sabato 29 luglio 2017

92 Libera nos a malo: capitolo 14 (di Luigi Meneghello)



Meneghello continua in questo capitolo del suo romanzo d’esordio la propria riflessione personale sulla gente di Malo: sui suoi valori, le sue istituzioni, il modo di vivere. E continua il confronto con il presente degli anni Cinquanta-Sessanta e il mondo acculturato dei centri urbani: la cultura paesana (o meglio, il costume paesano) emerge con la propria molteplice varietà, fatta di bestemmie, lavoro, interesse, allevamento dei bachi da seta, condizione della donna, varietà dialettali e molto altro ancora.

Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco? E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell’altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia? O non piuttosto l’altro ancora, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso? È difficile dire.
Ora siamo in un momento in cui, scrivendo, non si può dire bene né “il paese di allora” né “il paese di adesso”; i tempi mi oscillano sotto la penna, era, è, un po’ di più, molto meno. In alcune cose il cambiamento è radicale, quello che era non è più, in altre c’è poco cambiamento.
Mentre si formano le nuove strutture è rimasto ancora non poco delle vecchie, di quella vita paesana che fino a una generazione fa era comune ai nostri paesi della provincia, e per noi era (e per certi versi è rimasta) la vita tout court. Quella vita si potrebbe rimpiangerla solo per sentimentalismo generico: ma qui dove almeno l’impianto generale delle strade, delle case, degli edifici pubblici è rimasto quasi immutato, è ancora possibile commemorarla.
Il paese di una volta aveva un suo pregio: formava una comunità umana modesta ma organica. Ci conoscevamo tutti, il rapporto tra i vecchi e i giovani era più naturale, il rapporto tra gli uomini e le cose era stabile, ordinato, duraturo. Duravano le case, le piccole opere pubbliche, gli arredi, gli oggetti dell’uso: tutto era incrostato di esperienze e di ricordi ben sovrapposti gli uni agli altri. Gli utensili domestici avevano una personalità più spiccata, si sentiva la mano dell’artigiano che li aveva fatti; la parsimonia stessa del vivere li rendeva più importanti. Perfino i giochi dei bambini erano più seri: meno giocattoletti di plastica, meno sciocchezze. Tutto costava e valeva di più: perfino le palline “di marmo”, le figurine con cui si giocava erano tesori.
Le stagioni avevano più senso, perché vedute negli stessi luoghi, sopportate nelle stesse case. Sembrava quasi che anche la vita privata avesse più senso, o almeno un senso più pieno, proprio perché era indistinguibile dalla vita pubblica di ciascuno. Si veniva al mondo con una persona pubblica già ben definita: Chi sei tu? Un Rana, un Cimberle, un Marchioro? Di quali Marchioro: Fiore, Risso, Còche, Culatta, Culattella? Dove non bastavano i nomi di famiglia, intervenivano i soprannomi di famiglia a definire l’identità di ciascuno. Si era al centro di una fitta rete di genealogie, di occupazioni ereditarie, di tradizioni, di aneddoti.
C’erano “signori”, gente e poveri; ma molte parti della vita si condividevano (in certi sensi di più, per esempio, che non sarebbe pensabile in Inghilterra): i servizi pubblici erano in comune, in comune la lingua, le scuole, le osterie, le chiese, i confessionali. Non era in comune il cibo: e più volte vedendo i poveri mangiare ebbi lo shock di sentire una differenza che in seguito avrei potuto chiamare di classe. Il culmine del successo mondano per i nostri vecchi era quello: “Mangia bene”.
C’erano - oltre alle istituzioni riconosciute de jure - innumerevoli altri istituti di fatto che informavano la vita: le compagnie, la classe di leva, il vino, persino la bestemmia. La bestemmia è un istituto di una certa importanza, non è vero che sia solo un ausilio espressivo degli inarticulate: c’è bensì anche questo aspetto nelle bestemmie della gente, specie quelle allegre e serene che credo facciano sorridere anche il Signore e i santi. Ma la bestemmia vera è quella arrabbiata, che “tira giù” il soprannaturale, ed esprime un giudizio di fondo - rozzo ma indipendente - sul funzionamento del mondo. Ufficialmente il bestemmiatore non s’arrischierebbe a sostenere che in fondo ne abbiano colpa lassù, se le cose vanno storte: ma nell’atto di bestemmiare, fa proprio questo, e viene a contrapporre il punto di vista del buon senso eretico a quello della pietà tradizionale. Il giovanotto emancipato che bestemmia per sport (e altrettanto il popolano che bestemmia per dispetto) suscita nei più giovani la sensazione di una sfida empia ma interessante, in cui si avverte con un delizioso brivido la differenza tra ciò che veramente si crede e si sente, e ciò che si dovrebbe credere e sentire.
Probabilmente non è il caso, parlando di questi modi di vita, di tirar fuori la parola cultura. In un solo senso c’era una nostra cultura paesana, e cioè come costume tradizionale, un sistema di rapporti e di valori ben definito e articolato. Va da sé che quella che si può chiamare in senso stretto la cultura - la cultura intellettuale - o mancava o era importata dai centri urbani dove la si elabora.
Invece un nostro costume paesano c’era: noi si viveva secondo un sistema di valori in buona parte diverso da quello ufficialmente vigente; un sistema di antica formazione prevalentemente rurale e popolare, che aveva adottato anche idee di origine urbana e colta, ma le aveva assimilate e trasformate a modo suo. In quanto questo costume si rifletteva in una cultura (un’elaborazione riflessa del proprio modo di vivere) era soltanto una cultura parlata, priva di testi scritti. Aveva però la potenza delle cose vere, mentre il codice culturale ufficiale, espresso per iscritto in una lingua forestiera, dava l’impressione di una convenzione vuota, e (benché indiscusso, come le malattie) restava astratto fino al momento in cui il suo braccio secolare o ecclesiastico non intervenisse a raggiungerci.
Dietro al paese si sentiva il fondo stabile di una maggioranza contadina, inamovibile, testarda. In qualche modo noi eravamo a nostra volta il fiore urbano di questa società contadina, un centro. Si formava ancora quasi un tutto unico con la campagna, ma il paese travasava e raffinava il costume campagnolo. Di questo complesso lavoro di mediazione esercitato dall’ambiente paesano è difficile documentare bene la natura, soprattutto per difficoltà di lingua. La lingua in cui eseguivamo (senza saperlo, ben s’intende) la nostra mediazione non è scritta, e la lingua che scriviamo in paese e in tutta l’Italia può facilmente tradirci.

Il divario tra il codice di condotta postulato dalla cultura ufficiale scritta, e il costume reale del paese, era grande.
Trovo sul rovescio della copertina di un vecchio quaderno di scuola usato un anno prima che nascessi io, un Decalogo Civile che comincia così:

1. Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro di tutta la vita.
2. Ama lo studio...
3. Santifica tutti i giorni con qualche azione utile e buona, con qualche atto gentile.

Fin qui siamo ancora tra le virtù specifiche dello scolaretto; poi si passa tra quelle che adorneranno tutta la vita, dignità, veracità, rettitudine, generosità, lealtà, correttezza; additando i correlativi da evitare, il servilismo, la viltà, la credulità.
È un documento ammirevole, ma che significato poteva avere per gli alunni di Malo che scrivevano in quaderni come questo? È un codice di moralità civile che avrà avuto qualche senso nei centri urbani, dove forse c’erano mamme e papà che credevano davvero all’importanza della rettitudine civile, della bontà, della fermezza, ecc., così definite. Doveva esserci un’Italia urbana e borghese dove queste parole diventavano almeno in parte costume. Ma a Malo?
Nel nostro ambiente paesano queste parole restavano parole. “Ama i compagni di scuola”: questa non era una massima seria, nessuno cercava sul serio di farci credere, nella nostra propria lingua, che “bisogna amare i compagni di scuola”. Quando si baruffava con questi compagni, a volte ci rimproveravano, altre volte prendevano le nostre parti. In astratto i compagni di scuola non bisognava né amarli né disamarli: l’ingiunzione dell’amore non è concepibile in dialetto (e del resto è una ben strana ingiunzione anche in lingua; e nemmeno i professori di Vicenza e di Padova hanno poi saputo insegnarmi che cosa veramente significhi). I compagni erano come tutti gli altri, con alcuni si andava d’accordo, con altri no, e andava poi a giorni.
Press’a poco così era anche per tutto il resto. Ho preso in questo Decalogo il primo esempio che mi è capitato sottomano, per richiamarmi concretamente a uno dei tanti “codici” espliciti di condotta, o prevalentemente di origine civile e laica, come questo, o ispirati direttamente agli insegnamenti morali della religione, che da questo punto di vista era il settore più importante della cultura ufficiale.
Tutti sono ugualmente lontani dal codice reale di condotta che seguiva la gente, pur non trovandolo scritto in alcun luogo. Non dico che questo fosse l’opposto di quelli, che la gente vivesse in modo apertamente immorale e incivile: dico solo che la nostra condotta non si ispirava ai modelli che ci erano proposti.

La rettitudine contava relativamente poco. Parlo, s’intende, dei valori, non già dei fatti. Va da sé che la proporzione delle persone rette e di quelle non rette era press’a poco la stessa che ovunque. L’espressione “uomo retto” esiste anche in paese, ma l’ho sempre sentita con un’inflessione speciale, simile a quella che potrebbe avere altrove una frase come “ha una voce così gentile e delicata”. La rettitudine è una virtù, ma marginale.
Le virtù principali vigevano nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della vita, e col lavoro. La parola “dovere” in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione “bisogna”, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la “dòna”, per “el me òmo”, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo; bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare meno. Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants, i voglia-di-far-bene. Ma il principio centrale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio.
Un Decalogo realistico in lingua sarebbe dovuto cominciare così:

1. Ricordati che bisogna lavorare per la tua famiglia, e che la tua famiglia viene prima di tutto.

Di gran lunga la maggior parte delle energie fisiche e spirituali della gente si riversava in questo lavoro. Per i più la vita era estremamente dura: duro il lavoro nei campi, nelle officine, nelle bottegucce degli artigiani, nelle filande, e durissimo per le donne nelle case e nelle famiglie. Ma anche i lavori ritenuti meno duri, dei bottegai, degli osti, dei commercianti, dei mediatori, erano pesanti a paragone dei criteri di oggi.
Le quattro filande erano l’industria massima del paese: tutte le donne del popolo o prima o poi andavano o erano andate in filanda, con orari, salari e condizioni di lavoro che riescono oggi quasi incredibili. Quando la filanda “andava”, c’era un fracasso alto e continuo di macchinari antiquati, e in mezzo come un lamento acuto il canto delle filandiere stordite:

Santa Madre, deh Voi fate
che le piaghe del Signore
siàno impresse nel mio cuore.

Polenta e cipolla, polenta e anguria. Le filandiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” (1) tra la mezza e un bòtto (2). Per questo breve lunch hour non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano lungo i due marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico.
Oltre alle filiere vere e proprie sapevo che c’erano le scoattìne (3) e le ingroppìne (4), nomi di sogno. Scoattìne! Ingroppìne! Non pareva credibile guardando queste donne e ragazze col colore dei bachi da seta sul viso.
Ristorate, dopo una mattina di lavoro, tornavano dentro a lavorare alle bacinelle di acqua bollente fino a sera, invocando in alte grida la Santa Madre del cielo, chiedendole piaghe.

Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro.
La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l’orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti.
Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri.
La cura dei bachi da seta era uno di quei lavori supplementari che s’affidavano principalmente alle donne, perché non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli, da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare, rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare, rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare in chiesa e baruffare un po’ con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in filanda non ho mai capito.
Alla sera facevano filò (5), in campagna nelle stalle, in paese nelle cucine: si divertivano, le pigrone, a far la calza o addirittura a giocare la tombola; oppure d’estate sedevano sulla porta con le mani in mano a vedere la gente che tornava dalle osterie.
Gli uomini per divertirsi alla sera andavano all’osteria a giocare alle carte; non erano venute ancora né televisione né luce al neon né bibite. C’erano decine di osterie in paese, tutte fornite di vino clinto dal sapore volpino e di negro vino nostrano. Se queste osterie, sociologicamente parlando, erano una piaga, erano però luoghi più attraenti dei caffè con la televisione di oggi (che secondo me sono anch’essi, sociologicamente parlando, una piaga): avevano pesanti tavole bislunghe, grosse sedie impagliate, il banco di legno, il focolare aperto. Nella medesima stanza, o in una adiacente anch’essa aperta agli avventori, c’era la cucina della famiglia dell’oste: andando in osteria si aveva la sensazione di andare anche in visita.

Gli aspetti del lavoro di cui ho parlato finora riguardano soprattutto ciò che Hannah Arendt nel suo bellissimo saggio sul lavoro umano chiama “labour” e distingue da “work.” È il lavoro-fatica, il tribulare del dialetto, che caratterizza soprattutto le società contadine, e si svolge sotto il segno della necessità: sono tipicamente i lavori della campagna, i lavori domestici, i lavori servili, tutto ciò che ha a che fare col sostentamento della vita fisiologica, secondo il ritmo delle stagioni, del giorno e della notte, del nascere, del crescere, del nutrirsi. È quel lavoro che bisogna fare semplicemente perché si mangia, perché si consuma, perché si vegeta; il lavoro che bisogna fare ogni giorno, ogni mese, ogni anno: la condanna e la schiavitù primaria dell’uomo.
Questo è il tipico labour, ma qualunque altra attività può diventare mero labour quando si sia costretti a compierla in condizioni e con ritmo analogo, e così accadeva in paese.
Vivevamo sotto il segno della Necessità, e l’immagine della Madonna in Castello mi sembra che abbia più senso da questo punto di vista. Placida, florida e robusta, questa Donna incinta è il simbolo più appropriato di ciò che può sperare una comunità di labourers. Giocando in Castello qualche volta, se venivo a trovarmi in chiesa da solo, quando non c’era nessuno, andavo a guardarla e le domandavo: “Cossa pénsito ti?”. Lei continuava a fare quella specie di sorriso con gli occhi prosperi e lieti; ora so che pensa soltanto: “Fuori dalla Necessità ci sono Io”.

Non ricordo se ne parli la Arendt, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un’espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che non si ferma mai. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo, è un bravo operaio,” e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”), l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice.
Perché, noi non eravamo una società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale.
Forse è una delle ragioni per cui l’esperienza di crescere in paese riusciva così schietta, e ancora oggi (pur sapendo benissimo che è inevitabile e desiderabile che si affermino nuove forme di vita associata) ci sembra che per certi versi fondamentali ci fosse più sugo a vivere allora a Malo che non oggi nelle nostre città moderne, in Italia e fuori.
Il paese era una struttura veramente fatta a misura dell’uomo, fatta letteralmente dai nostri compaesani, e quindi adatta alla scala naturale della nostra vita. Quello che c’era era stato fatto in buona parte lì, oggi invece le cose scendono dall’alto, le fabbriche piombano dal cielo di un’economia più vasta, creano strutture nuove che per un verso ci inciviliscono, ma per un altro ci disumanizzano. Le nuove strade arrivano come dall’aria, le fanno imprese forestiere, macchine; le mode del vestire e del vivere arrivano anche loro dall’aria, attraverso i tubi e i canali della televisione. Allora le cose non piombavano dal cielo, le facevano qui.
Si parla di stanze da bagno con mio padre, di impianti dell’acqua, della luce; ci dice quando sono arrivati i primi esempi di queste cose in paese. Si ricorda benissimo quando è stato installato il primo bagno, dal Conte: era ragazzo e ci ha lavorato anche lui. Quand’era bambino c’erano ancora i pozzi, pubblici e privati, come quello del cortile della nonna che funzionava ancora ai miei tempi; quando poi fu fatto l’acquedotto, lui e un suo compagno si presero l’incarico di fabbricare non so che tipo di giunto o di raccordo, e li fabbricarono tutti loro. Si alzavano alle quattro, anche alle tre del mattino, e lavoravano fino a notte.
Le cose del nostro mondo ce le facevamo dunque noi stessi, molto più di adesso; le idee venivano bensì da fuori, ma si assimilavano profondamente attraverso il lavoro diretto. Tutto era umanizzato in questo modo. Oggi arrivano i rubinetti cromati, gli aspirapolvere e le vasche da bagno, il mio amico Sandro li mette in vetrina, e poi li vende e buona notte (e si dà il caso che Sandro sia un artigiano di prim’ordine, erede di quelli di una volta; ma nel paese di oggi sembra quasi un hobby, una sua abilità personale come fare i giochi di prestigio con le carte).
Il nostro Decalogo potrebbe dunque continuare così:

2. Preparati a tribolare: quasi tutti debbono tribolare.
3. Impara a essere bravo nel tuo lavoro. Non c’è nulla di più rispettabile di uno bravo nel suo lavoro.

Il quarto comandamento potrebbe riguardare le donne:

4. Sii pulita. La donna onta non merita stima.

Nella vecchia generazione quasi l’unica critica che si faceva alle donne era contro quelle che non erano “pulite”: non “néte” che vuol dire pulite nella persona ma “pulite” ossia brave a tenere la casa in ordine (“néta”), i bambini lavati, i vestiti ben rammendati e rattoppati con cura. “Onta” vuol dire insomma untidy (6); nei casi gravissimi si diceva, e mio padre dice tuttora, che una donna era “un luamàro” che vuol dire most untidy.
Poiché non voglio compilare io un Decalogo, ma esemplificare un discorso, mi fermerò qui con i comandamenti.

Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano - nel modificare questo codice di condotta - la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.
In ciò che concerne l’intaresse, lo Stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera privata, furtiva, classica dei ladronecci notturni di galline, o dei furti dal cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece l’“arrangiarsi” nei confronti di qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai.
Della prima forma di arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e molti se ne vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni di croce, e facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato, il concreto spesso praticato. “Busiaro” come “ladro” erano insulti; ma mentire di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dalla gente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di galline non è né onesto, né disonesto, è un ladro.
Questi esempi che mi paiono cruciali nella morale convenzionale, potranno bastare per ogni altro caso. In generale la bontà non si associava con questi, e gli altri analoghi, aspetti della condotta: era piuttosto una categoria psicologica che morale. “Bòn” vuol dire di indole gentile; “cattivo” vuol dire litigioso, incline a trovar da dire, a rimproverare i sottomessi, a menar le mani. Né si associava la bontà con la devozione religiosa, anzi le persone “di chiesa” erano spesso tenute in sospetto di una forma speciale di cattiveria secca. Però era proprio su questo terreno della bontà che il contenuto morale della religione riusciva ad acquistare un significato comprensibile a tutti attraverso la raccomandazione generica a essere buoni, che era come la traduzione in dialetto dell’invito evangelico alla gentilezza, alla tolleranza, alla generosità, e in breve ad amare il prossimo.
I vizi canonici, invidia, superbia, iracondia, avarizia, erano considerati tratti psicologici, non concetti morali. Da piccoli eravamo stati istruiti ad accusarcene in confessione, e ce ne accusavamo scrupolosamente; ma crescendo poi ci parevano irrelevant per un adulto, come il domandarsi se si fosse stati “disubbidienti”. Le corrispondenti qualità si riconoscevano bensì nella gente, ma parevano moralmente indifferenti, meri tratti naturali dell’individuo, come la corporatura o la guardatura stralocchiata.
Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati.
Era questa la sfera della nostra libertà paesana. Il lavoro stesso, le necessità della giornata, l’attendere alle proprie faccende, i brevi intervalli di riposo, il semplice andare fino in piazza a comprare, a portare qualcosa, a chiamare qualcuno, bastavano a mettere ciascuno a contatto con tutti. Non soltanto avevamo una persona pubblica, ma anche agivamo in pubblico. Buona parte di ciò che si faceva, era fatto davanti agli occhi di tutti, era conosciuto, valutato, commentato: apparteneva oltre che a noi, al paese. Qui non valeva più la legge severa della Necessità: si poteva improvvisare, scherzare, osservare come vivevano e scherzavano e improvvisavano gli altri; si partecipava con piacere e disinteressatamente a una vita comune, e per solo effetto della comune appartenenza allo spazio pubblico del paese.
Le botteghe-negozi erano quasi estensioni delle case e delle famiglie, erano “aperte” quasi sempre, e in ogni modo non c’era vera distinzione tra aperte e chiuse: per comprare qualcosa si poteva sempre entrare per il cortile, scusandosi appena con la famiglia a cena in cucina.
“Aperte” erano anche per lo più le botteghe-laboratori; c’erano i fabbri con la faccia fuligginosa, i mistri (7)  in mezzo al rame, gli scarpari che tagliavano il cuoio profumato, i maniscalchi (uno era proprio in piazza, e ce n’erano altri due), i marangoni (8), il cui nitido lavoro eseguito tra nitide superfici mi sarebbe piaciuto fare; c’erano i beccari  (9) che malmenavano quarti di bestie e frangevano ossa coi coltellacci, i munari  (10) impolverati, i fornari che lavoravano nelle ore piccole della notte, e chi si alzava a quell’ora poteva affacciarsi alla porta e chiedere un pezzo di pane fresco, come accadde una volta a mio padre, e quelli glielo davano, sagome col grembiule bianco contro le fiamme del forno, ma quando si voltavano si vedeva che il grembiule era aperto di dietro, e sotto erano nudi-infanti e mostravano la schiena liscia e i rialti del sedere luccicanti di sudore. C’erano i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari (11); c’erano i moletta erranti, e i careghetta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i mas’ciari (12), e insomma tutti gli altri. I barbieri erano anche sartori: mio padre ancora non riesce a capacitarsi che si possa vivere facendo solo il barbiere, eppure oggi vivono così, e mantengono la famiglia. Molti di questi mestieri sono praticamente scomparsi oggi, molti altri si sono modificati: l’altr’anno c’era ancora un forno a legna, ora non so. L’esistenza stessa di tutti questi mestieri, e il loro interpenetrarsi nel paese, dava varietà e vivacità alla vita.
Le piazze e le strade erano la nostra agorà; la nostra lingua, a differenza di quella attica, non si scriveva, ma era ricca e flessibile, e con essa si riproduceva come in uno specchio di parole il quadro rallegrante di una vita fatta non solo di triboli, ma anche di incontri, di avventure, di capricci alati, di riflessioni, di liberi eventi.

La lingua aveva strati sovrapposti: era tutto un intarsio. C’era la gran divisione della lingua rustica e di quella paesana, e c’era inoltre tutta una gradazione di sfumature per contrade e per generazioni. Strambe linee di divisione tagliavano i quartieri, e fino i cortili, i porticati, la stessa tavola a cui ci si sedeva a mangiare.
Sculièro a casa nostra, guciàro dalla zia Lena; ùgnolo presso il papà, sìnpio presso di noi. Si sentivano lunghe ondate fonetiche bagnare le generazioni: lo zio Checco non disse mai gi, neanche nei nomi propri, solo ji; del resto anche mio padre dice jèra piuttosto che gèra. Anche la morfologia era a incastro: se abbiamo fatto la seconda guerra gèrimo soldà, se la prima gerìvimo. Della a finale della prima persona dell’imperfetto nel numero dei meno, si avvertiva la soavità arcaica specialmente nei diagrammi del dialetto corretto. Parlavamo al caffè di non so che osservazioni fatte da ciascuno di noi in vari paesi vicini, chi a San Vito, chi a Marano, chi a Isola. C’era anche il Commendatore, un uomo di mondo, che a un certo punto intervenne e cominciò: «Me trovavaaa a Sàn Rafaèl…». La lunga a parve a tutti irresistibilmente graziosa, benché sia normale nel dialetto schietto.
La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la distanza dal punto dove è uscito a riva. Tornano dopo dieci anni, dopo venti anni dalle Australie, dalle Americhe: in famiglia hanno continuato a parlare lo stesso dialetto che parlavano qui con noi, che parlavamo tutti; tornano e sembrano gente di un altro paese o di un’altra età. Eppure non è la loro lingua che si è alterata, è la nostra. È come se anche le parole tornassero in patria, si riconoscono con uno strano sentimento, spesso dopo un po’ di esitazione: di qualcuna perfino ci si vergogna un poco.
Mia zia candida sposata a Como, quando torna a trovarci dice chive e live, che tutti i miei zii hanno abbandonato da decenni. L’antipatica ròda che noi consideriamo vicentina di città, ha quasi scacciato la nostra rùa: almeno abbiamo ancora le ruèle e le ruàre, gli orolojaji la cui nominaglia è Ruet-te, e il casolìno il cui nome è Ruaro. Ruette essendo un soprannome scherzoso, si dice con la doppia. L’uso delle doppie, come gli aspetti del verbo russo, è difficile da spiegare ai foresti: la doppia si adopera in genere per caratterizzare, per imitare, per fingere di dire una cosa e dirne invece un’altra; è una specie di schinca linguistica, che ti lascia lì. Se poi entriamo nella sfera delle doppie ss e delle doppie zz, le regole sono praticamente inutili.
Questa lingua, benché non registrata, benché territorialmente limitata (uno dalla Val di Là parla già diverso da noi), benché tutta divisa in se stessa e di continuo terremotata, non è però uno strumento da prendersi a gabbo. Gli utenti della koinè “italiana”, passando per di qui qualche volta ci provano. Ma noi possiamo rispondere: «Non c’è modo di mettervelo per iscritto, ma fin che abbiamo fiato possiamo cojonarvi anche noi, pajazzi!».
Ma per capire la differenza tra pajassi e pajazzi bisognerebbe che venissero ad abitare qui per qualche anno.

______________________________________________________________________

(1) cuca = la sirena
(2) bòtto = l’una, quando la campana faceva un rintocco
(3) scoattìne = le operaie addette alla pulitura dei bozzoli per liberarli dai fili rotti, nell’acqua a 70-80°, usando una scopetta di erica
(4) ingroppìne = le operaie addette ad annodare a mano i fili che si rompono
(5) filò = la veglia, e per estensione le chiacchiere che si fanno di sera, alla fine della giornata di lavoro, attorno al tavolo di cucina o anche in stalla
(6) untidy = disordinata, trascurata, sciatta
(7) mistri = venditori di ferramenta
(8) marangoni = falegnami
(9) beccari = macellai
(10) munari = mugnai
(11) i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari = fabbricatori di cannelle per le botti, di mastelli, di botti, cavapietre, carrettieri, zoccolai
(12) i moletta erranti, e i careghetta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i mas’ciari = arrotini ambulanti, seggiolai, ombrellai, materassai, produttori di salumi e carni insaccate (mas’cio = maiale)



Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.