lunedì 24 luglio 2017

89 Libera nos a malo: capitolo 7 (di Luigi Meneghello)



Nel settimo capitolo l’autore si dedica al ricordo dei primi innamoramenti infantili: innamoramenti sentimentali che vivevano di sogni ingenui e che solo il ricordo dell’età adulta riesce a spiegare per ciò che realmente erano, compreso il contesto in cui sbocciavano: la visita sul sofà di casa, un gioco sul greto del torrente, o la pomposità delle feste fasciste.

Le bambine a scuola e le donne in genere le chiamavamo: “le cavre”. In fondo non era un insulto, ma un soprannome quasi affettuoso, un rustico complimento.
Due di queste capre, in quinta classe, mi corteggiarono apertamente. Venivano a passeggio davanti a casa, avvolte negli scialletti, e passando sbirciavano in cortile dove noi giocavamo al pallone. Per una di loro, bruna e petite, provai un sentimento nuovo. Avevo visto nel giornale la fotografia d’uno “studente” che portava in braccio “una bella compagna di studio” durante una festa. Volevo fare anch’io così con la mia ammiratrice, portarmi via in braccio la capretta lasciva, e poi vedere un po’.

Il nostro atteggiamento verso le donne mutava, cominciavamo ad avere piccoli innamoramenti sentimentali: le còttole della Norma ricadevano compostamente sotto il ginocchio; nascevano nel bel sereno gli occhi della Marcella.
L’ora della Marcella è il primo pomeriggio, la sua stagione l’estate colma, e la luce a cui appartiene è quella abbacinata che vibra sopra i sassi bianchi del torrente: giocavamo sul greto a fare le roste, io ero l’animatore dei grandi lavori d’ingegneria idraulica con cui una frotta di maestranze rifaceva la struttura del torrente.
La Marcella cantava “Màila, primo sogno d’amore”, ed io per caso lavorando a spostar pietre mi trovai vicino a lei e rialzandomi la guardai negli occhi. Ah, madonna! Questi occhi erano a due spanne dai miei, e ridevano: erano grandi, damascati, assolutamente incredibili; tiravano la luce, ridendo, e la luce vi si raccoglieva come in specchi preziosi. Tiravano anche me, come oggetti magnetici nel cui campo ci si trovi a trascorrere con la sensazione di perdere vagamente l’equilibrio. (Ho rivisto poi questa lucentezza inverosimile e sentito lo stesso effetto calamitato guardando l’immagine dei pianeti più splendidi che con gli specchi del telescopio si tirano giù dal cielo nelle notti serene.)
La Marcella aveva smesso di cantare e ci guardammo. Io avevo una grossa pietra tra le mani, lei aveva una margherita e seguitava lentamente a sfogliarla. Poi si allontanò sorridendo e riprese a cantare; io misi giù la pietra al suo posto, per fare la diga.

Quando Bruno Erminietto amava l’Adriana, l’amata veniva qualche volta in visita a casa sua coi genitori. La mettevano a sedere sul sofà, bionda e vaporosa come una bambola; e Bruno Erminietto montava al suo fianco sul sofà e faceva peraro.
Si fa peraro mettendosi con la testa in giù e le gambe per aria; così capovolto e tutto rosso in viso Bruno Erminietto corteggiava il suo amore in figura dell’albero delle pere.
L’Adriana, come la Marcella, l’amavamo tutti, chi in segreto, chi con furiosi rossori e selvatiche dimostrazioni esterne di ostilità. Ma nessuna donna credo fu mai tanto amata in paese, e da tanti, e così fulmineamente come la pallida Sidonia.
Io avevo allora una squadretta di calcio di cui ero padrone e capitano perché il pallone era mio. Il sabato arrivò in paese la Sidonia, la domenica tornando da messa ultima mio zio Dino mi domandò con chi giocavamo quel giorno. Dissi che avevo sospeso la partita perché avevo mezza squadra innamorata. «E della stessa donna», aggiunsi gravemente.
«Eh, ostia,» disse Dino. «E chi sarebbe questa vampira?»
Glielo dissi, che era una da Vicenza, arrivata appena, e Dino capì ed ebbe la finezza di non domandarmi altro.
Amai la Sidonia com’era giusto amarla: subito e senza condizioni, come cosa venuta da Vicenza a Malo a mostrare com’è un miracolo. Altri la corteggiavano più volgarmente. Savaio rubava il posto al suo fianco camminando sul marciapiede e canterellava:

Sidonia
Voglio andare con te in Patagonia.

Questi insoffribili estroversi: in Patagonia! Savaio una ne cantava e una ne pensava. Eccolo che riattacca:

L’italiano non ci stette a pensar su
se la prese per la mano
la condusse via lontano
sotto un albero laggiù.

E poi cosa farebbe l’italiano? Io dico che dovrebbe mettersi a sedere su una pietra (ce ne devono essere laggiù) perché le gambe non lo tengono in piedi, e cercar di sopportare il fluido luminoso che esce dal viso di questa donna, restando seduto.
La Sidonia era venuta a stare un po’ in paese da sua zia, e partecipò con noi ad alcune cerimonie vestita da Piccola Italiana. Stava bene, in divisa; pareva ancora più raffinata, con quei capelli castani e lisci, raccolti nella calzetta di seta nera che le piccole italiane s’infilavano in testa.
Eravamo nella sala dell’Albergo Roma, noi balilla per così, e le piccole italiane per così, ad angolo retto. La Sidonia era in seconda fila. Doveva essere al principio di gennaio, perché ci facevano provare in coro un inno alla Befana Fascista: i primi giorni dell’anno, tempo eminentemente poetico e amoroso, nell’aria irreale delle feste, e nel curioso nitore che dànno ai sentimenti il freddo e il sole d’inverno e le molte confessioni e comunioni.

La Befana Fascista nel sole
ha una luce di fede e d’amor.

Devo dire che questa Befana in uniforme di Donna fascista, col visaccio alzato al cielo, cercando di sorridere e trasfigurarsi, mi procurava un leggero senso di nausea; ma anche questo favoriva il mio vago sdilinquimento d’amore. Le parole attive ricacciavano indietro il resto: vinceva il sole, il sole astratto di gennaio, e la luce, le lampadine dell’Albergo Roma soverchiate dal viso splendente.

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