venerdì 28 luglio 2017

91 Libera nos a malo: capitolo 13 (di Luigi Meneghello)



Una delle pagine, dedicate alla descrizione di un territorio, più belle che io conosca, superiore al manzoniano “Quel ramo del lago di Como”. Come a volo d’uccello, l’autore esplora tutta la zona circostante Malo, per poi planare sul proprio paese, descrivendo luoghi, strade, viottoli, ed entrando infine nelle case, nelle stanze, soffermandosi sull’uso quotidiano che la gente faceva di lavatoi, cucine, granai, cessi (pubblici e privati). Confrontando il passato col presente e continuando la sua indagine sulla lingua-dialetto di Malo, che è quasi un reato tradurre in italiano. Chi ha pazienza non legga le note, ma cerchi piuttosto di capire il senso di tanti termini dialettali indovinandoli dal contesto.

Mezzogiorno col sole, quando l’estate è ancora illimitata, ai tavoli del caffè in Piazzetta con un bicchiere di vino bianco, io e mio padre scambiando poche parole, attendendo gli amici, osservando la gente che conosciamo.
Gioia somma e perfetta, astratta dal tempo, in mezzo al paese, come fuori della portata della morte. Rabbrividivo al sole.

Le cose sono al loro posto, gli spazi immutati. Conosco bene il giro che fa l’ombra delle case, qui davanti, e il taglio del sole a mezzogiorno in Piazzetta. A quest’ora il Listón che va verso nord è infilato dal sole e dà come una vampata di luce. Contrà Chiesa ha una tettoia d’ombra; a sud, oltre la piazza, affacciandosi verso il ponte del Castello, la chiesa, la calotta di Monte Piàn si vedono tremolare, l’aria è piena di lustrini. Pochi passi nel sole vivo, fino al ponte: si entra in un molle caos di verdi e di celesti, che vibra.
Il questo punto le colline che salgono da Vicenza si allargano verso ponente, e si tirano dietro un lembo della pianura. Questa baia è nostra. Sullo sperone che la separa dal lago della pianura è ancorato il nostro paese. Davanti a noi c’è Schio con le spalle a un bastione di monti azzurri, il Sengio Alto con gli Apostoli, il Pasubio, il Novegno, la piramide del Summano, e l’orlo alto e lungo dell’Altipiano.
Sull’orlo finisce il rastrellamento, i tedeschi ora scendono verso Granezza. Trenta passi da questo punto e si è fuori; si aprono le conchette, gli orizzontini interni si sparpagliano, si spalanca il salto d’aria vuota.
Il mondo incredibile è accampato là sotto in uno stacco che annulla le distanze: ecco i giocattoli che luccicano fra le strisce dei torrenti, Zanè, Giavenale, Marano, Thiene, Villaverla. Dietro c’è una ressa di Montecchi e di Sandrighi, in fondo la risacca piena di Castelfranchi e Cittadelle. Il mondo che in questi mesi sembrava più lontano dell’India e della Cina è qui: visto dall’orlo alto dell’Altipiano pare un presepio.
Quello là a destra, sotto il golfo delle colline impicciolite che fuma, è il mio paese. Bisogna sedersi per terra, aspettare che sembri tutto vero.

Lelio in tempo di guerra arrivando con me in bicicletta da Vicenza (forse non era mai venuto qui, o non aveva guardato) osservava spostarsi, sulla sinistra, le quinte dei colli, e diceva: «Sacramèn che bello». Alla Barbara parve una meraviglia, le case però più che il posto, la nostra urbanistica per così dire. Quando venne, un paio d’anni fa, scese dalla macchina in Piazzetta, si guardò attorno e disse: «Oh, but this is wonderful». Questi apprezzamenti sono gentili, e anche giusti credo; ma per noi il paese non era né bello né brutto, era il nostro paese, e così anche il sito. Ci piaceva, ma non ci veniva in mente di dire che fosse bello.
L’approccio da levante è il più strano. È come se ci fosse stato un elefante, o una bestia molto simile, che camminava verso Schio rimorchiandosi dietro un erpice di collinette; arrivando all’ansa del torrente, che doveva essere pieno d’acqua a quei tempi, avrà voluto bere una sbruffata, e allungò la proboscide. A questo punto cominciò ad affondare (c’era palude, si vede, a sud del torrente) e affondò circa tre quarti, poi deve aver toccato roccia e si fermò. Ora è tutto roccia anche lui, ed è Monte Piàn. La testa si vede bene arrivando da Thiene, profilata in scuro contro il fondale alto delle altre colline a ponente; ma per vederla di pieno bisogna spostarsi un po’ in giù, alla Vacchetta per esempio. Ha la massa poliedrica a facce ampie, irregolari e armoniose che è tipica del cranio degli elefanti, e l’angolo giusto della testa di un elefante in marcia; la proboscide è distesa in avanti, mezza interrata e mezza fuori; ci è cresciuta sopra una natta con qualche pelo, che è il Castello, e proprio sulla punta c’è il paese.
Avvicinandosi pare che al di là di questo testone di Monte Piàn non ci sia più spazio, forse solo una stretta esedra cieca fra la spalla della bestia e i colli alti contro cui strisciava. Si vede un sipario di colli, una costa erta, selvosa e compatta che pare senza esiti fino alle vette rocciose pochi chilometri più a nord. È un’impressione falsa: entrando in paese, e prendendo poi per contrà Chiesa per uscire dalla parte opposta, come si arriva al campanile e alla chiesa, prima di capire che cosa sta succedendo, ci si trova in uno spazio nuovo. Il sipario arcigno dei colli davanti e a destra s’è come tirato in là, s’è ingentilito; c’è questo nuovo spazio a ponente e a mezzogiorno, il più nostro di tutti gli spazi di questo mondo, un piccolo drappo fermato in cima dal nodo che chiamiamo Priabona.
Il paese è attraversato da sud a nord dalla strada che va da Vicenza a Schio e al passo della Streva; ora c’è un nuovo raccordo che taglia fuori l’abitato. Con questa s’incrocia la strada che venendo dalle pianure di Thiene continua poi verso Priabona e la Val di Là. Lo stradone di Vicenza era già “spalto”, quello di Schio lo divenne ai miei tempi; a Priabona e a Thiene s’andava su una superficie di terra battuta già rovinata dal traffico.
Le strade minori erano una parte importante del mondo del paese; lo sono ancora, ma assai meno ora che si viaggia con le cose a motore, e si ha più spiccato il senso di voler solo spostarsi in modo pratico e insipido da qui a là. Erano fatte principalmente per camminarci, passarci coi carri e con le bestie, al massimo in bicicletta. Serpeggiavano per i campi, o lungo il piede dei colli, erano strettine, con un buon fondo di terra e ghiaietta chiara e compatta, non ancora sciupata dalle rare automobili.
C’erano inoltre le caviàgne, o stradicciole rurali, che non vanno in un paese, ma quasi in visita ai casolari e alle famiglie dei contadini (“dai” tali o talaltri), o anche vanno semplicemente a finire in mezzo alla spagna e allo strafòglio (1), ai margini di una landa sconfinata di campi e fossati e colture. Allora si resta lì, con la bicicletta appoggiata a un moraro (2), e improvvisamente si sentono le voci di milioni e milioni di piccole bestie: la tarda primavera pare un luogo, non più una forma del tempo, e da in mezzo a questo luogo così grande, così folto, il paese a cui questa caviàgna riconduce sembra lontano e senza importanza, e per un po’ non si sa più cosa pensare.
La Proa ci separava da questa landa: come quando si arriva a un confine, e di là è Belgio, Olanda; così dalla stradella che comincia vicino a casa nostra, raggiunto in un minuto il vasto greto interrato e sterposo e sassoso, subito di là cominciava la no-man’s land (3) che s’estende verso i paesi a oriente, la campagna fitta, fuori della geografia e della storia. Proseguendo per le stradicciole che non si fermano in mezzo ai campi, e che non pare siano dirette in alcun luogo in particolare (ce n’è), si sentiva crescere il senso dell’ignoto; nell’estate piena occorreva quasi una forma di coraggio per avventurarsi avanti e avanti tra i sorghi, aspettando come esploratori che un argine camuffato tra le acacie ci scoprisse all’improvviso la grande corrente di sassi della Jólgora, che sega la campagna ed è bianca, immobile, fatta di ciottoli e pietre smussate.

Il nostro proprio torrente si chiama il Livargón, ma le tribù vicine lo chiamano anche la Giara, ed è infatti principalmente giara (4): vien giù dai colli sopra San Vito, e fa un’ansa sotto il paese, come circondandoci a sud, al piede del Castello. Ha poca acqua ed è spesso affatto prosciugato d’estate, benché si gonfi assai “nei tempi delle maggiori sue escrescenze” come avrebbe detto il Maccà. Quando ci scorre l’acqua, si formano dei piccoli bacini che sono i nostri bóji: il principale era il Rostón, poi il grazioso Bojetto, poi l’allegro gorgo dei Sojetti del Castello, poi i piccoli pelaghi bruni di Malo basso, fino al bójo di Cuca.
Le lavandaie inginocchiate sui lavelli agitavano i panni nell’acqua chiara; i gattini annegando nei bóji spargevano sopra gli occhietti il velo rosa delle palpebre; le scaglie di sasso rimbalzavano lietamente sullo specchio dell’acqua; i bambini facevano le roste (5) tra i sassi; e i nuotatori drappeggiati nei giganteschi panneggi delle mutande di tela emergevano dalle sottarole (6) a faccia in su per rifarsi la mascagna (7). Gastone-Fiore passeggiava impaziente sull’argine aspettando la brentana (8): tutti aspettavamo la brentana, la gialla amica che fa galleggiare gli scafi, le zattere e le piroghe in progetto sul greto. Ma Gastone-Fiore a cui le vie dell’aria erano state più volte negate o malamente interrotte, aveva l’Idrovolante, una pesante macchina di tavole inchiodate, a cui la corrente avrebbe impresso l’impulso necessario a librarsi in cielo. Quando arrivò la brentana, una squadra di amici calò la macchina e il pilota sulla cresta delle onde limacciose, ma il peso dei chiodi la fece affondare a picco, e il pilota dovette tornare a riva, parte nuotando a spada, parte a guado.
C’erano luoghi inesprimibilmente ameni lungo il torrente: boschetti di acacie, praticelli come quello in fondo al Prà, oltre il doppio anello dei platani, un margine d’erba più basso del prato comunale, quasi al livello del torrente. Il dirupo del Castello lo chiude scendendo con uno speroncino di roccia aggirato da una traccia di sentiero nel sasso. Sopra la roccia un aspro recinto di spine rinserra il brolo (9) antico del prete, aggrappato alla costa che spiove, e da questa parte affatto inaccessibile. Era uno di quei luoghi perfetti che si trovano nei romanzi di cavalleria; l’erba, l’acqua, la roccia, l’orto misterioso, aereo, e l’alto dirupo alle spalle e la prospettiva dei platani. Invece appena al di là del torrente c’erano i muri e gli orti del paese, le schiene rozze delle case (lì di fronte è quella dov’è nato mio nonno), le viottole dove non passava nessuno, tranne un bambino con la capra. Altri luoghi ho riconosciuto poi nei racconti di cavalleria, a cui davano adito i sentieruoli dietro al Castello, luoghi come la Fontanella, il Paraìso, con la polla dell’acqua sorgiva, il muschio e l’ombra pezzata degli alberi.
I dossi dietro al Castello erano tutta una rete di sentierini-stròsi, e stròso (10) è avventura. Stròso rimonta contrafforte, scala gobbetta, adduce a pino in cresta; penetra, infrasca disinfrasca; punge con rùsse (11), consola con primule. Da stròso si rubano pere pome ùe (12).

Chi ze che ròba la ùa spinèla (13)?

La ùa-mericàna, la bromba (14) idropica, l’àmolo (15) acido, il pèrsego (16) che dà nel verdastro e sente di màndola, l’armellino (17) che allega (18)?
Stròso da còrnole (19), còrnole garbe (20); stròso da dùdole (21). Nosèlle appena fatte (22), e nello spiàccico verde le tenere nóse (23) nuove, e le more.

Quale vùto (24), quele rosse o quelle negre?
Quel che vien vien! Quel che vien vien!

Per questi viottoli si ruba, si esplora; viottolo turba, eccita, se ne sbuca correndo a mezzogiorno, si rivede dall’alto il paese, ridendo, con la faccia tutta impiastricciata di more.

Lo spazio borgato era chiuso da fermagli di fossi e di ponti: oltre i ponti del Livargón, c’era la piccola Rana bizzarra a occidente, e quassù la misteriosa Vedezai evaporata tra i campi, lasciando quasi solo un nome. Ma era nostra anche tutta la costa che scende a Santomìo lungo la strada che comincia al ponte delle Galline, e qui in cima al paese la strada che va alle Case e corre lungo la mura del Montécio. Questa è una piccola altura oblunga e irsuta nel mezzo dei campi cintati del Conte, dai quali un muro divide l’orto di casa mia. È come una bella nave cogli alberi scuri scuri, che navighi verso San Vito; ci volta la poppa che è fatta a gradoni e meno fitta di alberi; è una nave di lusso, fatta in modo da parere un monticello isolato nella pianura, e come le navi pare piccola quando si guarda dall’alto dei colli, ma andandoci dentro si vede che è grande, e si può perdersi.
Le Case e Santomìo sono le nostre frazioni; ne abbiamo un’altra lontana i mezzo alla pianura; che si chiama la Molina, dove verso la fine della settimana si passava sotto a uno striscione di tela bianca teso sopra la strada. C’era scritto in tutte maiuscole QUESTA FESTA CINE. Alla Molina fu come in esilio per qualche anno, dopo che i casi della vita ci avevano separati, il mio amico Piareto. I suoi vi facevano i fornari; mi sono accertato di recente che c’è ancora un fornaro autonomo alla Molina. Tutto si trasforma ora così in fretta che non si è più sicuri di nulla.

“You mustn’t expect a romantic paese like Marostica, my dear.”
(Viaggiatore inglese accompagnando un amico a Malo, verso la metà del sec. XX)

Il paese non è cambiato come tanti altri, ma è pur cambiato. Fino a questi ultimi anni era restato quasi fuori dello sviluppo industriale e commerciale del dopoguerra, ma ora ci è arrivata una piccola brezza di prosperità. Tra il paese e la nuova strada di Schio è sorto un quartiere di case nuove, nel vecchio centro le case si sono rinnovate, molte hanno ora anche il bagno, le osterie e i negozi si sono rammodernati, ci sono lampioni al posto delle vecchie lampadine col piatto di ferro appese ai fili.
Il rinnovamento è cominciato sette o otto anni fa. Prima di allora il solo senso che pareva venire dal paese (dopo la guerra) era un’immagine di stanchezza e di decadenza. Guardando dall’inferriata della mia finestra, quando venivo a casa, il palazzotto del conte Brunoro qua di fronte, mi pareva di vederlo agonizzare. Nell’alto portone di legno scuro c’era un portellino come una feritoia; le finestre del pianterreno ingabbiate dalle grate davano su un buio muffito, di cameroni trasformati in ripostigli. Due fasce di muratura staccano il primo piano: finestre a largo intervallo, con gli scuri verdi, sempre chiuse, tranne quella centrale da cui in un barlume nebbioso s’intravedeva l’altra opposta, aperta al nord, attraverso lo spazio di uno stanzone patriarcale. Dentro, in qualche parte, lavorava l’altissimo, circospetto, silenzioso signor Nicola falegname, venuto ad abitarci colla famiglia in tempo di guerra.
Dalla casa del Conte, all’altro lato della strada, fu aperta una porta senza rumore, poi fu richiusa e sbatté. Uscivano il Conte e la Contessa, distintissimi, isolati, antichi, aprivano gli ombrelli sul marciapiede. Un carro col fieno passava il rastrello del Montécio.
Era uno spettacolo funebre: morivano i prati verdi, la siepe troppo folta, gli alberi sovraccarichi di foglie. Mi pareva di non poter comunicare con nessuno. Passavano automobiline col motore imballato, stupidi corvi spennacchiati, e una gracchiò.
Le strade, le persone, gli edifici: tutto pareva soltanto che invecchiasse, che si preparasse a morire senza altro senso. Sarà stato nel 1953: era certo un errore di prospettiva anche allora; ad ogni modo in seguito la modesta ripresa della vita del paese ha cancellato queste impressioni. Qualche anno fa, tornando dopo un’assenza d’un paio d’anni, abbiamo sentito dappertutto un’aria di nuovo. In questo paese che si svecchia e si sgretola, mi dicevo, le cose di prima avranno più senso, non meno. Il cromo scaccia il legno, i finti marmi la pietra, il neon le lampadine; i bagni entrano nelle case, le cucinette moderne soppiantano le vecchie cucine; verranno i termosifoni, i frigoriferi, i tappeti. Non importa: è perché la gente ha ricominciato o forse ha sempre continuato a vivere. È come “le campane d’argento sopra il borgo” (25), e poi il resto che non si può fermare, le antiche travi, i mattoni rossi delle camere, gli intonachi, i corridoi, i ciottoli della corte, il vecchio cesso nel cortile.
Le case del centro hanno un portico selciato che dà nel cortile; nel portico si aprono le porte delle stanze a pianterreno, e le scale. Le stanze sono a travi, i pavimenti a mattoni o a tavole di legno. La cucina è la stanza più importante; c’è il focolare di pietra, la cucina economica, la tavola bislunga dove la famiglia si siede a mangiare due volte al giorno. Qui i bambini fanno i compiti, la mamma cuce. Gli uomini non si vedono mai seduti in casa, tranne all’ora dei pasti. Una volta che Gaetano era gravemente malato il papà lo prese in braccio e si mise a sedere in cucina sulla sedia vicino alla porta: ricordo che aveva il cappello in testa, calato sugli occhi, e lagrimava.
Le camere sono grandi e nude, gelide d’inverno; hanno letti di ferro con la rete metallica (figli) o gli elastici (genitori), il materasso di crine sotto e quello di lana sopra. C’è un lavandino in camera, con la brocca e la secchia; in questa al mattino si vuotano anche i vasi da notte.
La casa ha amplissimi granai, quasi un’altra casa lassù, ventosa e luminosa, cogli alti soffitti sbilenchi. Queste sfere sopramondane hanno più importanza che non si possa dire: si dovrebbe trascrivere tutto in chiave neo-platonica. Era come la Sacrestia nuova di San Lorenzo a Firenze: c’era la zona intermedia delle cose terrene, camere, cucine, cortili; in basso quella oscura dell’Ade a cui davano adito la scala della cantina, la casetta della benzina in orto, e le altre aperture da cui s’udivano gorgogli di cose liquide, sotterranee. Qui in alto c’era la sfera nitida, spaziosa, aperta e nuda dei granai, il mondo scorporato dove emigrano le idee dei giocattoli rotti, degli oggetti spenti; il mondo delle essenze che l’artista ha cercato di riprodurre in pietra serena a San Lorenzo.
Gli sporti del tetto sono ampi, e danno alla casa un’aria quasi aggrondata. “Gorne” (26), “stellaresse” (27): qui al riparo si può stare a guardare la piova appoggiati al muro del cortile, all’asciutto. Spesso le finestre hanno l’inferriata, e il sole entra nella casa a rombi. C’è un tinello per famiglia: ha i mobili morti, gli scuri accostati. Se non c’è un battesimo o una visita importante, raramente la famiglia lo usa. Se ci si porta un visitatore inaspettato, chi lo precede scocca via dalla tavola una mosca morta, raddrizza le fotografie a sghembo nella cornice.
Nelle case migliori c’è un rubinetto d’acqua corrente in cucina, o nel retrocucina dove le donne lavano i piatti. L’acquaio è un’unica grande lastra di pietra viva, sopra di esso sono appesi ad una grossa mensola i grandi secchi di rame in cui si tiene l’acqua che si va a prendere alla fontana pubblica più vicina. D’estate anche chi ha il rubinetto in casa manda a prendere l’acqua fresca alla fontana. Quest’acqua dei secchi si attinge con una “cassa” di rame, nessuna acqua è buona come quella che si beve così. Sotto i secchi c’è il catino di rame, dove ci si lava le mani durante il giorno, e chi non ha il lavandino in camera viene a lavarsi la faccia alla mattina.
C’è molto rame in casa, secchi, testi (28), stampi, leccarde (29), paioli appesi sopra il camino. Sospeso alla catena del focolare c’è il paiolo della polenta.
Tutto ciò che ha attinenza con la polenta era importante, il ceppo incavato che premevano col ginocchio sul paiolo per tenerlo fermo, la méscola, le croste che si grattano direttamente dal paiolo, il vasto panaro (30), il filo di cotone con cui si tagliano le fette che solo i barbari ignari assassinano con la lama del coltello. La pellagra non c’era più, ma si ricordava benissimo, collettivamente parlando. “Pelagroso!” ci dicevano ridendo le zie, come per vezzeggiarci con una minaccia che non fa più paura. Poi si guardavano attorno, se per caso non ci fosse uno da Isola che sentiva, e precisavano abbassando la voce: “Pelagroso da Isola”. Chissà se loro dicono pelagroso da Malo? Secondo i nostri vecchi però, se lo dicono sbagliano; la pellagra si era seduta lì e tenne duro un pezzo; noi andavamo soltanto a vederla. Io non mi pronuncio.
La stanza da bagno è sconosciuta; due o tre famiglie di signori si dice che l’abbiano; la Flora ne ha vista una nella casa del Cavaliere. Quando si è sporchi ci si lava sotto la fontana del cortile; in casi eccezionali si fa un bagno nel mastello in lissiara (31).

Dalla lissiara si scende in cantina; la cantina è abitata da un popolo furtivo di pantegani, visitata talvolta da ande (32) che scendono dai prati del Montécio e vi lasciano una pallida spoglia verdazzurra (le consideravo piccole fate trasformate in serpenti, e come le fate non ero proprio sicuro che ci fossero). C’erano altre cose tra i poderosi piani incrocicchiati della cantina; cose indefinite, addormentate tra le muffe e le ombre, forse sepolte a fiore del pavimento di terra da cui, scendendo con la candela di sera a prendere il vino, pareva che cominciassero vagamente a esalare. La porta pesante si chiudeva col grosso catenaccio (ancora storto per la sberla dell’aria, allo scoppio della Pisa), sulle finestrelle c’erano robuste inferriate: le cose della cantina si serravano dentro.
C’era nella casa un retro terra di barchesse (33), legnaie, ripostigli, cameroni di sgombero. Da noi c’era il favoloso solaio dell’officina, pieno di cadaveri d’ingranaggi, cuscinetti a sfere, leve, pedali, aste, rondelle, catene; tutti impegolati in grumi secchi di vecchio sangue verde-nero. Vi si montava per la più alta delle scale a pioli, attraverso un’apertura circolare, e dall’altra apertura circolare al di là dell’enorme stanzone in penombra si vedeva il pino dell’orto e la cerchia delle colline. Si aveva la sensazione di spiare il mondo da lassù, dal buio verso il chiaro, dal silenzio verso il rumore; era anch’esso un solaio, dunque parte del sopramondo, una specola.
Le ossa spolpate dei motori si gettavano poi nel cortiletto della forgia (34), in un mucchio sotto il primo gelso, e lì arrugginivano alla piova. Nel recinto della forgia c’era la temuta casetta del gassogeno, tra le dune di calce spenta: scoppiando, avrebbe fatto saltare il paese, cancellato tutto. Allo scoppio della Pisa, qualche anno prima che nascessimo noi, era intervenuta la Madonna del Castello a proteggerci: ondeggiarono i camini delle filande, caddero i calcinacci, scrosciarono i vetri, ma insomma andò bene. Però la Pisa è a due chilometri, e la villa che c’era, dopo lo scoppio non c’era più. Ora la casetta del gassogeno, con dentro il grosso cilindro metallico di colore incarnatino, non era a due chilometri, ma in forgia; ogni speranza nella Madonna poteva perciò riferirsi soltanto alla fase precedente allo scoppio, e glielo rammentavamo spesso. In forgia c’erano anche le case delle galline e del maiale, e l’appartamento dei conigli sopra il cesso.
Il cesso si apre in fondo alla corte. Non c’è sedile: davanti alla porta c’è però un cavalletto di legno per lo zio che ha l’artrite; è suo personale, fatto da lui e bislacco e segaligno come lui. È un po’ tagliente, una mera lama d’appoggio; come esattamente si usi nessuno lo sa, solo lo zio se lo porta dentro.
Qualche ospite di eccezionale riguardo lo portavamo al cesso giù dalla nonna, che era considerato più fine perché aveva un sedile di mattoni e un coperchio di legno (un disco con un piolo in mezzo come un manico). Non c’era il normale letamaio dalla nonna, ma una camera sotterranea, dentro la quale si poteva guardare per una botola quadrangolare che scoperchiavamo con molti sforzi. Il fetore di questo letamaio segreto era corrotto e mefitico, non forte e robusto come quello del nostro di casa, che rispecchiava il cielo. Ma tornando agli ospiti di riguardo: li conducevamo giù per il Listòn fino alla porta della nonna; si suonava (campanella col filo metallico), si facevano le presentazioni, si diceva “Faccia come a casa sua”, e s’avviava l’ospite per il cortile.
Nella maggior parte dei cortili il cesso è usato da varie famiglie, e se c’è una bottega o un’officina, anche dai lavoranti. Per orinatoio si usa il letamaio, gli uomini davanti al muretto di riparo, i bambini sopra: in caso d’urgenza lo usano anche le bambine. L’urgenza assoluta spinge tutti, anche le donne, in fondo all’orto.
I conigli (di cui la forgia era la patria e qui venivano uccisi, davanti alla scaletta di casa loro) avevano una verandina che dava sopra il letamaio, e spesso quando noi eravamo in piedi sul muretto, specie se pioveva e si doveva tenersi rasente al muro, venivano di sorpresa a lambirci l’orecchio, provocando sgrìsole (35). Montando sul muretto si causavano scatti, guizzi e tuffi da parte dei pantegani di letamaio, un ceppo a sé di pantegani, fulvi e sgarbati. Li conoscevamo abbastanza bene, benché di solito corressero a nascondersi con tanta petulanza, perché scendevamo spesso tra loro, non di propria volontà però, ma perché sul muretto dalla cima bombata era facile perdere l’equilibrio.
Queste visite erano più o meno rischiose a seconda delle condizioni del letamaio; anch’esso ha le sue stagioni, i suoi ritmi naturali, il volgere della luna lo gonfia e lo secca senza posa; a volte è arido e compatto come un campo in tempo di siccità, a volte quasi un lago pieno di brutte bolle nere. Uno dei miei primi ricordi di mio fratello è quando ricomparve in cima al cortile dopo un’assenza un po’ lunga in forgia. Gli era accaduta per la prima volta la cosa che solo con una certa esperienza s’imparava a prendere in one’s stride (36), ed era un po’ scosso. Era vestito di seta cruda, quei vestitini con gli sboffi, che s’abbottonavano sotto, ma la seta non si distingueva più molto, si confondeva con le braccine, con le manine aperte, con le gambette, con la faccina e coi capelli. Scendeva piano piano a gambe larghe, facendo suoni che parevano sospiri.

Libera nos amaluàmen (37). Non sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema.
Liberaci dal luàme (38), dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago!
Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori.
Libera Signore i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!

Con tutte queste insidie e queste minacce, la casa apparteneva tuttavia alla vita, ai traffici degli uomini e delle bestie (le galline della zia Lena condividevano il territorio e quasi il lavoro degli operai dell’officina, ed erano considerate una nuova mutazione di galline meccaniche), alle cose di cui è piena la giornata. Era un organismo assai più complesso delle case di oggi; conteneva ogni maniera di prodotti, granaglie e patate in granaio, vini in cantina, le stanghe dei salumi, le assi coll’uva secca; le cataste della legna, i mucchi di fascine. L’ampio brolo le portava dentro un pezzo cintato di campagna, sulle mure fiorivano il glicine e il calicanto; nel cortile arrivava su carri e carriole, in sacchi e su stanghe, la vita del paese. C’era spazio, il mondo domestico era mescolato con quello del lavoro, anche fuori dell’officina: gli uomini spaccavano la legna, gli ortolani vangavano, i muratori mescolavano la malta in cortile.
La casa era sommamente bella in certi giorni d’autunno, verso sera: in ogni parte si lavorava, in officina sciabordavano le cinghie dei macchinari, stridevano le lime, ronzava il trapano. Zio Checco martellava sull’incudine, zio Ernesto sotto la tettoia cambiava una gomma alla SPA (39), il papà ossigenava (40) vicino al pilastro e lo si vedeva chino sopra il lungo pennacchio della fiamma blu; gli operai preparavano i torpedoni in cortile.
Nella lissiara stavano facendo il vino con gli ultimi cesti che le vendemmiatrici avventizie portavano dall’orto. Nella cucina della zia Lena girava uno spiedo d’uccelli davanti alle vampe del focolare; la zia Nina in ufficio ripassava i conti di fine mese, i ragazzi studiavano in cucina, i bambini giocavano nel portico. Mi affacciavo alla finestra della camera che dà sul cortile, lasciando quello che stavo leggendo, e mi rallegravo.

Le strade principali erano selciate con ciottoli tondeggianti nerastri, che la pioggia faceva luccicare; in centro c’erano marciapiedi ordinari, altrove due liste parallele di pietra rosa con un orlo di sassi scuri.
Chissà chi ha avuto l’idea, recentemente, di provare a sbattezzare il nostro Listòn, per chiamarlo via San Gaetano? (Sono poi arrivati a un compromesso: Listòn San Gaetano). So che anche don Tarcisio ne era scontento. C’è uno zelo malinteso che vorrebbe appiccare i nomi dei santi e dei prelati alle vie di cui un’età più cristiana di questa si contentava, contrà Barbè, contrà Lòza, contrà Porto, contrà Lovara, contrà Muzana, Cantarane, Capovilla.
Già c’era la via San Bernardino (la nostra, dove c’è la vecchia chiesa col piccolo, sobrio orinatoio sul fianco, i Borboni in sagrestia, e un tubo di stufa che esce dalla finestra); c’era in fondo al paese la via San Giovanni, e c’era contrà Chiesa. Non poteva bastare? Ora la contrà Lovara non c’è più, l’hanno data al cardinal De Lai perché passa davanti alla casa dove nacque. Meglio così però, piuttosto della stradella laterale che si chiama contrà Busìa ed era teatro delle gesta del Basadonne quando quelle del Cardinale non erano ancora incominciate. Io non sono contrario alla commemorazione stradale dei nostri compaesani più distinti: vedrei volentieri anzi un “Viale del Tar” (41), e dovendo manomettere il nome vecchio, un “Listòn Giacomo Golo” (42).

Tutto è in pericolo.
«Vuol vedere che rovinano la chiesa di San Bernardino? Guarda quei forati. Stavolta lo chiudono.»
È uno degli orinatoi più esposti della provincia, proprio sull’angolo tra il fianco e la facciata. Chi lo usa non volge le spalle ai passanti, ma il fianco indifeso. Cicci vi passava lunghi periodi spensierati: volgeva la testa, seguiva il passaggio, salutava cortesemente le signore.
L’altro in Piazzetta, sul muro tra Valentino e la Scopa, l’hanno levato da tempo. La gente però lo usa ancora, ne sposta il fantasma sotto le finestre di Valentino. La famiglia seduta a cena vede apparire sul davanzale la facce degli utenti trasognati, che guardano dentro.
E la bella palassina che costruivano dietro al campanile? La mamma di Ampelio tornando da messa si domandava di chi fosse. Stentarono a convincerla che era solo il pisciatoio nuovo. Una volta erano inconcepibili così complessi e suntuosi. Austerità dei nostri antichi costumi, piccoli drammi dell’incomprensione.

Il putèlo sceso per la prima volta dal monte con la mamma a vedere Malo, aveva veduto tanto, troppo. Tutto gli pareva possibile, anche l’orrenda cosa che veniva su lentamente per via Borgo. Era una Sàura (43) carica, un mostro gigantesco che riempiva tutta la strada. La gente non scappava, si metteva contro i muri.
Il putèlo non aveva più il tempo per provare a capire. Appoggiato al muro con la mamma (c’era un po’ più spazio sul marciapiede dall’altra parte, ma era tardi per attraversare) resistette alle scosse del terrore finché la Sàura ruggente fu a due metri, a un metro; poi corse in mezzo, sparì nelle fauci deformi.

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(1) strafòglio = trifoglio; anche la spagna è il trifoglio, ma forse per l’autore è più semplicemente un campo di erba
(2) moraro = gelso
(3) no-man’s land = terra di nessuno
(4) giara = ghiaia
(5) roste = dighe di sassi o terra
(6) sottarole = nuotate sott’acqua
(7) mascagna = pettinatura maschile con i capelli all’indietro (come usava il compositore Pietro Mascagni)
(8) brentana = esondazione di un torrente, un canale e simili
(9) brolo = orto, frutteto
(10) stroso = sentiero
(11) rùsse = cespugli spinati
(12) pere pome ùe = pere mele uve
(13) ùa spinèla = ribes
(14) bromba = prugna
(15) àmolo = susina
(16) pèrsego = pesca
(17) armellino = albicocca
(18) allegare = dare quella sensazione, tipica dei frutti acerbi, per cui sembra di sentirsi legare i denti
(19) còrnole = frutti del corniolo
(20) garbe = aspre, asprigne
(21) dùdole = nespole nane
(22) nosèlle appena fatte = nocciole appena mature
(23) nóse = noci
(24) vùto = vuoi
(25) citazione dalla poesia di  Eugenio Montale “Carnevale di Gerti” (Le Occasioni)
(26) gorne = grondaie
(27) stellaresse = punti della grondaia dove l’acqua tracima
(28) testi = recipienti di vario tipo
(29) leccarde = recipienti di metallo che vengono collocati sotto la carne che cuoce per raccogliere il grasso che cola
(30) panaro = tagliere
(31) lissiara = lavanderia, o semplicemente luogo in cui le donne facevano il bucato
(32) ande = serpenti
(33) barchesse = tettoie
(34) forgia = fucina
(35) sgrìsole = qualcosa come brividi
(36) in one’s stride = disinvoltamente
(37) liberanosamaluàmen = deformazione delle ultime parole del Padre Nostro in latino: “libera nos a malo. Amen.”, ossia “liberaci dal male. Amen.”
(38) luàme = letame, ma con un senso di particolare ribrezzo
(39) SPA = marca di automobili prodotte a Torino dal 1905
(40) ossigenava = usava la fiamma ossidrica
(41) Tar = nome di battaglia di un capo partigiano famoso nella zona, a cui Meneghello dedica alcune pagine di Libera nos a Malo in un successivo capitolo
(42) Giacomo Golo = era l’accattone del paese, che l’autore definisce “il re dei poveretti mendichi”
(43) Sàura = il prototipo dell’autocarro Diesel, detto di ogni autocarro di grossa mole

Cartina della zona di Malo con in evidenza alcuni dei paesi citati in “Libera nos a Malo”


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