martedì 25 luglio 2017

90 Libera nos a malo: capitolo 10 (di Luigi Meneghello)



L’educazione alla realtà, dice Meneghello in questo decimo capitolo di “Libera nos a malo”, passa attraverso 3 elementi fondamentali: la gente del popolo (magnifico il Cicàna con la sua scommessa blasfema), gli animali della zona (insetti e rettili soprattutto), il cinema (sempre Cicàna, che dà vita nuova alle storie dello schermo, “traducendole” in dialetto).
Ho spiegato alcuni termini in nota per un pubblico di ragazzi o di non veneti.

Studiavamo la natura osservando il comportamento dei popolani, esplorando i territori dietro il Castello e lungo il torrente, e sullo schermo del Cinema San Gaetano. C’era stato anche il Radium che non apparteneva al prete e dove si vedevano i lavori scandalosi; ma l’avevano chiuso, e i lavori scandalosi si vedevano a Schio.
Chissà che cos’altro c’era in quel film, Il Gaucho (pr. Gau-ko)? Ma quello che c’era di certo era il lebbroso con la testa infilata in un’asse di legno in cima a una stanga con cui la gente lo teneva lontano. Il lebbroso è in mezzo a un cerchio di persone, e il Gaucho gli dice:
«Vai nel cuore della foresta e uciditi».
Uciditi è parola esotica ed ha perciò un’intonazione quasi sognante. Il nostro cópete non significa mai ucciditi. E come si dice ucciditi? Non si dice: si direbbe sbàrete, ma uno deve già avere lo schioppo in mano. Si può dire naturalmente cópete sètu? che significa non farti male.
Poi il Gaucho è appoggiato con la schiena a una finestra, in una specie di mezzanino o su un pianerottolo, e parla con la ragazza. Ha le mani dietro la schiena, e pian pianino spunta da dietro la finestra il lebbroso e gli addenta una mano, e morde e morde, mentre il Gaucho si divincola e impreca.
«El ghe la ga petà (1)», conferma il pubblico come un Coro.
Anche petare è carico di significato, pidocchi rogna tisi, e questa stupenda malattia, la lebbra. Non si dice molto in piazza e nel centro.
Ora il lebbroso può ripetere al Gaucho:
«Vai nel cuore della foresta e uciditi».
Nel cuore della foresta: non solo nella foresta, ma nel cuore, concetto audace come la perla dell’Adriatico. Il cuore della foresta è infestato di creature subdole e spietate: fortuna che sono spesso storpie e difettate, come gli uomini.

Se la lìpara ghe vedesse, e la sioramàndola ghe sentisse, no ghe saria pi òmini al mondo che vivesse. (2)

La lìpara non ci vede, ma si orienta annusando, e quando salta (e può saltare sei sette metri) se un altro odore la distrae sbaglia la presa e sbatte le mandibole in aria.
Quando la lìpara insegue un uomo, com’è suo costume di fare, insegue il suo odore; è inutile allora correre in linea retta, perché la lìpara è velocissima e raggiunge agevolmente nonché l’uomo, i cani e i cavalli. Per questo davanti alla lìpara bisogna fuggire a zig-zag; così l’odore ondeggia nell’aria e la lìpara si mette a serpeggiare e si rompe il fil della schiena.
Si può tornare indietro allora, e osservare (ma non toccare!) la testina a triangolo con l’occhietto spento della creatura cieca.
La sioramàndola è più rara. Abita nei luoghi umidi, presso le scaturigini nei boschi, si ciba principalmente di aria, e uccide per pura crudeltà, con la linguetta.
Io vidi la sioramàndola una volta sola, alla Fontanella dietro il Castello. Chiacchieravamo ignari Piareto ed io sotto i rami folti dei faggi, accostandoci al cristallo dell’acqua sorgiva per bere. Su una pietra lambita dal rìvolo c’era la sioramàndola. Era verde come la luce circostante, e macchiata di giallo e marrone, come le foglie secche. Era seduta e ci voltava le spalle.
Fermai in tempo Piareto che voleva tirarle un sasso (ma il sasso rimbalza e il piccolo mostro s’inferocisce), e andammo via in punta di piedi, prima che la sioramàndola girasse la testa.

La cavalletta verde è un mandolone (3) bislungo senza forza: sotto le ali fragili, quasi vegetali, porta una sottoveste di seta trasparente, giallina; la cavalletta castana è tarchiata e forzuta, specie nelle cianche (4) seghettate: spara con esse come una piccola fionda, e quando spara si vedono lampeggiare le mutande scarlatte.
La cavalletta verde non mangia la cavalletta castana; invece alle cavallette castane provvedevamo una dieta di cavallette verdi opportunamente trinciate, galloni magri e flaccidi a mezzogiorno, pasticcio di occhi e antenne, e alla sera la squisitezza dei petti. Molte facevano una specie di sciopero della fame, rifiutavano quei bocconi girando la testina di qua e di là, ed eravamo costretti a ingozzarle con la forza.  È inutile, una certa forza ci vuole nei rapporti delle creature più grosse con quelle più piccole.
Le tenevamo nelle ampie stalle di cartone, attaccate ai lunghi guinzagli o bianchi o neri; le portavamo a passeggio con questi guinzagli legati al dito, per straviarle (5). Morivano per lo più annegate nelle grandi gare di nuoto nella vasca in Castello, o smembrate per errore in allenamento insegnando loro un nuovo tipo di crawl.
I brombóli (6) muoiono tranquillamente nel sonno; e siccome dormicchiamo un po’ sempre, sono esposti a un rischio continuo.
Il brombólo è soprattutto un arrampicatore: appoggiandolo alle superfici del monumento ai Caduti in Castello, lui s’aggrappa al marmo e ràmpica pazientemente. Salivano sfruttando le minute rugosità del marmo, e i solchi delle lettere; cadevano senza preavviso, e si sentiva la piccola bòtta della nuca ai piedi dei paretoni bianchi. Il brombólo non muore quando batte la nuca; lo si mette in infermeria, a una dieta di minestra che si versa direttamente col cucchiaio sopra il malato, questi mangia e s’addormenta, ma spesso, secondo la sua natura, muore nel sonno con la pancia piena.
Ricordiamo ancora con affetto i nostri brombóli migliori, e specialmente quello bravissimo che si chiamava Soga. Gli altri partivano sullo spigolo a destra, raggiungevano subito ZANELLA e VANZO, più raramente STERCHELE e SAGGIN, qualche volta anche i primi PAMATO; uno si spinse una volta fino in mezzo alle P che sono dieci, poi cadde, batté la nuca e morì in seguito all’infermeria.
Ma Soga si spostava subito vivacemente a sinistra, passava LAIN, passava LAPPO, e poi su: su per GALIZIAN, fratello di mia zia Lena, via per FESTA, dove già stentavamo ad arrivare per fargli sicurezza con la mano. Quando passava i due DESTRO, entrambi 16 maggio 1916, non ci arrivavamo più neanche in punta di piedi; scendevamo dalla base e stavamo semplicemente a guardare.
Era solo ora. Solo con DE MARCHI Antonio, classe ’95, con l’altro DE MARCHI un anno più vecchio; solo col lampo del sole sulle roccette dove c’è CIMBERLE. Avevamo paura per lui, lo vedevamo salire lassù di riga in riga, pareva che non finissero mai. Ma quanti ne sono morti in questo maledetto paese?
Si trepidava per Soga mandato così allo sbaraglio senza una vera ragione, piccolo lassù come un ometto che s’arrampichi sul Dente del Pasubio; come l’ultimo nome che si vede appena la in cima, AGOSTI Alessandro, zio di Sandro che rinnova il nome.

Di questi nostri brombóli ci fu un’epidemia nel 1598, onde fu murata nella chiesa parrocchiale una lapide:

Guastando li Brombóli le viti, la Comunità di Malo, fatto voto a S. Ubaldo Vescovo di Gubio di celebrare ogni anno li XVI Maggio solennemente la sua Festa, fu liberata…

Questo registra il Maccà; aggiungo che attaccati a un filo e roteati nell’aria, anzitutto li Brombóli si sottraggono alla vista e si dissolvono in un cerchio vaporoso, come marroni salbèghi (7) analogamente trattati; in secondo luogo emettono un lamento vibrante, essi normalmente muti, forse in memoria del macello di S. Ubaldo.
Noi non li prendevamo sulle viti, come forse i nostri compaesani di tre o quattro secoli fa, ma sui morari (8), dove parevano more. Erano cari compagni di scuola; ottima moneta; innocui, lenti, sonnacchiosi. Pareva incredibile che fosse una virtù sterminarli, com’era invece sottinteso.

Slusaróla quasi luccioletta, rizàrda come lucertola, ramarro seu ligaóro, ciupinàra ovvero talpa, libellula sive sitón: la piccola borghesia si occupa prevalentemente degli insetti; i popolani anche dei rettili e anfibi. I mammiferi sono di tutti, ma quale più quale meno: striscio segreto della ciupinàra che Nane-dell’orto percepì in nostra presenza.
Stava separando la cicuta dal prezzemolo; disse «Fermi!» e tirò fuori il coltello; con la bocca faceva quella smorfia che non si sa se uno si morsichi per eccesso di attenzione, o rida. S’inchinava un po’ in giù un po’ in avanti ascoltando un piccolo fruscio sottoterra che noi non sentivamo; d’un tratto fece due passi ben ritmati e ripiegandosi su un bersaglio mobile o invisibile un paio di metri più in là, accoltellò la terra.
Quando si rialzò pareva proprio che ridesse; scavò attorno al manico del coltello e subito sotto, trapassata dalla lama enorme c’era la ciupinàra. Aveva il musetto tutto rosa, scolorito, come chi sta sempre al buio. Aveva una pelliccetta insanguinata, e sporca di terra, ed era cieca. Le manine abituate a raspare pendevano inerti; impalata sul coltello, nel sole accecante, pareva una messaggera imbalbata (9) dal paese di cunicoli freschi e umidi che ci sono sottoterra. Anche Nane era balbo, e l’intera cosa dava un’impressione di balbuzie, un ingorgo doloroso del pomeriggio.
Nane coltivava in orto la cicuta che frammischiava al prezzemolo per la gioia di saperla distinguere al verde più carico, nefasto delle fogliette; e la cattiva, lustra, fragile pianta del ricino con le cui bacche avvelenavamo in segreto le punte delle frecce.

Fra tutto ciò che uccide, supremo è il fascino della vipera; la trovai morta sotto la cascatella del Castello e la portai con le opportune cautele a casa. Io sapevo che il calore può ridonare alle bestie annegate la vita, e misi la vipera ad asciugare a testa in giù sul focolare in cucina nostra. Temevo che essendo la vipera carica di forze sovrumane (è noto che anche qualche giorno dopo la morte a appoggiarle un dito sul musetto la vipera lo addenta e ci pompa dentro i suoi ultimi veleni) il risveglio potesse avvenire fulmineamente. La inchiodammo perciò con molte “camarette” (chiodi a U) dal collo alla coda su un’asse di legno, che disponemmo davanti al fuoco quasi verticale.
La vipera vomitava gocce d’acqua, e s’asciugava; la osservammo attenti, e quando cominciò a muoversi e a strisciare all’ingiù sfuggendo alle camarette, un attacco di pelle d’oca si diffuse sulle nostre braccia e gambe nude. Fermi, stringendo in mano i bastoni e le sbarre che avevamo preparato, aspettavamo che finisse di scendere sulla pietra del focolare per colpirla; ma quando fu discesa per metà morì di nuovo e non si mosse più.
Le aprimmo la bocca con le pinze, gliela puntellammo con oggetti di ferro che essa non può frangere, e io cercai il dente a sciabola, ripiegato dentro alla bocca, e operando con un temperino, con infinite cautele, tentai di estrarre intatti il dente e la vescica del veleno per legarli sulla punta della freccia privata che destinavo a un Avversario il quale per sua fortuna non s’incarnò mai; dico per sua fortuna, perché se anche il congegno montato sulla punta per lo schiacciamento della vescica non fosse scattato, credo che al vedersi addentare in aria dalla mia freccia sarebbe infallibilmente morto di spavento.
Dopo la resurrezione, e la nuova morte, la vipera, con un dente solo in bocca, fu traslata nell’Empireo, diventò un Mistero Numinoso (10). Questo Empireo era un bottiglione pieno di aceto, in cui la calammo a coda in giù tappandola dentro. Restò in sospensione, arricciolata a spirale, con la testina vicino al tappo; e la adoravamo giornalmente. Dopo un po’ cominciò a marcire, e a sfaldarsi, ma i pezzi restavano più o meno al loro posto, sostenuti da filamenti: l’aceto si annebbiava sempre più. Il bottiglione-empireo era tenuto ora permanentemente in cantina per non provocare attacchi di vomito alle donne di servizio. Presto nel liquido annuvolato e rugginoso la vipera non si poté più distinguere; tutto il Bottiglione era Vipera, e noi l’adoravamo togliendo brevemente il tappo in ore statuite del giorno. Nella zaffata rivoltante che ci assaliva, si distingueva benissimo sotto il tanfo putrefatto un minuscolo odore di violette.

Nel complesso i popolani sono più vicini alla natura. Sfojàda metteva in bocca i bachi da seta come se fossero cioccolatini, e per mezzo-gotto (11) di vino li mandava giù.
Sfojàda, Lòba, Squala, Bèna, Cicàna: c’era tutta una generazione, tutta una razza di uomini investiti di una sinistra grandezza. Andavano scalzi coi tubi di tela a mezza gamba, erano amici delle cose che esplodono (Bèna era senza una mano), erano avventurosi, empi, indomabili.
Avevano in tasca ronchetti e coltelli, giocavano a soldi, raggruppati sugli scalini della Casa del Fascio, giravano camminando con indolenza e come a malincuore. Facevano cerchio in Prà, e Cicàna raccontava:
«Prima si vede la mano chiusa a pugno, e intorno è tutto scuro e la mano è illuminata. Poi questa mano pian-pianello si apre, e si vede un gioiello bellissimo, lustro, grosso così. Questo gioiello è posato in mezzo al palmo della mano, la mano è rùspia (12) e il gioiello netto e lìmpio (13). Poi la mano comincia a girare, e gira anche questo gioiello, e si vedono i raggi…».
Cicàna era un grande raccontatore di film, anche quelli in tre, in quattro pisòdi (14). Li faceva durare molto più dell’originale, e aveva un senso vivo delle inquadrature e dei valori tattili e visivi. Sapevamo tutto sul ladro di Bagdà, Maciste e il segno di Zòro. Il dialogo delle didascalie, tradotto in dialetto si ravvivava; le bestemmie fioccavano.
Cicàna sapeva un numero infinito di bestemmie; altre ne inventava. Una volta scommise di dirne trecentocinquanta tutte diverse una dietro l’altra, e vinse senza impegnarsi a fondo. Lo ascoltavamo incantati; era come una lauda pervasa da un vivo sentimento della natura e da un attento spirito di osservazione.
Era di pomeriggio, ed eravamo nell’angolo d’ombra dell’ultima casa verso il ponte del Castello. La stramba litania ci faceva sfilare davanti agli occhi animali esotici e piccoli mammiferi nostrani, uccelli, pesci e rettili, la fauna dei letamai intenta ai suoi traffici, e la gaia flora dei marciapiedi, i grandi sputi gialli dei tabacconi, scarlatti dei tisici. Si vedeva il maggiolino capovolto, l’imbelle brombólo, remigare colle zampette, la pantegana trottare in cima a un muro annusando l’aria, e il carbonazzo (15) avvinghiato alle gambe delle contadine batterle forte colla coda.
Le bestie selvatiche e domestiche, quelle innocue e quelle feroci, i pachidermi e le piccole polde, e fino i microbi e i bacilli che si stenta a vedere a occhio nudo; le bestie dell’aria, dalle pojane altissime agli sciami folti e bassi dei moscerini, le bestie del giorno e della notte, quelle delle acque limpide e dei gorghi scuri.
Alle cento bestemmie Cicàna lasciò il regno animale e passò alle piante, alle erbe, ai licheni, alle muffe; sulle duecento entrò nel mondo bruto della materia inanimata; alle trecento cominciò a toccare la sfera delle arti e dei mestieri, le strutture della società, il gioco delle passioni umane.
Terminò col microcosmo dell’uomo, dei suoi visceri attraenti insieme e repulsivi, delle sue mirabili funzioni fisiologiche; e compiuto il numero delle bestemmie pattuite (Lòba teneva il conto), ne aggiunse alcune altre in supplemento, sciogliendo un inno all’Amore che chiamava però in altro modo: ormai faceva accademia, e fu fermato alle trecento e settantuna.
Concluse con una bestemmia breve e solenne, raddoppiando il Nome di Dio.
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(1) El ghe la ga petà = gliel’ha attaccata, passata, riferito alla lebbra
(2) Se la lìpara ghe vedesse, e la sioramàndola ghe sentisse, no ghe saria pi òmini al mondo che vivesse = Se la vipera ci vedesse, e la salamandra ci sentisse, non ci sarebbero più uomini al mondo che potessero vivere
(3) mandolone = persona troppo alta rispetto alla propria energia e anche un po’ sciocca
(4) cianche = zampe
(5) straviare = distrarre, svagare
(6) brombólo = maggiolino
(7) marroni salbèghi = castagne selvatiche
(8) morari = gelsi
(9) imbalbata = balbuziente, incapace di parlare
(10) Numinoso = sacro
(11) mezzo-gotto = mezzo bicchiere
(12) rùspia = ruvida
(13) lìmpio = limpido, trasparente
(14) pisòdi = episodi
(15) carbonazzo = il biacco, un serpente nero inoffensivo






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