verità. «Credo di aver sognato che stavo fantasticando».
L’intera classe scoppiò a ridere. Meno male che Mrs. Burnett aveva un debole per lui. Gli passò una mano tra i capelli e disse: «Sta’ attento». Poi si avviò al fondo dell’aula.
Fu dunque così che quel giorno durante la ricreazione, Peter si ritrovò da solo ai margini del cortile. Guardando, chiunque avrebbe visto un bambino vicino al muro che fissava lo sguardo nel vuoto, senza fare niente. In realtà, Peter pensava molto intensamente. Era stato sul punto di addentare la mela, quand’ecco un’altra delle sue idee brillanti. Un’illuminazione. Se la vita era un sogno, allora la morte doveva essere il momento in cui ci si sveglia. Era talmente semplice che non poteva non essere così. Uno moriva, il sogno era finito, e ci si svegliava. Ecco perché la gente parlava di paradiso. Era come svegliarsi. Peter sorrise. Stava quasi per concedersi la ricompensa di un morso di mela, quando sollevò lo sguardo e si ritrovò gli occhi puntati sulla faccia rosa e tondetta di Barry Tamerlane, il prepotente della scuola.
Sorrideva, ma non aveva l’aria contenta. Sorrideva, perché voleva qualcosa. Aveva attraversato il cortile in diagonale, senza badare agli altri che giocavano a pallone, a campana e a saltare la corda. Tese molto semplicemente la mano e disse: «Voglio quella mela». Poi tornò a sorridere. Un raggio di sole illuminò l’argento del suo apparecchio.
Dovete sapere che Peter non era un codardo. Una volta era sceso zoppicando da una montagna del Galles con una caviglia slogata, senza un solo lamento. E un’altra volta, si era gettato nel mare in burrasca tutto vestito, per andare a salvare il cane di una signora dalle onde. Ma non aveva coraggio per le risse. Era più forte di lui. Era un ragazzino abbastanza robusto per la sua età, ma sapeva che non sarebbe mai riuscito a vincere facendo la lotta, perché non ce l’avrebbe fatta a colpire un altro sul serio. Quando in cortile scoppiava una rissa, e tutti i bambini si facevano intorno a vedere, a Peter veniva la nausea e gli tremavano le ginocchia.
«Avanti,» disse Barry Tamerlane in tono ragionevole. «Passami quella mela, se non vuoi che ti disfi la faccia».
Peter sentì il gelo salirgli dai piedi e diffondersi in tutto il corpo. La mela era gialla striata di rosso. La buccia era un po’ vizza, perché se l’era portata a scuola una settimana prima ed era rimasta nel banco tutto quel tempo, emanando un profumo dolce di legno. Valeva la pena di farsi disfare la faccia per così poco? Certamente no. E d’altra parte, era giusto cederla, solo perché un prepotente la voleva?
Rivolse lo sguardo su Barry Tamerlane. Si era fatto un po’ più vicino. La sua faccia rotonda, da rosa era diventata rossa. Le lenti gli ingrandivano gli occhi. Una bollicina di saliva brillava sospesa tra il ferretto e uno dei denti davanti. Non era più grosso, e di sicuro, nemmeno più forte di Peter.
«Dai Peter! Fagli vedere!» disse qualcuno inutilmente. Barry Tamerlane si voltò lanciando un’occhiata cattiva, e il ragazzino si rintanò in fondo alla folla.
«Dai Barry! Tocca a te!» dicevano altre voci.
A Barry Tamerlane non piaceva essere contrastato. Si stava preparando a menare le mani. Voltandosi di profilo, stava già tirando all’indietro un pugno. Teneva le ginocchia leggermente piegate e ondeggiava di qua e di là. Sembrava sapere il fatto suo.
Altri bambini si radunavano in cerchio. Peter sentì l’annuncio diffondersi in tutto il cortile: «Si picchiano! Si picchiano!» Arrivava gente da tutte le direzioni.
Peter si sentiva il cuore battere forte dentro le orecchie. L’ultima volta che si era trovato in una situazione del genere, lui era un gatto che poteva contare sui trucchi di un essere umano (1), questa volta non era così facile. Cercando di prendere tempo, si passò la mela da una mano all’altra e disse: «La vuoi davvero questa mela?»
«Hai sentito benissimo,» replicò Tamerlane con voce monotona. «Quella mela è mia».
Peter osservò il bambino che si stava preparando a colpirlo e gli venne in mente... la festa di compleanno di tre settimane prima, quando Barry era stato così affettuoso e cordiale. E adesso, eccolo lì a fare tutte le smorfie possibili per sembrare cattivo. Che cosa gli faceva credere che quando era a scuola aveva il diritto di fare e di prendersi tutto ciò che voleva?
Peter osò distogliere un attimo lo sguardo dall’avversario e vide il cerchio di facce spaventate che gli si accalcavano intorno. Gli occhi spalancati, le bocche appese. Tamerlane il terribile stava per mettere a terra un bambino e nessuno poteva farci granché. Che cosa rendeva tanto potente il roseo, il paffuto Barry? E all’improvviso, dal nulla, Peter trovò la risposta. Ma è ovvio, pensò. Siamo noi. Siamo noi che lo abbiamo sognato come il prepotente della scuola. Non è più forte di nessuno di noi. Tutta la sua forza e il potere, ce la siamo sognata noi. Noi abbiamo fatto di lui quel che è. Quando va a casa e nessuno gli crede se fa il prepotente, allora torna se stesso.
Barry tornò a parlare. «È la tua ultima occasione. Dammi quella mela o preparati a fare un volo che ti porterà diretto dentro la settimana che viene».
Per tutta risposta, Peter si portò la mela alla bocca e ne staccò un gran morso. «Vuoi sapere una cosa?» - gli disse lentamente, senza smettere di masticare. «Io non ti credo. Anzi, se proprio vuoi saperlo, non credo nemmeno che tu esista».
La folla trattenne il fiato, qualcuno azzardò una risatina. Peter sembrava talmente sicuro di sé. Magari era vero. Persino Barry aggrottò le ciglia e smise di ondeggiare. «Che cosa hai detto?»
La paura di Peter era scomparsa del tutto. Se ne stava in piedi di fronte a Barry e gli rivolgeva un sorriso, come se avesse pietà del suo non esistere. Dopo settimane di elucubrazioni intorno alla natura di sogno della vita, Peter aveva deciso che nel caso del prepotente Barry le cose stavano sicuramente così, e che perciò, se anche l’avesse colpito in faccia con tutta la forza che aveva, non gli avrebbe fatto più male di quanto poteva fargliene un’ombra.
Barry si era ripreso e si preparava a combattere.
Peter staccò un altro morso di mela. Mise la faccia vicina a quella di Barry e lo squadrò come se avesse di fronte una vignetta buffa disegnata sul muro. «Tu non sei altro che un grasso budino rosa... coi denti di ferro.»
Ci fu uno scroscio di risa tra la folla che si diffuse, differenziandosi in risolini, sghignazzi e grida. I bambini si davano di gomito, battendosi sulle ginocchia. Fingevano, naturalmente. Ciascuno voleva dimostrare agli altri che gli era passata la paura. Frammenti di quell’insulto rimbalzarono di bocca in bocca: «Budino rosa... denti di ferro... un budino coi denti!». Peter sapeva di aver detto una crudeltà. Ma che importanza poteva avere? Tanto Barry non era vero. Adesso appariva di un bel rosa acceso, più di qualunque budino mai visto. Chissà come odiava essere lì.
Peter incalzò, prima che l’altro recuperasse la rabbia.
«Sono stato a casa tua. Ti ricordi? Per il tuo compleanno. Tu sei un bambino normale, tranquillo. Ti ho anche visto aiutare tua mamma a lavare i piatti...»
«Aaaaaaah,» fece eco la folla accompagnando l’esclamazione con una nota di caloroso disprezzo.
«Non è vero,» vomitò Barry. Aveva gli occhi lucidi.
«E poi ho guardato in camera tua e ho visto l’orsacchiotto ben rincalzato sotto le coperte.»
«Aaaaaaah,» gridò la folla, procedendo dalla sorpresa al più sincero sberleffo. «Uuuuuuuuh! Piccolino... pisciasotto... dorme soltanto con l’orsacchiotto... aaaaah.»
Va da sé che non c’era uno solo tra i presenti che non nascondesse una segreta passione per qualche vecchio animale di pezza malconcio e che non se lo coccolasse tutte le notti. Ma che soddisfazione, scoprire che il prepotente non era da meno.
È probabile che Barry Tamerlane avesse ancora in mente l’idea di picchiare Peter. Con il crescere delle grida di scherno, la sua mano si sollevò in un pugno poco convinto. E proprio a quel punto accadde una cosa terribile. Barry si mise a piangere. Inutile far finta di niente. Le lacrime gli correvano ai lati del naso senza che lui riuscisse a controllarle. Sussultava con tutto il corpo e di tanto in tanto tirava su un po’ d’aria per respirare. Ma la folla non ebbe pietà.
«Oh poverino, vuole la mamma...»
«No, l'orsacchiotto...»
«Uuuuuuuh! Che vergogna...»
Ormai il pianto era tanto dirotto che Barry non ebbe neppure la forza di allontanarsi. Rimase lì, in mezzo al cerchio degli altri bambini, a piangersi e a smoccolarsi dentro le mani. Erano tutti e tutto contro di lui. Nessuno gli credeva più. La bolla del sogno era scoppiata facendo svanire anche il prepotente di prima.
A poco a poco risa e battute si spensero in un silenzio imbarazzato che contagiò la folla. I bambini incominciarono ad allontanarsi per tornare a giocare. Una maestra attraversò di corsa il cortile, cinse col braccio le spalle del ragazzino rimasto solo e lo portò via, dicendo: «Povero caro! Qualcuno ti ha fatto un dispetto?»
Per il resto di quella mattina in classe, Barry rimase muto. Si ingobbì sul quaderno senza più alzare gli occhi per non incontrare lo sguardo degli altri. Sembrava che stesse cercando di farsi più piccolo, di sparire magari.
Peter, al contrario, si sentiva pieno di sé. Rientrò dal cortile e prese posto nel banco, proprio dietro a Barry, facendo finta di ignorare le strizzatine d’occhi e i sorrisi riconoscenti che lo circondavano. Aveva messo al tappeto quel prepotente senza bisogno di alzare un dito, e quasi tutta la scuola lo aveva visto. Era diventato un eroe, un conquistatore, superman. Non c’era impresa impossibile per la sua intelligenza superiore e per la sua astuzia.
Ma col passare delle ore, incominciò a sentirsi vagamente diverso. Le parole che aveva detto si misero a ossessionarlo. Le aveva dette davvero? Non poté non notare la sagoma ricurva di Barry Tamerlane davanti a lui. Peter si chinò e gli batté sulla schiena con il righello. Ma Barry scosse la testa e non rispose... Peter trasalì al ricordo di quel che aveva detto. Si sforzò di far mente locale su tutte le atrocità commesse da Barry. Cercò di concentrarsi sulla sua vittoria, ma non provava più alcuna soddisfazione. Si era preso gioco di Barry solo perché era grasso e portava l’apparecchio e aveva un orsacchiotto e aiutava sua mamma a lavare i piatti.  Certo, aveva voluto difendersi e dare una buona lezione a Barry, ma aveva finito col trasformarlo in un oggetto di scherno per tutta la scuola. Le sue parole gli avevano fatto molto più male di qualsiasi pugno sul naso. Lo avevano umiliato. E adesso il prepotente chi era?
Uscendo per l’intervallo del pranzo, Peter appoggiò un biglietto sul banco di Barry. C’era scritto: «Ti va di giocare a pallone? PS. Ce l’ho anch'io un orsacchiotto e devo sempre aiutare mia madre a lavare i piatti. Peter».
Barry era terrorizzato al pensiero di dover affrontare gli altri nell’intervallo, perciò accettò volentieri. I due ragazzini organizzarono una partita e vollero a tutti i costi essere messi nella stessa squadra. Si aiutarono a segnare, e uscirono dal campo tenendosi sottobraccio. Non aveva più senso continuare a prendere in giro Barry. Lui e Peter divennero amici, non proprio del cuore, ma amici, comunque. Barry appese in camera sua il biglietto che Peter gli aveva scritto, e del prepotente, come succede con i brutti sogni, ci si scordò presto.

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(1) La frase fa riferimento ad un altro episodio del romanzo, nel quale Peter si era scontrato con il gatto dei vicini.


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