sabato 29 luglio 2017

92 Libera nos a malo: capitolo 14 (di Luigi Meneghello)



Meneghello continua in questo capitolo del suo romanzo d’esordio la propria riflessione personale sulla gente di Malo: sui suoi valori, le sue istituzioni, il modo di vivere. E continua il confronto con il presente degli anni Cinquanta-Sessanta e il mondo acculturato dei centri urbani: la cultura paesana (o meglio, il costume paesano) emerge con la propria molteplice varietà, fatta di bestemmie, lavoro, interesse, allevamento dei bachi da seta, condizione della donna, varietà dialettali e molto altro ancora.

Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso? È difficile dire.
Ora siamo in un momento in cui, scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto meno. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in altre c’è poco cambiamento.
Mentre si formano le nuove strutture è rimasto ancora non poco delle vecchie, di quella vita paesana che fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi era (e per certi versi è rimasta) la vita tout court. Quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo generico: ma qui dove almeno l’impianto generale delle strade, delle case, degli edifici pubblici è rimasto quasi immutato, è ancora possibile commemorarla.
Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori.
Le stagioni avevano più senso, perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case. Sembrava quasi che anche la vita privata avesse più senso, o almeno un senso più pieno, proprio perché era indistinguibile dalla vita pubblica di ciascuno. Si veniva al mondo con una persona pubblica già ben definita: Chi sei tu? Un Rana, un Cimberle, un Marchioro? Di quali Marchioro: Fiore, Risso, Còche, Culatta, Culattella? Dove non bastavano i nomi di famiglia, intervenivano i soprannomi di famiglia a definire l’identità di ciascuno. Si era al centro di una fitta rete di genealogie, di occupazioni ereditarie, di tradizioni, di aneddoti.
C’erano “signori”, gente e poveri; ma molte parti della vita si condividevano (in certi sensi di più, per esempio, che non sarebbe pensabile in Inghilterra): i servizi pubblici erano in comune, in comune la lingua, le scuole, le osterie, le chiese, i confessionali. Non era in comune il cibo: e più volte vedendo i poveri mangiare ebbi lo shock di sentire una differenza che in seguito avrei potuto chiamare di classe. Il culmine del successo mondano per i nostri vecchi era quello: “Mangia bene”.
C’erano - oltre alle istituzioni riconosciute de jure - innumerevoli altri istituti di fatto che informavano la vita: le compagnie, la classe di leva, il vino, persino la bestemmia. La bestemmia è un istituto di una certa importanza, non è vero che sia solo un ausilio espressivo degli inarticulate: c’è bensì anche questo aspetto nelle bestemmie della gente, specie quelle allegre e serene che credo facciano sorridere anche il Signore e i santi. Ma la bestemmia vera è quella arrabbiata, che “tira giù” il soprannaturale, ed esprime un giudizio di fondo - rozzo ma indipendente - sul funzionamento del mondo. Ufficialmente il bestemmiatore non s’arrischierebbe a sostenere che in fondo ne abbiano colpa lassù, se le cose vanno storte: ma nell’atto di bestemmiare, fa proprio questo, e viene a contrapporre il punto di vista del buon senso eretico a quello della pietà tradizionale. Il giovanotto emancipato che bestemmia per sport (e altrettanto il popolano che bestemmia per dispetto) suscita nei più giovani la sensazione di una sfida empia ma interessante, in cui si avverte con un delizioso brivido la differenza tra ciò che veramente si crede e si sente, e ciò che si dovrebbe credere e sentire.
Probabilmente non è il caso, parlando di questi modi di vita, di tirar fuori la parola cultura. In un solo senso c’era una nostra cultura paesana, e cioè come costume tradizionale, un sistema di rapporti e di valori ben definito e articolato. Va da sé che quella che si può chiamare in senso stretto la cultura - la cultura intellettuale - o mancava o era importata dai centri urbani dove la si elabora.
Invece un nostro costume paesano c’era: noi si viveva secondo un sistema di valori in buona parte diverso da quello ufficialmente vigente; un sistema di antica formazione prevalentemente rurale e popolare, che aveva adottato anche idee di origine urbana e colta, ma le aveva assimilate e trasformate a modo suo. In quanto questo costume si rifletteva in una cultura (un’elaborazione riflessa del proprio modo di vivere) era soltanto una cultura parlata, priva di testi scritti. Aveva però la potenza delle cose vere, mentre il codice culturale ufficiale, espresso per iscritto in una lingua forestiera, dava l’impressione di una convenzione vuota, e (benché indiscusso, come le malattie) restava astratto fino al momento in cui il suo braccio secolare o ecclesiastico non intervenisse a raggiungerci.
Dietro al paese si sentiva il fondo stabile di una maggioranza contadina, inamovibile, testarda. In qualche modo noi eravamo a nostra volta il fiore urbano di questa società contadina, un centro. Si formava ancora quasi un tutto unico con la campagna, ma il paese travasava e raffinava il costume campagnolo. Di questo complesso lavoro di mediazione esercitato dall’ambiente paesano è difficile documentare bene la natura, soprattutto per difficoltà di lingua. La lingua in cui eseguivamo (senza saperlo, ben s’intende) la nostra mediazione non è scritta, e la lingua che scriviamo in paese e in tutta l’Italia può facilmente tradirci.

Il divario tra il codice di condotta postulato dalla cultura ufficiale scritta, e il costume reale del paese, era grande.
Trovo sul rovescio della copertina di un vecchio quaderno di scuola usato un anno prima che nascessi io, un Decalogo Civile che comincia così:

1. Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro di tutta la vita.
2. Ama lo studio...
3. Santifica tutti i giorni con qualche azione utile e buona, con qualche atto gentile.

Fin qui siamo ancora tra le virtù specifiche dello scolaretto; poi si passa tra quelle che adorneranno tutta la vita, dignità, veracità, rettitudine, generosità, lealtà, correttezza; additando i correlativi da evitare, il servilismo, la viltà, la credulità.
È un documento ammirevole, ma che significato poteva avere per gli alunni di Malo che scrivevano in quaderni come questo? È un codice di moralità civile che avrà avuto qualche senso nei centri urbani, dove forse c’erano mamme e papà che credevano davvero all’importanza della rettitudine civile, della bontà, della fermezza, ecc., così definite. Doveva esserci un’Italia urbana e borghese dove queste parole diventavano almeno in parte costume. Ma a Malo?
Nel nostro ambiente paesano queste parole restavano parole. “Ama i compagni di scuola”: questa non era una massima seria, nessuno cercava sul serio di farci credere, nella nostra propria lingua, che “bisogna amare i compagni di scuola”. Quando si baruffava con questi compagni, a volte ci rimproveravano, altre volte prendevano le nostre parti. In astratto i compagni di scuola non bisognava né amarli né disamarli: l’ingiunzione dell’amore non è concepibile in dialetto (e del resto è una ben strana ingiunzione anche in lingua; e nemmeno i professori di Vicenza e di Padova hanno poi saputo insegnarmi che cosa veramente significhi). I compagni erano come tutti gli altri, con alcuni si andava d’accordo, con altri no, e andava poi a giorni.
Press’a poco così era anche per tutto il resto. Ho preso in questo Decalogo il primo esempio che mi è capitato sottomano, per richiamarmi concretamente a uno dei tanti “codici” espliciti di condotta, o prevalentemente di origine civile e laica, come questo, o ispirati direttamente agli insegnamenti morali della religione, che da questo punto di vista era il settore più importante della cultura ufficiale.
Tutti sono ugualmente lontani dal codice reale di condotta che seguiva la gente, pur non trovandolo scritto in alcun luogo. Non dico che questo fosse l’opposto di quelli, che la gente vivesse in modo apertamente immorale e incivile: dico solo che la nostra condotta non si ispirava ai modelli che ci erano proposti.

La rettitudine contava relativamente poco. Parlo, s’intende, dei valori, non già dei fatti. Va da sé che la proporzione delle persone rette e di quelle non rette era press’a poco la stessa che ovunque. L’espressione “uomo retto” esiste anche in paese, ma l’ho sempre sentita con un’inflessione speciale, simile a quella che potrebbe avere altrove una frase come “ha una voce così gentile e delicata”. La rettitudine è una virtù, ma marginale.
Le virtù principali vigevano nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della vita, e col lavoro. La parola “dovere” in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione “bisogna”, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la “dòna”, per “el me òmo”, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo; bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare meno. Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants, i voglia-di-far-bene. Ma il principio centrale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio.
Un Decalogo realistico in lingua sarebbe dovuto cominciare così:

1. Ricordati che bisogna lavorare per la tua famiglia, e che la tua famiglia viene prima di tutto.

Di gran lunga la maggior parte delle energie fisiche e spirituali della gente si riversava in questo lavoro. Per i più la vita era estremamente dura: duro il lavoro nei campi, nelle officine, nelle bottegucce degli artigiani, nelle filande, e durissimo per le donne nelle case e nelle famiglie. Ma anche i lavori ritenuti meno duri, dei bottegai, degli osti, dei commercianti, dei mediatori, erano pesanti a paragone dei criteri di oggi.
Le quattro filande erano l’industria massima del paese: tutte le donne del popolo o prima o poi andavano o erano andate in filanda, con orari, salari e condizioni di lavoro che riescono oggi quasi incredibili. Quando la filanda “andava”, c’era un fracasso alto e continuo di macchinari antiquati, e in mezzo come un lamento acuto il canto delle filandiere stordite:

Santa Madre, deh Voi fate
che le piaghe del Signore
siàno impresse nel mio cuore.

Polenta e cipolla, polenta e anguria. Le filandiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” (1) tra la mezza e un bòtto (2). Per questo breve lunch hour non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano lungo i due marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico.
Oltre alle filiere vere e proprie sapevo che c’erano le scoattìne (3) e le ingroppìne (4), nomi di sogno. Scoattìne! Ingroppìne! Non pareva credibile guardando queste donne e ragazze col colore dei bachi da seta sul viso.
Ristorate, dopo una mattina di lavoro, tornavano dentro a lavorare alle bacinelle di acqua bollente fino a sera, invocando in alte grida la Santa Madre del cielo, chiedendole piaghe.

Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro.
La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti.
Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri.
La cura dei bachi da seta era uno di quei lavori supplementari che s’affidavano principalmente alle donne, perché non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli, da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare, rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare, rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare in chiesa e baruffare un po’ con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in filanda non ho mai capito.
Alla sera facevano filò (5), in campagna nelle stalle, in paese nelle cucine: si divertivano, le pigrone, a far la calza o addirittura a giocare la tombola; oppure d’estate sedevano sulla porta con le mani in mano a vedere la gente che tornava dalle osterie.
Gli uomini per divertirsi alla sera andavano all’osteria a giocare alle carte; non erano venute ancora né televisione né luce al neon né bibite. C’erano decine di osterie in paese, tutte fornite di vino clinto dal sapore volpino e di negro vino nostrano. Se queste osterie, sociologicamente parlando, erano una piaga, erano però luoghi più attraenti dei caffè con la televisione di oggi (che secondo me sono anch’essi, sociologicamente parlando, una piaga): avevano pesanti tavole bislunghe, grosse sedie impagliate, il banco di legno, il focolare aperto. Nella medesima stanza, o in una adiacente anch’essa aperta agli avventori, c’era la cucina della famiglia dell’oste: andando in osteria si aveva la sensazione di andare anche in visita.

Gli aspetti del lavoro di cui ho parlato finora riguardano soprattutto ciò che Hannah Arendt nel suo bellissimo saggio sul lavoro umano chiama “labour” e distingue da “work.” È il lavoro-fatica, il tribulare del dialetto, che caratterizza soprattutto le società contadine, e si svolge sotto il segno della necessità: sono tipicamente i lavori della campagna, i lavori domestici, i lavori servili, tutto ciò che ha a che fare col sostentamento della vita fisiologica, secondo il ritmo delle stagioni, del giorno e della notte, del nascere, del crescere, del nutrirsi. È quel lavoro che bisogna fare semplicemente perché si mangia, perché si consuma, perché si vegeta; il lavoro che bisogna fare ogni giorno, ogni mese, ogni anno: la condanna e la schiavitù primaria dell’uomo.
Questo è il tipico labour, ma qualunque altra attività può diventare mero labour quando si sia costretti a compierla in condizioni e con ritmo analogo, e così accadeva in paese.
Vivevamo sotto il segno della Necessità, e l’immagine della Madonna in Castello mi sembra che abbia più senso da questo punto di vista. Placida, florida e robusta, questa Donna incinta è il simbolo più appropriato di ciò che può sperare una comunità di labourers. Giocando in Castello qualche volta, se venivo a trovarmi in chiesa da solo, quando non c’era nessuno, andavo a guardarla e le domandavo: “Cossa pénsito ti?”. Lei continuava a fare quella specie di sorriso con gli occhi prosperi e lieti; ora so che pensa soltanto: “Fuori dalla Necessità ci sono Io”.

Non ricordo se ne parli la Arendt, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un’espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che non si ferma mai. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo, è un bravo operaio,” e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”), l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice.
Perché, noi non eravamo una società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale.
Forse è una delle ragioni per cui l’esperienza di crescere in paese riusciva così schietta, e ancora oggi (pur sapendo benissimo che è inevitabile e desiderabile che si affermino nuove forme di vita associata) ci sembra che per certi versi fondamentali ci fosse più sugo a vivere allora a Malo che non oggi nelle nostre città moderne, in Italia e fuori.
Il paese era una struttura veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri compaesani, e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’alto, le fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. Le nuove strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevano qui.
Si parla di stanze da bagno con mio padre, di impianti dell’acqua, della luce; ci dice quando sono arrivati i primi esempi di queste cose in paese. Si ricorda benissimo quando è stato installato il primo bagno, dal Conte: era ragazzo e ci ha lavorato anche lui. Quand’era bambino c’erano ancora i pozzi, pubblici e privati, come quello del cortile della nonna che funzionava ancora ai miei tempi; quando poi fu fatto l’acquedotto, lui e un suo compagno si presero l’incarico di fabbricare non so che tipo di giunto o di raccordo, e li fabbricarono tutti loro. Si alzavano alle quattro, anche alle tre del mattino, e lavoravano fino a notte.
Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo. Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere e le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come fare i giochi di prestigio con le carte).
Il nostro Decalogo potrebbe dunque continuare così:

2. Preparati a tribolare: quasi tutti debbono tribolare.
3. Impara a essere bravo nel tuo lavoro. Non c’è nulla di più rispettabile di uno bravo nel suo lavoro.

Il quarto comandamento potrebbe riguardare le donne:

4. Sii pulita. La donna onta non merita stima.

Nella vecchia generazione quasi l’unica critica che si faceva alle donne era contro quelle che non erano “pulite”: non “néte” che vuol dire pulite nella persona ma “pulite” ossia brave a tenere la casa in ordine (“néta”), i bambini lavati, i vestiti ben rammendati e rattoppati con cura. “Onta” vuol dire insomma untidy (6); nei casi gravissimi si diceva, e mio padre dice tuttora, che una donna era “un luamàro” che vuol dire most untidy.
Poiché non voglio compilare io un Decalogo, ma esemplificare un discorso, mi fermerò qui con i comandamenti.

Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano - nel modificare questo codice di condotta - la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.
In ciò che concerne l’intaresse, lo Stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera privata, furtiva, classica dei ladronecci notturni di galline, o dei furti dal cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece l’“arrangiarsi” nei confronti di qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai.
Della prima forma di arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e molti se ne vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni di croce, e facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato, il concreto spesso praticato. “Busiaro” come “ladro” erano insulti; ma mentire di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dalla gente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di galline non è né onesto, né disonesto, è un ladro.
Questi esempi che mi paiono cruciali nella morale convenzionale, potranno bastare per ogni altro caso. In generale la bontà non si associava con questi, e gli altri analoghi, aspetti della condotta: era piuttosto una categoria psicologica che morale. “Bòn” vuol dire di indole gentile; “cattivo” vuol dire litigioso, incline a trovar da dire, a rimproverare i sottomessi, a menar le mani. Né si associava la bontà con la devozione religiosa, anzi le persone “di chiesa” erano spesso tenute in sospetto di una forma speciale di cattiveria secca. Però era proprio su questo terreno della bontà che il contenuto morale della religione riusciva ad acquistare un significato comprensibile a tutti attraverso la raccomandazione generica a essere buoni, che era come la traduzione in dialetto dell’invito evangelico alla gentilezza, alla tolleranza, alla generosità, e in breve ad amare il prossimo.
I vizi canonici, invidia, superbia, iracondia, avarizia, erano considerati tratti psicologici, non concetti morali. Da piccoli eravamo stati istruiti ad accusarcene in confessione, e ce ne accusavamo scrupolosamente; ma crescendo poi ci parevano irrelevant per un adulto, come il domandarsi se si fosse stati “disubbidienti”. Le corrispondenti qualità si riconoscevano bensì nella gente, ma parevano moralmente indifferenti, meri tratti naturali dell’individuo, come la corporatura o la guardatura stralocchiata.
Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati.
Era questa la sfera della nostra libertà paesana. Il lavoro stesso, le necessità della giornata, l’attendere alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposo, il semplice andare fino in piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma anche agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre che a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio pubblico del paese.
Le botteghe-negozi erano quasi estensioni delle case e delle famiglie, erano “aperte” quasi sempre, e in ogni modo non c’era vera distinzione tra aperte e chiuse: per comprare qualcosa si poteva sempre entrare per il cortile, scusandosi appena con la famiglia a cena in cucina.
“Aperte” erano anche per lo più le botteghe-laboratori; c’erano i fabbri con la faccia fuligginosa, i mistri (7)  in mezzo al rame, gli scarpari che tagliavano il cuoio profumato, i maniscalchi (uno era proprio in piazza, e ce n’erano altri due), i marangoni (8), il cui nitido lavoro eseguito tra nitide superfici mi sarebbe piaciuto fare; c’erano i beccari  (9) che malmenavano quarti di bestie e frangevano ossa coi coltellacci, i munari  (10) impolverati, i fornari che lavoravano nelle ore piccole della notte, e chi si alzava a quell’ora poteva affacciarsi alla porta e chiedere un pezzo di pane fresco, come accadde una volta a mio padre, e quelli glielo davano, sagome col grembiule bianco contro le fiamme del forno, ma quando si voltavano si vedeva che il grembiule era aperto di dietro, e sotto erano nudi-infanti e mostravano la schiena liscia e i rialti del sedere luccicanti di sudore. C’erano i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari (11); c’erano i moletta erranti, e i careghetta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i mas’ciari (12), e insomma tutti gli altri. I barbieri erano anche sartori: mio padre ancora non riesce a capacitarsi che si possa vivere facendo solo il barbiere, eppure oggi vivono così, e mantengono la famiglia. Molti di questi mestieri sono praticamente scomparsi oggi, molti altri si sono modificati: l’altr’anno c’era ancora un forno a legna, ora non so. L’esistenza stessa di tutti questi mestieri, e il loro interpenetrarsi nel paese, dava varietà e vivacità alla vita.
Le piazze e le strade erano la nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica, non si scriveva, ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi.

La lingua aveva strati sovrapposti: era tutto un intarsio. C’era la gran divisione della lingua rustica e di quella paesana, e c’era inoltre tutta una gradazione di sfumature per contrade e per generazioni. Strambe linee di divisione tagliavano i quartieri, e fino i cortili, i porticati, la stessa tavola a cui ci si sedeva a mangiare.
Sculièro a casa nostra, guciàro dalla zia Lena; ùgnolo presso il papà, sìnpio presso di noi. Si sentivano lunghe ondate fonetiche bagnare le generazioni: lo zio Checco non disse mai gi, neanche nei nomi propri, solo ji; del resto anche mio padre dice jèra piuttosto che gèra. Anche la morfologia era a incastro: se abbiamo fatto la seconda guerra gèrimo soldà, se la prima gerìvimo. Della a finale della prima persona dell’imperfetto nel numero dei meno, si avvertiva la soavità arcaica specialmente nei diagrammi del dialetto corretto. Parlavamo al caffè di non so che osservazioni fatte da ciascuno di noi in vari paesi vicini, chi a San Vito, chi a Marano, chi a Isola. C’era anche il Commendatore, un uomo di mondo, che a un certo punto intervenne e cominciò: «Me trovavaaa a Sàn Rafaèl…». La lunga a parve a tutti irresistibilmente graziosa, benché sia normale nel dialetto schietto.
La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la distanza dal punto dove è uscito a riva. Tornano dopo dieci anni, dopo venti anni dalle Australie, dalle Americhe: in famiglia hanno continuato a parlare lo stesso dialetto che parlavano qui con noi, che parlavamo tutti; tornano e sembrano gente di un altro paese o di un’altra età. Eppure non è la loro lingua che si è alterata, è la nostra. È come se anche le parole tornassero in patria, si riconoscono con uno strano sentimento, spesso dopo un po’ di esitazione: di qualcuna perfino ci si vergogna un poco.
Mia zia candida sposata a Como, quando torna a trovarci dice chive e live, che tutti i miei zii hanno abbandonato da decenni. L’antipatica ròda che noi consideriamo vicentina di città, ha quasi scacciato la nostra rùa: almeno abbiamo ancora le ruèle e le ruàre, gli orolojaji la cui nominaglia è Ruet-te, e il casolìno il cui nome è Ruaro. Ruette essendo un soprannome scherzoso, si dice con la doppia. L’uso delle doppie, come gli aspetti del verbo russo, è difficile da spiegare ai foresti: la doppia si adopera in genere per caratterizzare, per imitare, per fingere di dire una cosa e dirne invece un’altra; è una specie di schinca linguistica, che ti lascia lì. Se poi entriamo nella sfera delle doppie ss e delle doppie zz, le regole sono praticamente inutili.
Questa lingua, benché non registrata, benché territorialmente limitata (uno dalla Val di Là parla già diverso da noi), benché tutta divisa in se stessa e di continuo terremotata, non è però uno strumento da prendersi a gabbo. Gli utenti della koinè “italiana”, passando per di qui qualche volta ci provano. Ma noi possiamo rispondere: «Non c’è modo di mettervelo per iscritto, ma fin che abbiamo fiato possiamo cojonarvi anche noi, pajazzi!».
Ma per capire la differenza tra pajassi e pajazzi bisognerebbe che venissero ad abitare qui per qualche anno.

______________________________________________________________________

(1) cuca = la sirena
(2) bòtto = l’una, quando la campana faceva un rintocco
(3) scoattìne = le operaie addette alla pulitura dei bozzoli per liberarli dai fili rotti, nell’acqua a 70-80°, usando una scopetta di erica
(4) ingroppìne = le operaie addette ad annodare a mano i fili che si rompono
(5) filò = la veglia, e per estensione le chiacchiere che si fanno di sera, alla fine della giornata di lavoro, attorno al tavolo di cucina o anche in stalla
(6) untidy = disordinata, trascurata, sciatta
(7) mistri = venditori di ferramenta
(8) marangoni = falegnami
(9) beccari = macellai
(10) munari = mugnai
(11) i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari = fabbricatori di cannelle per le botti, di mastelli, di botti, cavapietre, carrettieri, zoccolai
(12) i moletta erranti, e i careghetta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i mas’ciari = arrotini ambulanti, seggiolai, ombrellai, materassai, produttori di salumi e carni insaccate (mas’cio = maiale)



venerdì 28 luglio 2017

91 Libera nos a malo: capitolo 13 (di Luigi Meneghello)



Una delle pagine, dedicate alla descrizione di un territorio, più belle che io conosca, superiore al manzoniano “Quel ramo del lago di Como”. Come a volo d’uccello, l’autore esplora tutta la zona circostante Malo, per poi planare sul proprio paese, descrivendo luoghi, strade, viottoli, ed entrando infine nelle case, nelle stanze, soffermandosi sull’uso quotidiano che la gente faceva di lavatoi, cucine, granai, cessi (pubblici e privati). Confrontando il passato col presente e continuando la sua indagine sulla lingua-dialetto di Malo, che è quasi un reato tradurre in italiano. Chi ha pazienza non legga le note, ma cerchi piuttosto di capire il senso di tanti termini dialettali indovinandoli dal contesto.

Mezzogiorno col sole, quando l’estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici, osservando la gente che conosciamo.
Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo al paese, come fuori della portata della morte. Rabbrividivo al sole.

Le cose sono al loro posto, gli spazi immutati. Conosco bene il giro che fa l’ombra delle case, qui davanti, e il taglio del sole a mezzogiorno in Piazzetta. A quest’ora il Listón che va verso nord è infilato dal sole e dà come una vampata di luce. Contrà Chiesa ha una tettoia d’ombra; a sud, oltre la piazza, affacciandosi verso il ponte del Castello, la chiesa, la calotta di Monte Piàn si vedono tremolare, l’aria è piena di lustrini. Pochi passi nel sole vivo, fino al ponte: si entra in un molle caos di verdi e di celesti, che vibra.
Il questo punto le colline che salgono da Vicenza si allargano verso ponente, e si tirano dietro un lembo della pianura. Questa baia è nostra. Sullo sperone che la separa dal lago della pianura è ancorato il nostro paese. Davanti a noi c’è Schio con le spalle a un bastione di monti azzurri, il Sengio Alto con gli Apostoli, il Pasubio, il Novegno, la piramide del Summano, e l’orlo alto e lungo dell’Altipiano.
Sull’orlo finisce il rastrellamento, i tedeschi ora scendono verso Granezza. Trenta passi da questo punto e si è fuori; si aprono le conchette, gli orizzontini interni si sparpagliano, si spalanca il salto d’aria vuota.
Il mondo incredibile è accampato là sotto in uno stacco che annulla le distanze: ecco i giocattoli che luccicano fra le strisce dei torrenti, Zanè, Giavenale, Marano, Thiene, Villaverla. Dietro c’è una ressa di Montecchi e di Sandrighi, in fondo la risacca piena di Castelfranchi e Cittadelle. Il mondo che in questi mesi sembrava più lontano dell’India e della Cina è qui: visto dall’orlo alto dell’Altipiano pare un presepio.
Quello là a destra, sotto il golfo delle colline impicciolite che fuma, è il mio paese. Bisogna sedersi per terra, aspettare che sembri tutto vero.

Lelio in tempo di guerra arrivando con me in bicicletta da Vicenza (forse non era mai venuto qui, o non aveva guardato) osservava spostarsi, sulla sinistra, le quinte dei colli, e diceva: «Sacramèn che bello». Alla Barbara parve una meraviglia, le case però più che il posto, la nostra urbanistica per così dire. Quando venne, un paio d’anni fa, scese dalla macchina in Piazzetta, si guardò attorno e disse: «Oh, but this is wonderful». Questi apprezzamenti sono gentili, e anche giusti credo; ma per noi il paese non era né bello né brutto, era il nostro paese, e così anche il sito. Ci piaceva, ma non ci veniva in mente di dire che fosse bello.
L’approccio da levante è il più strano. È come se ci fosse stato un elefante, o una bestia molto simile, che camminava verso Schio rimorchiandosi dietro un erpice di collinette; arrivando all’ansa del torrente, che doveva essere pieno d’acqua a quei tempi, avrà voluto bere una sbruffata, e allungò la proboscide. A questo punto cominciò ad affondare (c’era palude, si vede, a sud del torrente) e affondò circa tre quarti, poi deve aver toccato roccia e si fermò. Ora è tutto roccia anche lui, ed è Monte Piàn. La testa si vede bene arrivando da Thiene, profilata in scuro contro il fondale alto delle altre colline a ponente; ma per vederla di pieno bisogna spostarsi un po’ in giù, alla Vacchetta per esempio. Ha la massa poliedrica a facce ampie, irregolari e armoniose che è tipica del cranio degli elefanti, e l’angolo giusto della testa di un elefante in marcia; la proboscide è distesa in avanti, mezza interrata e mezza fuori; ci è cresciuta sopra una natta con qualche pelo, che è il Castello, e proprio sulla punta c’è il paese.
Avvicinandosi pare che al di là di questo testone di Monte Piàn non ci sia più spazio, forse solo una stretta esedra cieca fra la spalla della bestia e i colli alti contro cui strisciava. Si vede un sipario di colli, una costa erta, selvosa e compatta che pare senza esiti fino alle vette rocciose pochi chilometri più a nord. È un’impressione falsa: entrando in paese, e prendendo poi per contrà Chiesa per uscire dalla parte opposta, come si arriva al campanile e alla chiesa, prima di capire che cosa sta succedendo, ci si trova in uno spazio nuovo. Il sipario arcigno dei colli davanti e a destra s’è come tirato in là, s’è ingentilito; c’è questo nuovo spazio a ponente e a mezzogiorno, il più nostro di tutti gli spazi di questo mondo, un piccolo drappo fermato in cima dal nodo che chiamiamo Priabona.
Il paese è attraversato da sud a nord dalla strada che va da Vicenza a Schio e al passo della Streva; ora c’è un nuovo raccordo che taglia fuori l’abitato. Con questa s’incrocia la strada che venendo dalle pianure di Thiene continua poi verso Priabona e la Val di Là. Lo stradone di Vicenza era già “spalto”, quello di Schio lo divenne ai miei tempi; a Priabona e a Thiene s’andava su una superficie di terra battuta già rovinata dal traffico.
Le strade minori erano una parte importante del mondo del paese; lo sono ancora, ma assai meno ora che si viaggia con le cose a motore, e si ha più spiccato il senso di voler solo spostarsi in modo pratico e insipido da qui a là. Erano fatte principalmente per camminarci, passarci coi carri e con le bestie, al massimo in bicicletta. Serpeggiavano per i campi, o lungo il piede dei colli, erano strettine, con un buon fondo di terra e ghiaietta chiara e compatta, non ancora sciupata dalle rare automobili.
C’erano inoltre le caviàgne, o stradicciole rurali, che non vanno in un paese, ma quasi in visita ai casolari e alle famiglie dei contadini (“dai” tali o talaltri), o anche vanno semplicemente a finire in mezzo alla spagna e allo strafòglio (1), ai margini di una landa sconfinata di campi e fossati e colture. Allora si resta lì, con la bicicletta appoggiata a un moraro (2), e improvvisamente si sentono le voci di milioni e milioni di piccole bestie: la tarda primavera pare un luogo, non più una forma del tempo, e da in mezzo a questo luogo così grande, così folto, il paese a cui questa caviàgna riconduce sembra lontano e senza importanza, e per un po’ non si sa più cosa pensare.
La Proa ci separava da questa landa: come quando si arriva a un confine, e di là è Belgio, Olanda; così dalla stradella che comincia vicino a casa nostra, raggiunto in un minuto il vasto greto interrato e sterposo e sassoso, subito di là cominciava la no-man’s land (3) che s’estende verso i paesi a oriente, la campagna fitta, fuori della geografia e della storia. Proseguendo per le stradicciole che non si fermano in mezzo ai campi, e che non pare siano dirette in alcun luogo in particolare (ce n’è), si sentiva crescere il senso dell’ignoto; nell’estate piena occorreva quasi una forma di coraggio per avventurarsi avanti e avanti tra i sorghi, aspettando come esploratori che un argine camuffato tra le acacie ci scoprisse all’improvviso la grande corrente di sassi della Jólgora, che sega la campagna ed è bianca, immobile, fatta di ciottoli e pietre smussate.

Il nostro proprio torrente si chiama il Livargón, ma le tribù vicine lo chiamano anche la Giara, ed è infatti principalmente giara (4): vien giù dai colli sopra San Vito, e fa un’ansa sotto il paese, come circondandoci a sud, al piede del Castello. Ha poca acqua ed è spesso affatto prosciugato d’estate, benché si gonfi assai “nei tempi delle maggiori sue escrescenze” come avrebbe detto il Maccà. Quando ci scorre l’acqua, si formano dei piccoli bacini che sono i nostri bóji: il principale era il Rostón, poi il grazioso Bojetto, poi l’allegro gorgo dei Sojetti del Castello, poi i piccoli pelaghi bruni di Malo basso, fino al bójo di Cuca.
Le lavandaie inginocchiate sui lavelli agitavano i panni nell’acqua chiara; i gattini annegando nei bóji spargevano sopra gli occhietti il velo rosa delle palpebre; le scaglie di sasso rimbalzavano lietamente sullo specchio dell’acqua; i bambini facevano le roste (5) tra i sassi; e i nuotatori drappeggiati nei giganteschi panneggi delle mutande di tela emergevano dalle sottarole (6) a faccia in su per rifarsi la mascagna (7). Gastone-Fiore passeggiava impaziente sull’argine aspettando la brentana (8): tutti aspettavamo la brentana, la gialla amica che fa galleggiare gli scafi, le zattere e le piroghe in progetto sul greto. Ma Gastone-Fiore a cui le vie dell’aria erano state più volte negate o malamente interrotte, aveva l’Idrovolante, una pesante macchina di tavole inchiodate, a cui la corrente avrebbe impresso l’impulso necessario a librarsi in cielo. Quando arrivò la brentana, una squadra di amici calò la macchina e il pilota sulla cresta delle onde limacciose, ma il peso dei chiodi la fece affondare a picco, e il pilota dovette tornare a riva, parte nuotando a spada, parte a guado.
C’erano luoghi inesprimibilmente ameni lungo il torrente: boschetti di acacie, praticelli come quello in fondo al Prà, oltre il doppio anello dei platani, un margine d’erba più basso del prato comunale, quasi al livello del torrente. Il dirupo del Castello lo chiude scendendo con uno speroncino di roccia aggirato da una traccia di sentiero nel sasso. Sopra la roccia un aspro recinto di spine rinserra il brolo (9) antico del prete, aggrappato alla costa che spiove, e da questa parte affatto inaccessibile. Era uno di quei luoghi perfetti che si trovano nei romanzi di cavalleria; l’erba, l’acqua, la roccia, l’orto misterioso, aereo, e l’alto dirupo alle spalle e la prospettiva dei platani. Invece appena al di là del torrente c’erano i muri e gli orti del paese, le schiene rozze delle case (lì di fronte è quella dov’è nato mio nonno), le viottole dove non passava nessuno, tranne un bambino con la capra. Altri luoghi ho riconosciuto poi nei racconti di cavalleria, a cui davano adito i sentieruoli dietro al Castello, luoghi come la Fontanella, il Paraìso, con la polla dell’acqua sorgiva, il muschio e l’ombra pezzata degli alberi.
I dossi dietro al Castello erano tutta una rete di sentierini-stròsi, e stròso (10) è avventura. Stròso rimonta contrafforte, scala gobbetta, adduce a pino in cresta; penetra, infrasca disinfrasca; punge con rùsse (11), consola con primule. Da stròso si rubano pere pome ùe (12).

Chi ze che ròba la ùa spinèla (13)?

La ùa-mericàna, la bromba (14) idropica, l’àmolo (15) acido, il pèrsego (16) che dà nel verdastro e sente di màndola, l’armellino (17) che allega (18)?
Stròso da còrnole (19), còrnole garbe (20); stròso da dùdole (21). Nosèlle appena fatte (22), e nello spiàccico verde le tenere nóse (23) nuove, e le more.

Quale vùto (24), quele rosse o quelle negre?
Quel che vien vien! Quel che vien vien!

Per questi viottoli si ruba, si esplora; viottolo turba, eccita, se ne sbuca correndo a mezzogiorno, si rivede dall’alto il paese, ridendo, con la faccia tutta impiastricciata di more.

Lo spazio borgato era chiuso da fermagli di fossi e di ponti: oltre i ponti del Livargón, c’era la piccola Rana bizzarra a occidente, e quassù la misteriosa Vedezai evaporata tra i campi, lasciando quasi solo un nome. Ma era nostra anche tutta la costa che scende a Santomìo lungo la strada che comincia al ponte delle Galline, e qui in cima al paese la strada che va alle Case e corre lungo la mura del Montécio. Questa è una piccola altura oblunga e irsuta nel mezzo dei campi cintati del Conte, dai quali un muro divide l’orto di casa mia. È come una bella nave cogli alberi scuri scuri, che navighi verso San Vito; ci volta la poppa che è fatta a gradoni e meno fitta di alberi; è una nave di lusso, fatta in modo da parere un monticello isolato nella pianura, e come le navi pare piccola quando si guarda dall’alto dei colli, ma andandoci dentro si vede che è grande, e si può perdersi.
Le Case e Santomìo sono le nostre frazioni; ne abbiamo un’altra lontana i mezzo alla pianura; che si chiama la Molina, dove verso la fine della settimana si passava sotto a uno striscione di tela bianca teso sopra la strada. C’era scritto in tutte maiuscole QUESTA FESTA CINE. Alla Molina fu come in esilio per qualche anno, dopo che i casi della vita ci avevano separati, il mio amico Piareto. I suoi vi facevano i fornari; mi sono accertato di recente che c’è ancora un fornaro autonomo alla Molina. Tutto si trasforma ora così in fretta che non si è più sicuri di nulla.

“You mustn’t expect a romantic paese like Marostica, my dear.”
(Viaggiatore inglese accompagnando un amico a Malo, verso la metà del sec. XX)

Il paese non è cambiato come tanti altri, ma è pur cambiato. Fino a questi ultimi anni era restato quasi fuori dello sviluppo industriale e commerciale del dopoguerra, ma ora ci è arrivata una piccola brezza di prosperità. Tra il paese e la nuova strada di Schio è sorto un quartiere di case nuove, nel vecchio centro le case si sono rinnovate, molte hanno ora anche il bagno, le osterie e i negozi si sono rammodernati, ci sono lampioni al posto delle vecchie lampadine col piatto di ferro appese ai fili.
Il rinnovamento è cominciato sette o otto anni fa. Prima di allora il solo senso che pareva venire dal paese (dopo la guerra) era un’immagine di stanchezza e di decadenza. Guardando dall’inferriata della mia finestra, quando venivo a casa, il palazzotto del conte Brunoro qua di fronte, mi pareva di vederlo agonizzare. Nell’alto portone di legno scuro c’era un portellino come una feritoia; le finestre del pianterreno ingabbiate dalle grate davano su un buio muffito, di cameroni trasformati in ripostigli. Due fasce di muratura staccano il primo piano: finestre a largo intervallo, con gli scuri verdi, sempre chiuse, tranne quella centrale da cui in un barlume nebbioso s’intravedeva l’altra opposta, aperta al nord, attraverso lo spazio di uno stanzone patriarcale. Dentro, in qualche parte, lavorava l’altissimo, circospetto, silenzioso signor Nicola falegname, venuto ad abitarci colla famiglia in tempo di guerra.
Dalla casa del Conte, all’altro lato della strada, fu aperta una porta senza rumore, poi fu richiusa e sbatté. Uscivano il Conte e la Contessa, distintissimi, isolati, antichi, aprivano gli ombrelli sul marciapiede. Un carro col fieno passava il rastrello del Montécio.
Era uno spettacolo funebre: morivano i prati verdi, la siepe troppo folta, gli alberi sovraccarichi di foglie. Mi pareva di non poter comunicare con nessuno. Passavano automobiline col motore imballato, stupidi corvi spennacchiati, e una gracchiò.
Le strade, le persone, gli edifici: tutto pareva soltanto che invecchiasse, che si preparasse a morire senza altro senso. Sarà stato nel 1953: era certo un errore di prospettiva anche allora; ad ogni modo in seguito la modesta ripresa della vita del paese ha cancellato queste impressioni. Qualche anno fa, tornando dopo un’assenza d’un paio d’anni, abbiamo sentito dappertutto un’aria di nuovo. In questo paese che si svecchia e si sgretola, mi dicevo, le cose di prima avranno più senso, non meno. Il cromo scaccia il legno, i finti marmi la pietra, il neon le lampadine; i bagni entrano nelle case, le cucinette moderne soppiantano le vecchie cucine; verranno i termosifoni, i frigoriferi, i tappeti. Non importa: è perché la gente ha ricominciato o forse ha sempre continuato a vivere. È come “le campane d’argento sopra il borgo” (25), e poi il resto che non si può fermare, le antiche travi, i mattoni rossi delle camere, gli intonachi, i corridoi, i ciottoli della corte, il vecchio cesso nel cortile.
Le case del centro hanno un portico selciato che dà nel cortile; nel portico si aprono le porte delle stanze a pianterreno, e le scale. Le stanze sono a travi, i pavimenti a mattoni o a tavole di legno. La cucina è la stanza più importante; c’è il focolare di pietra, la cucina economica, la tavola bislunga dove la famiglia si siede a mangiare due volte al giorno. Qui i bambini fanno i compiti, la mamma cuce. Gli uomini non si vedono mai seduti in casa, tranne all’ora dei pasti. Una volta che Gaetano era gravemente malato il papà lo prese in braccio e si mise a sedere in cucina sulla sedia vicino alla porta: ricordo che aveva il cappello in testa, calato sugli occhi, e lagrimava.
Le camere sono grandi e nude, gelide d’inverno; hanno letti di ferro con la rete metallica (figli) o gli elastici (genitori), il materasso di crine sotto e quello di lana sopra. C’è un lavandino in camera, con la brocca e la secchia; in questa al mattino si vuotano anche i vasi da notte.
La casa ha amplissimi granai, quasi un’altra casa lassù, ventosa e luminosa, cogli alti soffitti sbilenchi. Queste sfere sopramondane hanno più importanza che non si possa dire: si dovrebbe trascrivere tutto in chiave neo-platonica. Era come la Sacrestia nuova di San Lorenzo a Firenze: c’era la zona intermedia delle cose terrene, camere, cucine, cortili; in basso quella oscura dell’Ade a cui davano adito la scala della cantina, la casetta della benzina in orto, e le altre aperture da cui s’udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee. Qui in alto c’era la sfera nitida, spaziosa, aperta e nuda dei granai, il mondo scorporato dove emigrano le idee dei giocattoli rotti, degli oggetti spenti; il mondo delle essenze che l’artista ha cercato di riprodurre in pietra serena a San Lorenzo.
Gli sporti del tetto sono ampi, e danno alla casa un’aria quasi aggrondata. “Gorne” (26), “stellaresse” (27): qui al riparo si può stare a guardare la piova appoggiati al muro del cortile, all’asciutto. Spesso le finestre hanno l’inferriata, e il sole entra nella casa a rombi. C’è un tinello per famiglia: ha i mobili morti, gli scuri accostati. Se non c’è un battesimo o una visita importante, raramente la famiglia lo usa. Se ci si porta un visitatore inaspettato, chi lo precede scocca via dalla tavola una mosca morta, raddrizza le fotografie a sghembo nella cornice.
Nelle case migliori c’è un rubinetto d’acqua corrente in cucina, o nel retrocucina dove le donne lavano i piatti. L’acquaio è un’unica grande lastra di pietra viva, sopra di esso sono appesi ad una grossa mensola i grandi secchi di rame in cui si tiene l’acqua che si va a prendere alla fontana pubblica più vicina. D’estate anche chi ha il rubinetto in casa manda a prendere l’acqua fresca alla fontana. Quest’acqua dei secchi si attinge con una “cassa” di rame, nessuna acqua è buona come quella che si beve così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani durante il giorno, e chi non ha il lavandino in camera viene a lavarsi la faccia alla mattina.
C’è molto rame in casa, secchi, testi (28), stampi, leccarde (29), paioli appesi sopra il camino. Sospeso alla catena del focolare c’è il paiolo della polenta.
Tutto ciò che ha attinenza con la polenta era importante, il ceppo incavato che premevano col ginocchio sul paiolo per tenerlo fermo, la méscola, le croste che si grattano direttamente dal paiolo, il vasto panaro (30), il filo di cotone con cui si tagliano le fette che solo i barbari ignari assassinano con la lama del coltello. La pellagra non c’era più, ma si ricordava benissimo, collettivamente parlando. “Pelagroso!” ci dicevano ridendo le zie, come per vezzeggiarci con una minaccia che non fa più paura. Poi si guardavano attorno, se per caso non ci fosse uno da Isola che sentiva, e precisavano abbassando la voce: “Pelagroso da Isola”. Chissà se loro dicono pelagroso da Malo? Secondo i nostri vecchi però, se lo dicono sbagliano; la pellagra si era seduta lì e tenne duro un pezzo; noi andavamo soltanto a vederla. Io non mi pronuncio.
La stanza da bagno è sconosciuta; due o tre famiglie di signori si dice che l’abbiano; la Flora ne ha vista una nella casa del Cavaliere. Quando si è sporchi ci si lava sotto la fontana del cortile; in casi eccezionali si fa un bagno nel mastello in lissiara (31).

Dalla lissiara si scende in cantina; la cantina è abitata da un popolo furtivo di pantegani, visitata talvolta da ande (32) che scendono dai prati del Montécio e vi lasciano una pallida spoglia verdazzurra (le consideravo piccole fate trasformate in serpenti, e come le fate non ero proprio sicuro che ci fossero). C’erano altre cose tra i poderosi piani incrocicchiati della cantina; cose indefinite, addormentate tra le muffe e le ombre, forse sepolte a fiore del pavimento di terra da cui, scendendo con la candela di sera a prendere il vino, pareva che cominciassero vagamente a esalare. La porta pesante si chiudeva col grosso catenaccio (ancora storto per la sberla dell’aria, allo scoppio della Pisa), sulle finestrelle c’erano robuste inferriate: le cose della cantina si serravano dentro.
C’era nella casa un retro terra di barchesse (33), legnaie, ripostigli, cameroni di sgombero. Da noi c’era il favoloso solaio dell’officina, pieno di cadaveri d’ingranaggi, cuscinetti a sfere, leve, pedali, aste, rondelle, catene; tutti impegolati in grumi secchi di vecchio sangue verde-nero. Vi si montava per la più alta delle scale a pioli, attraverso un’apertura circolare, e dall’altra apertura circolare al di là dell’enorme stanzone in penombra si vedeva il pino dell’orto e la cerchia delle colline. Si aveva la sensazione di spiare il mondo da lassù, dal buio verso il chiaro, dal silenzio verso il rumore; era anch’esso un solaio, dunque parte del sopramondo, una specola.
Le ossa spolpate dei motori si gettavano poi nel cortiletto della forgia (34), in un mucchio sotto il primo gelso, e lì arrugginivano alla piova. Nel recinto della forgia c’era la temuta casetta del gassogeno, tra le dune di calce spenta: scoppiando, avrebbe fatto saltare il paese, cancellato tutto. Allo scoppio della Pisa, qualche anno prima che nascessimo noi, era intervenuta la Madonna del Castello a proteggerci: ondeggiarono i camini delle filande, caddero i calcinacci, scrosciarono i vetri, ma insomma andò bene. Però la Pisa è a due chilometri, e la villa che c’era, dopo lo scoppio non c’era più. Ora la casetta del gassogeno, con dentro il grosso cilindro metallico di colore incarnatino, non era a due chilometri, ma in forgia; ogni speranza nella Madonna poteva perciò riferirsi soltanto alla fase precedente allo scoppio, e glielo rammentavamo spesso. In forgia c’erano anche le case delle galline e del maiale, e l’appartamento dei conigli sopra il cesso.
Il cesso si apre in fondo alla corte. Non c’è sedile: davanti alla porta c’è però un cavalletto di legno per lo zio che ha l’artrite; è suo personale, fatto da lui e bislacco e segaligno come lui. È un po’ tagliente, una mera lama d’appoggio; come esattamente si usi nessuno lo sa, solo lo zio se lo porta dentro.
Qualche ospite di eccezionale riguardo lo portavamo al cesso giù dalla nonna, che era considerato più fine perché aveva un sedile di mattoni e un coperchio di legno (un disco con un piolo in mezzo come un manico). Non c’era il normale letamaio dalla nonna, ma una camera sotterranea, dentro la quale si poteva guardare per una botola quadrangolare che scoperchiavamo con molti sforzi. Il fetore di questo letamaio segreto era corrotto e mefitico, non forte e robusto come quello del nostro di casa, che rispecchiava il cielo. Ma tornando agli ospiti di riguardo: li conducevamo giù per il Listòn fino alla porta della nonna; si suonava (campanella col filo metallico), si facevano le presentazioni, si diceva “Faccia come a casa sua”, e s’avviava l’ospite per il cortile.
Nella maggior parte dei cortili il cesso è usato da varie famiglie, e se c’è una bottega o un’officina, anche dai lavoranti. Per orinatoio si usa il letamaio, gli uomini davanti al muretto di riparo, i bambini sopra: in caso d’urgenza lo usano anche le bambine. L’urgenza assoluta spinge tutti, anche le donne, in fondo all’orto.
I conigli (di cui la forgia era la patria e qui venivano uccisi, davanti alla scaletta di casa loro) avevano una verandina che dava sopra il letamaio, e spesso quando noi eravamo in piedi sul muretto, specie se pioveva e si doveva tenersi rasente al muro, venivano di sorpresa a lambirci l’orecchio, provocando sgrìsole (35). Montando sul muretto si causavano scatti, guizzi e tuffi da parte dei pantegani di letamaio, un ceppo a sé di pantegani, fulvi e sgarbati. Li conoscevamo abbastanza bene, benché di solito corressero a nascondersi con tanta petulanza, perché scendevamo spesso tra loro, non di propria volontà però, ma perché sul muretto dalla cima bombata era facile perdere l’equilibrio.
Queste visite erano più o meno rischiose a seconda delle condizioni del letamaio; anch’esso ha le sue stagioni, i suoi ritmi naturali, il volgere della luna lo gonfia e lo secca senza posa; a volte è arido e compatto come un campo in tempo di siccità, a volte quasi un lago pieno di brutte bolle nere. Uno dei miei primi ricordi di mio fratello è quando ricomparve in cima al cortile dopo un’assenza un po’ lunga in forgia. Gli era accaduta per la prima volta la cosa che solo con una certa esperienza s’imparava a prendere in one’s stride (36), ed era un po’ scosso. Era vestito di seta cruda, quei vestitini con gli sboffi, che s’abbottonavano sotto, ma la seta non si distingueva più molto, si confondeva con le braccine, con le manine aperte, con le gambette, con la faccina e coi capelli. Scendeva piano piano a gambe larghe, facendo suoni che parevano sospiri.

Libera nos amaluàmen (37). Non sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema.
Liberaci dal luàme (38), dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago!
Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori.
Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!

Con tutte queste insidie e queste minacce, la casa apparteneva tuttavia alla vita, ai traffici degli uomini e delle bestie (le galline della zia Lena condividevano il territorio e quasi il lavoro degli operai dell’officina, ed erano considerate una nuova mutazione di galline meccaniche), alle cose di cui è piena la giornata. Era un organismo assai più complesso delle case di oggi; conteneva ogni maniera di prodotti, granaglie e patate in granaio, vini in cantina, le stanghe dei salumi, le assi coll’uva secca; le cataste della legna, i mucchi di fascine. L’ampio brolo le portava dentro un pezzo cintato di campagna, sulle mure fiorivano il glicine e il calicanto; nel cortile arrivava su carri e carriole, in sacchi e su stanghe, la vita del paese. C’era spazio, il mondo domestico era mescolato con quello del lavoro, anche fuori dell’officina: gli uomini spaccavano la legna, gli ortolani vangavano, i muratori mescolavano la malta in cortile.
La casa era sommamente bella in certi giorni d’autunno, verso sera: in ogni parte si lavorava, in officina sciabordavano le cinghie dei macchinari, stridevano le lime, ronzava il trapano. Zio Checco martellava sull’incudine, zio Ernesto sotto la tettoia cambiava una gomma alla SPA (39), il papà ossigenava (40) vicino al pilastro e lo si vedeva chino sopra il lungo pennacchio della fiamma blu; gli operai preparavano i torpedoni in cortile.
Nella lissiara stavano facendo il vino con gli ultimi cesti che le vendemmiatrici avventizie portavano dall’orto. Nella cucina della zia Lena girava uno spiedo d’uccelli davanti alle vampe del focolare; la zia Nina in ufficio ripassava i conti di fine mese, i ragazzi studiavano in cucina, i bambini giocavano nel portico. Mi affacciavo alla finestra della camera che dà sul cortile, lasciando quello che stavo leggendo, e mi rallegravo.

Le strade principali erano selciate con ciottoli tondeggianti nerastri, che la pioggia faceva luccicare; in centro c’erano marciapiedi ordinari, altrove due liste parallele di pietra rosa con un orlo di sassi scuri.
Chissà chi ha avuto l’idea, recentemente, di provare a sbattezzare il nostro Listòn, per chiamarlo via San Gaetano? (Sono poi arrivati a un compromesso: Listòn San Gaetano). So che anche don Tarcisio ne era scontento. C’è uno zelo malinteso che vorrebbe appiccare i nomi dei santi e dei prelati alle vie di cui un’età più cristiana di questa si contentava, contrà Barbè, contrà Lòza, contrà Porto, contrà Lovara, contrà Muzana, Cantarane, Capovilla.
Già c’era la via San Bernardino (la nostra, dove c’è la vecchia chiesa col piccolo, sobrio orinatoio sul fianco, i Borboni in sagrestia, e un tubo di stufa che esce dalla finestra); c’era in fondo al paese la via San Giovanni, e c’era contrà Chiesa. Non poteva bastare? Ora la contrà Lovara non c’è più, l’hanno data al cardinal De Lai perché passa davanti alla casa dove nacque. Meglio così però, piuttosto della stradella laterale che si chiama contrà Busìa ed era teatro delle gesta del Basadonne quando quelle del Cardinale non erano ancora incominciate. Io non sono contrario alla commemorazione stradale dei nostri compaesani più distinti: vedrei volentieri anzi un “Viale del Tar” (41), e dovendo manomettere il nome vecchio, un “Listòn Giacomo Golo” (42).

Tutto è in pericolo.
«Vuol vedere che rovinano la chiesa di San Bernardino? Guarda quei forati. Stavolta lo chiudono.»
È uno degli orinatoi più esposti della provincia, proprio sull’angolo tra il fianco e la facciata. Chi lo usa non volge le spalle ai passanti, ma il fianco indifeso. Cicci vi passava lunghi periodi spensierati: volgeva la testa, seguiva il passaggio, salutava cortesemente le signore.
L’altro in Piazzetta, sul muro tra Valentino e la Scopa, l’hanno levato da tempo. La gente però lo usa ancora, ne sposta il fantasma sotto le finestre di Valentino. La famiglia seduta a cena vede apparire sul davanzale la facce degli utenti trasognati, che guardano dentro.
E la bella palassina che costruivano dietro al campanile? La mamma di Ampelio tornando da messa si domandava di chi fosse. Stentarono a convincerla che era solo il pisciatoio nuovo. Una volta erano inconcepibili così complessi e suntuosi. Austerità dei nostri antichi costumi, piccoli drammi dell’incomprensione.

Il putèlo sceso per la prima volta dal monte con la mamma a vedere Malo, aveva veduto tanto, troppo. Tutto gli pareva possibile, anche l’orrenda cosa che veniva su lentamente per via Borgo. Era una Sàura (43) carica, un mostro gigantesco che riempiva tutta la strada. La gente non scappava, si metteva contro i muri.
Il putèlo non aveva più il tempo per provare a capire. Appoggiato al muro con la mamma (c’era un po’ più spazio sul marciapiede dall’altra parte, ma era tardi per attraversare) resistette alle scosse del terrore finché la Sàura ruggente fu a due metri, a un metro; poi corse in mezzo, sparì nelle fauci deformi.

__________________________________________________________________________

(1) strafòglio = trifoglio; anche la spagna è il trifoglio, ma forse per l’autore è più semplicemente un campo di erba
(2) moraro = gelso
(3) no-man’s land = terra di nessuno
(4) giara = ghiaia
(5) roste = dighe di sassi o terra
(6) sottarole = nuotate sott’acqua
(7) mascagna = pettinatura maschile con i capelli all’indietro (come usava il compositore Pietro Mascagni)
(8) brentana = esondazione di un torrente, un canale e simili
(9) brolo = orto, frutteto
(10) stroso = sentiero
(11) rùsse = cespugli spinati
(12) pere pome ùe = pere mele uve
(13) ùa spinèla = ribes
(14) bromba = prugna
(15) àmolo = susina
(16) pèrsego = pesca
(17) armellino = albicocca
(18) allegare = dare quella sensazione, tipica dei frutti acerbi, per cui sembra di sentirsi legare i denti
(19) còrnole = frutti del corniolo
(20) garbe = aspre, asprigne
(21) dùdole = nespole nane
(22) nosèlle appena fatte = nocciole appena mature
(23) nóse = noci
(24) vùto = vuoi
(25) citazione dalla poesia di  Eugenio Montale “Carnevale di Gerti” (Le Occasioni)
(26) gorne = grondaie
(27) stellaresse = punti della grondaia dove l’acqua tracima
(28) testi = recipienti di vario tipo
(29) leccarde = recipienti di metallo che vengono collocati sotto la carne che cuoce per raccogliere il grasso che cola
(30) panaro = tagliere
(31) lissiara = lavanderia, o semplicemente luogo in cui le donne facevano il bucato
(32) ande = serpenti
(33) barchesse = tettoie
(34) forgia = fucina
(35) sgrìsole = qualcosa come brividi
(36) in one’s stride = disinvoltamente
(37) liberanosamaluàmen = deformazione delle ultime parole del Padre Nostro in latino: “libera nos a malo. Amen.”, ossia “liberaci dal male. Amen.”
(38) luàme = letame, ma con un senso di particolare ribrezzo
(39) SPA = marca di automobili prodotte a Torino dal 1905
(40) ossigenava = usava la fiamma ossidrica
(41) Tar = nome di battaglia di un capo partigiano famoso nella zona, a cui Meneghello dedica alcune pagine di Libera nos a Malo in un successivo capitolo
(42) Giacomo Golo = era l’accattone del paese, che l’autore definisce “il re dei poveretti mendichi”
(43) Sàura = il prototipo dell’autocarro Diesel, detto di ogni autocarro di grossa mole

Cartina della zona di Malo con in evidenza alcuni dei paesi citati in “Libera nos a Malo”


martedì 25 luglio 2017

90 Libera nos a malo: capitolo 10 (di Luigi Meneghello)



L’educazione alla realtà, dice Meneghello in questo decimo capitolo di “Libera nos a malo”, passa attraverso 3 elementi fondamentali: la gente del popolo (magnifico il Cicàna con la sua scommessa blasfema), gli animali della zona (insetti e rettili soprattutto), il cinema (sempre Cicàna, che dà vita nuova alle storie dello schermo, “traducendole” in dialetto).
Ho spiegato alcuni termini in nota per un pubblico di ragazzi o di non veneti.

Studiavamo la natura osservando il comportamento dei popolani, esplorando i territori dietro il Castello e lungo il torrente, e sullo schermo del Cinema San Gaetano. C’era stato anche il Radium che non apparteneva al prete e dove si vedevano i lavori scandalosi; ma l’avevano chiuso, e i lavori scandalosi si vedevano a Schio.
Chissà che cos’altro c’era in quel film, Il Gaucho (pr. Gau-ko)? Ma quello che c’era di certo era il lebbroso con la testa infilata in un’asse di legno in cima a una stanga con cui la gente lo teneva lontano. Il lebbroso è in mezzo a un cerchio di persone, e il Gaucho gli dice:
«Vai nel cuore della foresta e uciditi».
Uciditi è parola esotica ed ha perciò un’intonazione quasi sognante. Il nostro cópete non significa mai ucciditi. E come si dice ucciditi? Non si dice: si direbbe sbàrete, ma uno deve già avere lo schioppo in mano. Si può dire naturalmente cópete sètu? che significa non farti male.
Poi il Gaucho è appoggiato con la schiena a una finestra, in una specie di mezzanino o su un pianerottolo, e parla con la ragazza. Ha le mani dietro la schiena, e pian pianino spunta da dietro la finestra il lebbroso e gli addenta una mano, e morde e morde, mentre il Gaucho si divincola e impreca.
«El ghe la ga petà (1)», conferma il pubblico come un Coro.
Anche petare è carico di significato, pidocchi rogna tisi, e questa stupenda malattia, la lebbra. Non si dice molto in piazza e nel centro.
Ora il lebbroso può ripetere al Gaucho:
«Vai nel cuore della foresta e uciditi».
Nel cuore della foresta: non solo nella foresta, ma nel cuore, concetto audace come la perla dell’Adriatico. Il cuore della foresta è infestato di creature subdole e spietate: fortuna che sono spesso storpie e difettate, come gli uomini.

Se la lìpara ghe vedesse, e la sioramàndola ghe sentisse, no ghe saria pi òmini al mondo che vivesse. (2)

La lìpara non ci vede, ma si orienta annusando, e quando salta (e può saltare sei sette metri) se un altro odore la distrae sbaglia la presa e sbatte le mandibole in aria.
Quando la lìpara insegue un uomo, com’è suo costume di fare, insegue il suo odore; è inutile allora correre in linea retta, perché la lìpara è velocissima e raggiunge agevolmente nonché l’uomo, i cani e i cavalli. Per questo davanti alla lìpara bisogna fuggire a zig-zag; così l’odore ondeggia nell’aria e la lìpara si mette a serpeggiare e si rompe il fil della schiena.
Si può tornare indietro allora, e osservare (ma non toccare!) la testina a triangolo con l’occhietto spento della creatura cieca.
La sioramàndola è più rara. Abita nei luoghi umidi, presso le scaturigini nei boschi, si ciba principalmente di aria, e uccide per pura crudeltà, con la linguetta.
Io vidi la sioramàndola una volta sola, alla Fontanella dietro il Castello. Chiacchieravamo ignari Piareto ed io sotto i rami folti dei faggi, accostandoci al cristallo dell’acqua sorgiva per bere. Su una pietra lambita dal rìvolo c’era la sioramàndola. Era verde come la luce circostante, e macchiata di giallo e marrone, come le foglie secche. Era seduta e ci voltava le spalle.
Fermai in tempo Piareto che voleva tirarle un sasso (ma il sasso rimbalza e il piccolo mostro s’inferocisce), e andammo via in punta di piedi, prima che la sioramàndola girasse la testa.

La cavalletta verde è un mandolone (3) bislungo senza forza: sotto le ali fragili, quasi vegetali, porta una sottoveste di seta trasparente, giallina; la cavalletta castana è tarchiata e forzuta, specie nelle cianche (4) seghettate: spara con esse come una piccola fionda, e quando spara si vedono lampeggiare le mutande scarlatte.
La cavalletta verde non mangia la cavalletta castana; invece alle cavallette castane provvedevamo una dieta di cavallette verdi opportunamente trinciate, galloni magri e flaccidi a mezzogiorno, pasticcio di occhi e antenne, e alla sera la squisitezza dei petti. Molte facevano una specie di sciopero della fame, rifiutavano quei bocconi girando la testina di qua e di là, ed eravamo costretti a ingozzarle con la forza.  È inutile, una certa forza ci vuole nei rapporti delle creature più grosse con quelle più piccole.
Le tenevamo nelle ampie stalle di cartone, attaccate ai lunghi guinzagli o bianchi o neri; le portavamo a passeggio con questi guinzagli legati al dito, per straviarle (5). Morivano per lo più annegate nelle grandi gare di nuoto nella vasca in Castello, o smembrate per errore in allenamento insegnando loro un nuovo tipo di crawl.
I brombóli (6) muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiamo un po’ sempre, sono esposti a un rischio continuo.
Il brombólo è soprattutto un arrampicatore: appoggiandolo alle superfici del monumento ai Caduti in Castello, lui s’aggrappa al marmo e ràmpica pazientemente. Salivano sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere; cadevano senza preavviso, e si sentiva la piccola bòtta della nuca ai piedi dei paretoni bianchi. Il brombólo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena.
Ricordiamo ancora con affetto i nostri brombóli migliori, e specialmente quello bravissimo che si chiamava Soga. Gli altri partivano sullo spigolo a destra, raggiungevano subito ZANELLA e VANZO, più raramente STERCHELE e SAGGIN, qualche volta anche i primi PAMATO; uno si spinse una volta fino in mezzo alle P che sono dieci, poi cadde, batté la nuca e morì in seguito all’infermeria.
Ma Soga si spostava subito vivacemente a sinistra, passava LAIN, passava LAPPO, e poi su: su per GALIZIAN, fratello di mia zia Lena, via per FESTA, dove già stentavamo ad arrivare per fargli sicurezza con la mano. Quando passava i due DESTRO, entrambi 16 maggio 1916, non ci arrivavamo più neanche in punta di piedi; scendevamo dalla base e stavamo semplicemente a guardare.
Era solo ora. Solo con DE MARCHI Antonio, classe ’95, con l’altro DE MARCHI un anno più vecchio; solo col lampo del sole sulle roccette dove c’è CIMBERLE. Avevamo paura per lui, lo vedevamo salire lassù di riga in riga, pareva che non finissero mai. Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?
Si trepidava per Soga mandato così allo sbaraglio senza una vera ragione, piccolo lassù come un ometto che s’arrampichi sul Dente del Pasubio; come l’ultimo nome che si vede appena la in cima, AGOSTI Alessandro, zio di Sandro che rinnova il nome.

Di questi nostri brombóli ci fu un’epidemia nel 1598, onde fu murata nella chiesa parrocchiale una lapide:

Guastando li Brombóli le viti, la Comunità di Malo, fatto voto a S. Ubaldo Vescovo di Gubio di celebrare ogni anno li XVI Maggio solennemente la sua Festa, fu liberata…

Questo registra il Maccà; aggiungo che attaccati a un filo e roteati nell’aria, anzitutto li Brombóli si sottraggono alla vista e si dissolvono in un cerchio vaporoso, come marroni salbèghi (7) analogamente trattati; in secondo luogo emettono un lamento vibrante, essi normalmente muti, forse in memoria del macello di S. Ubaldo.
Noi non li prendevamo sulle viti, come forse i nostri compaesani di tre o quattro secoli fa, ma sui morari (8), dove parevano more. Erano cari compagni di scuola; ottima moneta; innocui, lenti, sonnacchiosi. Pareva incredibile che fosse una virtù sterminarli, com’era invece sottinteso.

Slusaróla quasi luccioletta, rizàrda come lucertola, ramarro seu ligaóro, ciupinàra ovvero talpa, libellula sive sitón: la piccola borghesia si occupa prevalentemente degli insetti; i popolani anche dei rettili e anfibi. I mammiferi sono di tutti, ma quale più quale meno: striscio segreto della ciupinàra che Nane-dell’orto percepì in nostra presenza.
Stava separando la cicuta dal prezzemolo; disse «Fermi!» e tirò fuori il coltello; con la bocca faceva quella smorfia che non si sa se uno si morsichi per eccesso di attenzione, o rida. S’inchinava un po’ in giù un po’ in avanti ascoltando un piccolo fruscio sottoterra che noi non sentivamo; d’un tratto fece due passi ben ritmati e ripiegandosi su un bersaglio mobile o invisibile un paio di metri più in là, accoltellò la terra.
Quando si rialzò pareva proprio che ridesse; scavò attorno al manico del coltello e subito sotto, trapassata dalla lama enorme c’era la ciupinàra. Aveva il musetto tutto rosa, scolorito, come chi sta sempre al buio. Aveva una pelliccetta insanguinata, e sporca di terra, ed era cieca. Le manine abituate a raspare pendevano inerti; impalata sul coltello, nel sole accecante, pareva una messaggera imbalbata (9) dal paese di cunicoli freschi e umidi che ci sono sottoterra. Anche Nane era balbo, e l’intera cosa dava un’impressione di balbuzie, un ingorgo doloroso del pomeriggio.
Nane coltivava in orto la cicuta che frammischiava al prezzemolo per la gioia di saperla distinguere al verde più carico, nefasto delle fogliette; e la cattiva, lustra, fragile pianta del ricino con le cui bacche avvelenavamo in segreto le punte delle frecce.

Fra tutto ciò che uccide, supremo è il fascino della vipera; la trovai morta sotto la cascatella del Castello e la portai con le opportune cautele a casa. Io sapevo che il calore può ridonare alle bestie annegate la vita, e misi la vipera ad asciugare a testa in giù sul focolare in cucina nostra. Temevo che essendo la vipera carica di forze sovrumane (è noto che anche qualche giorno dopo la morte a appoggiarle un dito sul musetto la vipera lo addenta e ci pompa dentro i suoi ultimi veleni) il risveglio potesse avvenire fulmineamente. La inchiodammo perciò con molte “camarette” (chiodi a U) dal collo alla coda su un’asse di legno, che disponemmo davanti al fuoco quasi verticale.
La vipera vomitava gocce d’acqua, e s’asciugava; la osservammo attenti, e quando cominciò a muoversi e a strisciare all’ingiù sfuggendo alle camarette, un attacco di pelle d’oca si diffuse sulle nostre braccia e gambe nude. Fermi, stringendo in mano i bastoni e le sbarre che avevamo preparato, aspettavamo che finisse di scendere sulla pietra del focolare per colpirla; ma quando fu discesa per metà morì di nuovo e non si mosse più.
Le aprimmo la bocca con le pinze, gliela puntellammo con oggetti di ferro che essa non può frangere, e io cercai il dente a sciabola, ripiegato dentro alla bocca, e operando con un temperino, con infinite cautele, tentai di estrarre intatti il dente e la vescica del veleno per legarli sulla punta della freccia privata che destinavo a un Avversario il quale per sua fortuna non s’incarnò mai; dico per sua fortuna, perché se anche il congegno montato sulla punta per lo schiacciamento della vescica non fosse scattato, credo che al vedersi addentare in aria dalla mia freccia sarebbe infallibilmente morto di spavento.
Dopo la resurrezione, e la nuova morte, la vipera, con un dente solo in bocca, fu traslata nell’Empireo, diventò un Mistero Numinoso (10). Questo Empireo era un bottiglione pieno di aceto, in cui la calammo a coda in giù tappandola dentro. Restò in sospensione, arricciolata a spirale, con la testina vicino al tappo; e la adoravamo giornalmente. Dopo un po’ cominciò a marcire, e a sfaldarsi, ma i pezzi restavano più o meno al loro posto, sostenuti da filamenti: l’aceto si annebbiava sempre più. Il bottiglione-empireo era tenuto ora permanentemente in cantina per non provocare attacchi di vomito alle donne di servizio. Presto nel liquido annuvolato e rugginoso la vipera non si poté più distinguere; tutto il Bottiglione era Vipera, e noi l’adoravamo togliendo brevemente il tappo in ore statuite del giorno. Nella zaffata rivoltante che ci assaliva, si distingueva benissimo sotto il tanfo putrefatto un minuscolo odore di violette.

Nel complesso i popolani sono più vicini alla natura. Sfojàda metteva in bocca i bachi da seta come se fossero cioccolatini, e per mezzo-gotto (11) di vino li mandava giù.
Sfojàda, Lòba, Squala, Bèna, Cicàna: c’era tutta una generazione, tutta una razza di uomini investiti di una sinistra grandezza. Andavano scalzi coi tubi di tela a mezza gamba, erano amici delle cose che esplodono (Bèna era senza una mano), erano avventurosi, empi, indomabili.
Avevano in tasca ronchetti e coltelli, giocavano a soldi, raggruppati sugli scalini della Casa del Fascio, giravano camminando con indolenza e come a malincuore. Facevano cerchio in Prà, e Cicàna raccontava:
«Prima si vede la mano chiusa a pugno, e intorno è tutto scuro e la mano è illuminata. Poi questa mano pian-pianello si apre, e si vede un gioiello bellissimo, lustro, grosso così. Questo gioiello è posato in mezzo al palmo della mano, la mano è rùspia (12) e il gioiello netto e lìmpio (13). Poi la mano comincia a girare, e gira anche questo gioiello, e si vedono i raggi…».
Cicàna era un grande raccontatore di film, anche quelli in tre, in quattro pisòdi (14). Li faceva durare molto più dell’originale, e aveva un senso vivo delle inquadrature e dei valori tattili e visivi. Sapevamo tutto sul ladro di Bagdà, Maciste e il segno di Zòro. Il dialogo delle didascalie, tradotto in dialetto si ravvivava; le bestemmie fioccavano.
Cicàna sapeva un numero infinito di bestemmie; altre ne inventava. Una volta scommise di dirne trecentocinquanta tutte diverse una dietro l’altra, e vinse senza impegnarsi a fondo. Lo ascoltavamo incantati; era come una lauda pervasa da un vivo sentimento della natura e da un attento spirito di osservazione.
Era di pomeriggio, ed eravamo nell’angolo d’ombra dell’ultima casa verso il ponte del Castello. La stramba litania ci faceva sfilare davanti agli occhi animali esotici e piccoli mammiferi nostrani, uccelli, pesci e rettili, la fauna dei letamai intenta ai suoi traffici, e la gaia flora dei marciapiedi, i grandi sputi gialli dei tabacconi, scarlatti dei tisici. Si vedeva il maggiolino capovolto, l’imbelle brombólo, remigare colle zampette, la pantegana trottare in cima a un muro annusando l’aria, e il carbonazzo (15) avvinghiato alle gambe delle contadine batterle forte colla coda.
Le bestie selvatiche e domestiche, quelle innocue e quelle feroci, i pachidermi e le piccole polde, e fino i microbi e i bacilli che si stenta a vedere a occhio nudo; le bestie dell’aria, dalle pojane altissime agli sciami folti e bassi dei moscerini, le bestie del giorno e della notte, quelle delle acque limpide e dei gorghi scuri.
Alle cento bestemmie Cicàna lasciò il regno animale e passò alle piante, alle erbe, ai licheni, alle muffe; sulle duecento entrò nel mondo bruto della materia inanimata; alle trecento cominciò a toccare la sfera delle arti e dei mestieri, le strutture della società, il gioco delle passioni umane.
Terminò col microcosmo dell’uomo, dei suoi visceri attraenti insieme e repulsivi, delle sue mirabili funzioni fisiologiche; e compiuto il numero delle bestemmie pattuite (Lòba teneva il conto), ne aggiunse alcune altre in supplemento, sciogliendo un inno all’Amore che chiamava però in altro modo: ormai faceva accademia, e fu fermato alle trecento e settantuna.
Concluse con una bestemmia breve e solenne, raddoppiando il Nome di Dio.
____________________________________________________________________________

(1) El ghe la ga petà = gliel’ha attaccata, passata, riferito alla lebbra
(2) Se la lìpara ghe vedesse, e la sioramàndola ghe sentisse, no ghe saria pi òmini al mondo che vivesse = Se la vipera ci vedesse, e la salamandra ci sentisse, non ci sarebbero più uomini al mondo che potessero vivere
(3) mandolone = persona troppo alta rispetto alla propria energia e anche un po’ sciocca
(4) cianche = zampe
(5) straviare = distrarre, svagare
(6) brombólo = maggiolino
(7) marroni salbèghi = castagne selvatiche
(8) morari = gelsi
(9) imbalbata = balbuziente, incapace di parlare
(10) Numinoso = sacro
(11) mezzo-gotto = mezzo bicchiere
(12) rùspia = ruvida
(13) lìmpio = limpido, trasparente
(14) pisòdi = episodi
(15) carbonazzo = il biacco, un serpente nero inoffensivo