domenica 26 marzo 2017

65 Storia del ragazzino buono (di Mark Twain)




Scritto intorno al 1865, questo racconto, come quello del ragazzino cattivo, rovescia la prospettiva comune sui ragazzi buoni, che non sono così fortunati come si legge nei libri della scuola domenicale; al protagonista vanno tutte storte, fino alla fine
Segue l’edizione originale del racconto.

C'era una volta un ragazzino buono che si chiamava Giacobbe Blivens. Obbediva sempre ai suoi genitori, per quanto assurde e irragionevoli fossero le loro pretese, e imparava sempre la lezione e non arrivava mai in ritardo alla scuola domenicale. Non giocava mai a boccette, nemmeno quando il suo naturale buonsenso gli diceva che era la cosa più redditizia che potesse fare. Nessuno degli altri ragazzi riusciva a vederci chiaro, in questo ragazzo: si comportava in modo tanto strano. Non diceva bugie, per conveniente che fosse; diceva che era male dire bugie, e questo gli bastava. Ed era così onesto da sembrare semplicemente ridicolo. Il curioso modo di fare di quel Giacobbe passava il segno. Non giocava a palline la domenica, non rubava i nidi, non dava monete rese roventi dal fuoco alle scimmie dei suonatori di organetto; non sembrava interessarsi a nessun genere di passatempo razionale. Perciò gli altri ragazzi ne parlavano fra loro, e cercavano di capirlo, ma non riuscivano a giungere a nessuna conclusione soddisfacente. Come ho già detto, potevano soltanto immaginarsi, vagamente, che fosse "infelice", e così lo avevano preso sotto la loro protezione, e non permettevano mai che gli capitasse qualcosa di male.
Questo ragazzino buono leggeva tutti i libri della scuola domenicale; erano il suo maggior divertimento. Il segreto era tutto lì. Credeva ai bambini buoni che si trovano nei libri della scuola domenicale; aveva in loro la massima fiducia. Aveva una gran voglia di incontrarne uno vivo, una volta o l'altra; ma non gli capitava mai: forse erano tutti morti prima che lui venisse al mondo. Ogni volta che leggeva la storia di un ragazzino particolarmente buono, girava in fretta le pagine per vedere come andava a finire, perché avrebbe voluto viaggiare per migliaia di miglia, pur di poterlo vedere; ma era inutile; quel ragazzino buono moriva sempre all'ultimo capitolo, e c'era la figura del funerale con tutti i parenti e tutti i bambini della scuola domenicale in piedi intorno alla fossa, con calzoni troppo corti e berretti troppo grandi, e tutti che piangevano dentro certi fazzolettoni di almeno un metro e mezzo di stoffa. Ogni volta la stessa delusione. Non riusciva mai a vedere uno di quei ragazzini buoni, dato che morivano sempre all'ultimo capitolo.
Giacobbe aveva la nobile ambizione di essere messo in un libro della scuola domenicale. Desiderava esserci messo con le figure che lo rappresentassero nell'azione gloriosa di rifiutare di dire una bugia alla mamma, e lei che piangeva di gioia; e figure che lo rappresentassero in piedi sulla soglia di casa mentre dava un soldino a una povera mendicante con sei bambini, e le diceva di spenderlo con larghezza ma non con prodigalità, perché la prodigalità è peccato; e figure in cui rifiutava con magnanimità di denunciare il ragazzino cattivo che lo aspettava sempre in agguato dietro l'angolo, quando tornava da scuola, e gli dava colpi sulla testa col righello, e poi lo rincorreva fino a casa, facendo: "Ih, ih!", mentre camminava. Questa era l'ambizione del giovane Giacobbe Blivens. Voleva essere messo in un libro della scuola domenicale. Qualche volta si sentiva un po' a disagio a pensare che i ragazzini buoni morivano sempre: gli piaceva vivere, capirete, e quella era la cosa più sgradevole dell'essere un ragazzino di un libro della scuola domenicale. Sapeva che essere buoni non fa bene alla salute; sapeva che essere troppo buoni come i ragazzini dei libri era più fatale del mal sottile, sapeva che nessuno di loro era mai riuscito a resistere a lungo, e lo addolorava il pensiero che, se lo avessero messo in un libro, non l'avrebbe mai visto; e che, anche se fossero riusciti a pubblicarlo prima della sua morte, il libro non sarebbe stato popolare, senza in fondo la figura del suo funerale. Non sarebbe stato un gran che, un libro della scuola domenicale che non fosse in grado di riportare i consigli da lui dati alla comunità, in punto di morte. Così, alla fine, si dovette decidere, naturalmente, a fare del suo meglio, date le circostanze: vivere virtuosamente e tirare in lungo il più possibile, e tenere pronto il suo discorso funebre per quando fosse suonata la sua ora. Ma, chi sa perché, a questo ragazzino buono non ne andava mai bene una. Mai niente gli riusciva come riusciva ai ragazzini buoni dei libri. Questi se la passavano sempre allegramente, e erano i ragazzini cattivi a rompersi le gambe; ma nel caso suo ci doveva essere qualche ingranaggio fuori posto da qualche parte, e gli capitava proprio tutto l'opposto. Quando trovò Jim Blake che rubava le mele, e andò sotto l'albero per leggergli la storia del ragazzino cattivo che cadde dal melo del vicino e si ruppe un braccio, Jim cadde, sì, giù dall'albero, ma cadde addosso a lui e ruppe il braccio a lui, e Jim non si fece proprio niente. Giacobbe non riusciva a farsene una ragione. Nei libri non c'era niente di simile.
E una volta che certi ragazzini spingevano nel fango un povero cieco, e Giacobbe accorse per aiutarlo e riceverne la benedizione, il cieco non lo benedisse proprio per niente, ma gli diede una gran botta sulla capoccia con il bastone e disse che ci si provasse un'altra volta a dargli le spinte e poi a fare finta di aiutarlo. Questo non concordava con nessun libro. Giacobbe li rilesse tutti per controllare.
Una delle cose che Giacobbe voleva era di trovare un cane zoppo e randagio, affamato e perseguitato, e portarselo a casa e coccolarlo e ottenerne eterna gratitudine. E finalmente ne trovò uno e ne fu tutto contento, e se lo portò a casa e lo nutrì, ma quando andò per coccolarlo, il cane gli si avventò contro e gli strappò di dosso tutti i vestiti, meno quelli che aveva davanti, e fece di lui uno spettacolo strabiliante. Consultò i testi più autorevoli, ma non riuscì a spiegare la cosa. Era della stessa razza dei cani che si trovano nei libri, ma si comportava in modo molto diverso. Qualsiasi cosa facesse, questo ragazzo era sempre nei guai. Le stesse cose per le quali i ragazzi dei libri erano ricompensati risultavano essere le cose meno redditizie nelle quali potesse investire il suo capitale.
Una volta, mentre andava alla scuola domenicale, vide certi ragazzini cattivi che partivano in barca a vela per una gita di piacere. Ne fu preoccupatissimo, perché dalle sue letture aveva imparato che i ragazzi che vanno in barca la domenica immancabilmente annegano. Perciò si precipitò su di una zattera per avvisarli, ma uno dei tronchi gli rotolò sotto i piedi e piombò nel fiume. Un uomo lo ripescò abbastanza presto, e il dottore gli pompò fuori l'acqua e poi gli rimise in moto i polmoni, ma aveva preso freddo e stette a letto malato per nove settimane. La cosa più inspiegabile di tutta quanta la faccenda fu però che i ragazzini cattivi con la barca se la spassarono per tutto il giorno e poi arrivarono a casa vivi e vegeti, proprio in maniera sorprendente. Giacobbe Blivens disse che non c'era niente di simile nei libri. Era addirittura ammutolito.
Quando si fu rimesso, era un po' scoraggiato, ma decise di continuare a provare lo stesso. Sapeva che le esperienze fatte fino ad allora non erano quello che ci voleva per andare a finire in un libro, ma, siccome non aveva ancora raggiunto il limite di vita assegnato ai ragazzini buoni, sperava di potere ancora compiere una qualche impresa, se fosse riuscito a tenere duro fino alla scadenza del suo termine. Se poi gli fosse mancato tutto il resto, avrebbe sempre potuto ricorrere al suo discorso in punto di morte.
Consultò i testi autorevoli e ci scoprì che ormai era giunto per lui il momento di andare in mare come mozzo. Andò a trovare il capitano di una nave e fece la sua domanda e, quando il capitano gli chiese i certificati, tirò fuori con orgoglio un libro premio e indicò le parole: "A Giacobbe Blivens, il suo affezionato maestro". Ma il capitano era un uomo rozzo e volgare e disse: - Oh mannaggia al libro! Quello non dimostrava che lui sapesse lavare i piatti e maneggiare il secchio dell'acqua sporca e gli sembrava di capire che non aveva bisogno di lui. Questa fu, decisamente, la cosa più straordinaria che fosse mai successa a Giacobbe in vita sua. Il complimento di un insegnante su di un libro premio non aveva mai mancato di risvegliare le più dolci emozioni dei capitani di lungo corso e di aprire la strada a tutte le cariche onorifiche e redditizie della professione... mai, in nessuno dei libri che aveva letto. Non poteva credere ai propri orecchi.
Questo ragazzino ebbe sempre la vita difficile. Non gli succedeva mai niente che concordasse coi testi autorevoli. Alla fine, un giorno, mentre era a caccia di ragazzini cattivi da ammonire, ne trovò un mucchio nella vecchia fonderia, intenti a fare uno scherzetto a quattordici o quindici cani che avevano legato insieme in lunga processione e che stavano per ornare con delle latte vuote di nitroglicerina legate strette alle loro code.
Giacobbe si sentì toccare il cuore. Si mise a sedere su una delle latte (non badava alle macchie d'unto, quando si trattava del dovere) e, afferrato il primo cane della fila per il collare, rivolse lo sguardo carico di rimprovero sul malvagio Tom Jones. Proprio in quel momento però entrò, pieno d'ira, il segretario comunale, McWelter. Tutti i ragazzi cattivi scapparono, ma Giacobbe Blivens, conscio della propria innocenza, si alzò e cominciò uno di quei solenni discorsetti da libro di scuola domenicale che cominciano: "Oh, signore!", in assoluto disaccordo col fatto che nessun ragazzo, buono o cattivo che sia, comincia mai un'osservazione con un: "Oh, signore!". Ma il segretario comunale non aspettò di sentire il resto. Prese Giacobbe Blivens per un orecchio, gli fece fare un mezzo giro e gli allungò una sculacciata nella retroguardia; e, in un attimo, quel ragazzino buono schizzò come un proiettile attraverso il tetto e volteggiò verso il sole con dietro i frammenti dei quindici cani, tutti in fila come la coda di un aquilone. E sulla faccia della terra non rimase nessuna traccia del segretario comunale, né della vecchia fonderia; e quanto al giovane Giacobbe Blivens, dopo tutte le pene che si era dato per preparare il suo discorsetto in punto di morte, gli mancò l'occasione per farlo, a meno che lo facesse agli uccelli; poiché, sebbene il suo busto scendesse giù veramente bene sulla cima di un albero nella provincia vicina, il resto della sua persona venne distribuito in diverse proporzioni in quattro dipartimenti diversi, e così bisognò fare cinque inchieste, per stabilire se era morto o no, e come era andata. Non si era mai visto un ragazzo tanto sparpagliato - [Questa catastrofe alla glicerina è presa a prestito dalla cronaca di un foglio volante, del cui autore farei il nome, se lo sapessi - MT].
In questo modo morì, il ragazzino buono che fece del suo meglio, ma non ci riuscì, alla maniera dei libri. Tutti i ragazzini che fecero come lui prosperarono, tutti meno lui. Il suo caso è veramente degno di nota. Probabilmente non lo si spiegherà mai.

THE STORY OF THE GOOD LITTLE BOY

Once there was a good little boy by the name of Jacob Blivens. He always obeyed his parents, no matter how absurd and unreasonable their demands were; and he always learned his book, and never was late at Sabbath-school. He would not play hookey, even when his sober judgment told him it was the most profitable thing he could do. None of the other boys could ever make that boy out, he acted so strangely. He wouldn’t lie, no matter how convenient it was. He just said it was wrong to lie, and that was sufficient for him. And he was so honest that he was simply ridiculous. The curious ways that that Jacob had, surpassed everything. He wouldn’t play marbles on Sunday, he wouldn’t rob birds’ nests, he wouldn’t give hot pennies to organ-grinders’ monkeys; he didn’t seem to take any interest in any kind of rational amusement. So the other boys used to try to reason it out and come to an understanding of him, but they couldn’t arrive at any satisfactory conclusion. As I said before, they could only figure out a sort of vague idea that he was “afflicted,” and so they took him under their protection, and never allowed any harm to come to him.
This good little boy read all the Sunday-school books; they were his greatest delight. This was the whole secret of it. He believed in the good little boys they put in the Sunday-school books; he had every confidence in them. He longed to come across one of them alive once; but he never did. They all died before his time, maybe. Whenever he read about a particularly good one he turned over quickly to the end to see what became of him, because he wanted to travel thousands of miles and gaze on him; but it wasn’t any use; that good little boy always died in the last chapter, and there was a picture of the funeral, with all his relations and the Sunday-school children standing around the grave in pantaloons that were too short, and bonnets that were too large, and everybody crying into handkerchiefs that had as much as a yard and a half of stuff in them. He was always headed off in this way. He never could see one of those good little boys on account of his always dying in the last chapter.
Jacob had a noble ambition to be put in a Sunday school book. He wanted to be put in, with pictures representing him gloriously declining to lie to his mother, and her weeping for joy about it; and pictures representing him standing on the doorstep giving a penny to a poor beggar-woman with six children, and telling her to spend it freely, but not to be extravagant, because extravagance is a sin; and pictures of him magnanimously refusing to tell on the bad boy who always lay in wait for him around the corner as he came from school, and welted him over the head with a lath, and then chased him home, saying, “Hi! hi!” as he proceeded. That was the ambition of young Jacob Blivens. He wished to be put in a Sunday-school book. It made him feel a little uncomfortable sometimes when he reflected that the good little boys always died. He loved to live, you know, and this was the most unpleasant feature about being a Sunday-school-book boy. He knew it was not healthy to be good. He knew it was more fatal than consumption to be so supernaturally good as the boys in the books were he knew that none of them had ever been able to stand it long, and it pained him to think that if they put him in a book he wouldn’t ever see it, or even if they did get the book out before he died it wouldn’t be popular without any picture of his funeral in the back part of it. It couldn’t be much of a Sunday-school book that couldn’t tell about the advice he gave to the community when he was dying. So at last, of course, he had to make up his mind to do the best he could under the circumstances—to live right, and hang on as long as he could, and have his dying speech all ready when his time came.
But somehow nothing ever went right with the good little boy; nothing ever turned out with him the way it turned out with the good little boys in the books. They always had a good time, and the bad boys had the broken legs; but in his case there was a screw loose somewhere, and it all happened just the other way. When he found Jim Blake stealing apples, and went under the tree to read to him about the bad little boy who fell out of a neighbor’s apple tree and broke his arm, Jim fell out of the tree, too, but he fell on him and broke his arm, and Jim wasn’t hurt at all. Jacob couldn’t understand that. There wasn’t anything in the books like it.
And once, when some bad boys pushed a blind man over in the mud, and Jacob ran to help him up and receive his blessing, the blind man did not give him any blessing at all, but whacked him over the head with his stick and said he would like to catch him shoving him again, and then pretending to help him up. This was not in accordance with any of the books. Jacob looked them all over to see.
One thing that Jacob wanted to do was to find a lame dog that hadn’t any place to stay, and was hungry and persecuted, and bring him home and pet him and have that dog’s imperishable gratitude. And at last he found one and was happy; and he brought him home and fed him, but when he was going to pet him the dog flew at him and tore all the clothes off him except those that were in front, and made a spectacle of him that was astonishing. He examined authorities, but he could not understand the matter. It was of the same breed of dogs that was in the books, but it acted very differently. Whatever this boy did he got into trouble. The very things the boys in the books got rewarded for turned out to be about the most unprofitable things he could invest in.
Once, when he was on his way to Sunday-school, he saw some bad boys starting off pleasuring in a sailboat. He was filled with consternation, because he knew from his reading that boys who went sailing on Sunday invariably got drowned. So he ran out on a raft to warn them, but a log turned with him and slid him into the river. A man got him out pretty soon, and the doctor pumped the water out of him, and gave him a fresh start with his bellows, but he caught cold and lay sick abed nine weeks. But the most unaccountable thing about it was that the bad boys in the boat had a good time all day, and then reached home alive and well in the most surprising manner. Jacob Blivens said there was nothing like these things in the books. He was perfectly dumfounded.
When he got well he was a little discouraged, but he resolved to keep on trying anyhow. He knew that so far his experiences wouldn’t do to go in a book, but he hadn’t yet reached the allotted term of life for good little boys, and he hoped to be able to make a record yet if he could hold on till his time was fully up. If everything else failed he had his dying speech to fall back on.
He examined his authorities, and found that it was now time for him to go to sea as a cabin-boy. He called on a ship-captain and made his application, and when the captain asked for his recommendations he proudly drew out a tract and pointed to the word, “To Jacob Blivens, from his affectionate teacher.” But the captain was a coarse, vulgar man, and he said, “Oh, that be blowed! that wasn’t any proof that he knew how to wash dishes or handle a slush-bucket, and he guessed he didn’t want him.” This was altogether the most extraordinary thing that ever happened to Jacob in all his life. A compliment from a teacher, on a tract, had never failed to move the tenderest emotions of ship-captains, and open the way to all offices of honor and profit in their gift—it never had in any book that ever he had read. He could hardly believe his senses.
This boy always had a hard time of it. Nothing ever came out according to the authorities with him. At last, one day, when he was around hunting up bad little boys to admonish, he found a lot of them in the old iron-foundry fixing up a little joke on fourteen or fifteen dogs, which they had tied together in long procession, and were going to ornament with empty nitroglycerin cans made fast to their tails. Jacob’s heart was touched. He sat down on one of those cans (for he never minded grease when duty was before him), and he took hold of the foremost dog by the collar, and turned his reproving eye upon wicked Tom Jones. But just at that moment Alderman McWelter, full of wrath, stepped in. All the bad boys ran away, but Jacob Blivens rose in conscious innocence and began one of those stately little Sunday-school-book speeches which always commence with “Oh, sir!” in dead opposition to the fact that no boy, good or bad, ever starts a remark with “Oh, sir.” But the alderman never waited to hear the rest. He took Jacob Blivens by the ear and turned him around, and hit him a whack in the rear with the flat of his hand; and in an instant that good little boy shot out through the roof and soared away toward the sun, with the fragments of those fifteen dogs stringing after him like the tail of a kite. And there wasn’t a sign of that alderman or that old iron-foundry left on the face of the earth; and, as for young Jacob Blivens, he never got a chance to make his last dying speech after all his trouble fixing it up, unless he made it to the birds; because, although the bulk of him came down all right in a tree-top in an adjoining county, the rest of him was apportioned around among four townships, and so they had to hold five inquests on him to find out whether he was dead or not, and how it occurred. You never saw a boy scattered so.—[This glycerin catastrophe is borrowed from a floating newspaper item, whose author’s name I would give if I knew it.—M. T.]
Thus perished the good little boy who did the best he could, but didn’t come out according to the books. Every boy who ever did as he did prospered except him. His case is truly remarkable. It will probably never be accounted for.




64 Storia del ragazzino cattivo (di Mark Twain)



Scritto intorno al 1865, questo racconto rovescia la prospettiva comune sui ragazzi cattivi, che non sono così sfortunati come si legge nei libri della scuola domenicale; anzi, possono diventare magistrati, ricchi e rispettati da tutti!
Dopo la versione in italiano, trovi il testo originale.

C'era una volta un ragazzino cattivo che si chiamava Jim, anche se, quando ci fate caso, vi accorgerete che i ragazzini cattivi dei vostri libri della scuola domenicale si chiamano quasi sempre Jim, Giacomino. Era strano, però è proprio vero che questo qui si chiamava Jim.
E non aveva nemmeno la mamma malata... una mamma malata che era devota e aveva la tisi e sarebbe stata felice di giacere nella tomba e di avere pace, se non fosse stato per il grande amore che aveva per il suo bambino e per la paura che il mondo fosse duro e freddo verso di lui, dopo che lei lo avesse lasciato. Quasi sempre, i ragazzini cattivi dei libri della domenica hanno delle mamme malate che insegnano loro a dire: "Buona notte, mio buon Gesù", e li addormentano cantando con voce dolce e lamentosa, e poi danno loro il bacio della buona notte, e poi si inginocchiano vicino al letto e piangono. Ma con questo tipo qui era tutto diverso. Si chiamava Jim, e sua madre non aveva proprio niente... né tisi, né niente del genere. Era una grassona e non era per niente devota; e poi, non stava in pena per Jim. Diceva che se si fosse rotto l'osso del collo non sarebbe stata una gran perdita. Lo mandava sempre a dormire con uno schiaffone e non gli dava mai il bacio della buona notte; al contrario, quando lui se ne andava, gli allungava uno scapaccione.
Una volta, questo ragazzino cattivo rubò la chiave della dispensa e si infilò dentro e si pappò una certa marmellata e poi riempì il barattolo di catrame, perché la mamma non si accorgesse della differenza; ma all'improvviso una sensazione terribile non si impadronì di lui e un non so che non gli bisbigliò: "È giusto che io disobbedisca alla mamma? Non è peccato far questo? Dove vanno i ragazzini cattivi che si ingozzano tutta la marmellata della loro buona mamma?", e allora non si inginocchiò solo soletto, e non promise di non essere mai più cattivo, e non si rialzò con il cuore leggero e felice per andare a dire tutto alla mamma e a implorare il suo perdono e a riceverne la benedizione con lacrime di riconoscenza e di orgoglio negli occhi di lei. No, questa è l'usanza di tutti gli altri ragazzini cattivi dei libri; ma, strano a dirsi, con questo Jim andò in tutt'altro modo. Mangiò la marmellata e disse che era roba forte, con quel suo modo di esprimersi peccaminoso e volgare; e ci mise dentro il catrame e disse che era roba forte pure quello e rise e disse che "la vecchia si sarebbe messa a soffiare, quando lo avesse scoperto"; e quando lei lo scoprì per davvero, lui negò di saperne qualcosa, e lei lo frustò ben bene, e chi pianse fu lui. Tutto era curioso, in questo ragazzo... per lui ogni cosa andava a finire in modo diverso da quello che succede ai cattivi Giacomini dei libri.
Una volta si arrampicò sul melo di mastro Acorn per rubare le mele, e il ramo non si spezzò, e lui non cadde e si ruppe un braccio, e non fu sbranato dal cagnaccio del fattore, e poi non languì in un letto di dolore per settimane e settimane, per poi pentirsi e diventare buono. Oh, no! rubò tutte le mele che volle e scese giù benissimo e si trovò prontissimo per il cane, anche, e lo mandò a gambe all'aria con un mattone, quando quello si accostò per sbranarlo. Era stranissimo... niente di simile è mai successo in quei buoni libriccini con la copertina marmorizzata e con dentro le figure di uomini con le giubbe a coda di rondine, e i cappelli a campana e i pantaloni alla zuava; e donne con la cintura del vestito sotto le braccia e senza cerchi alla sottana. Niente di simile in nessun libro della scuola domenicale.
Una volta, questo ragazzino cattivo rubò il temperino del maestro, e temendo poi di essere scoperto e frustato lo mise di nascosto nel berretto di Giorgio Wilson (il figlio della povera vedova, il ragazzo morale, il ragazzino buono del villaggio che obbediva sempre alla mamma e non diceva mai bugie e amava le sue lezioni ed era infatuato della scuola domenicale). E quando il temperino cadde dal berretto e il povero Giorgio chinò la testa e arrossì, quasi riconoscendo propria la colpa, e il maestro offeso lo accusò del furto e stava proprio per prenderlo a nerbate sulle spalle tremanti, un improbabile giudice di pace coi capelli bianchi non apparve immediatamente in mezzo a loro, per mettersi in posa e dire: "Risparmiate questo nobile ragazzo... Guardate là acquattato il colpevole! Io passavo davanti alla porta della scuola durante la ricreazione e, non visto, ho visto commettere il furto!". E allora Jim non le prese di santa ragione, e il venerando giudice non lesse un'omelia alla scolaresca, e non prese Giorgio per mano, e non disse che un ragazzo così doveva essere esaltato, e poi non gli disse di andare ad abitare con lui e di pulire l'ufficio e accendere il fuoco e fare le commissioni e tagliare la legna e studiare legge e aiutare sua moglie nei lavori casalinghi e avere tutto il resto del tempo per giocare e essere felice e contento. No; sarebbe andata in quel modo nei libri, ma non andò in quel modo a Jim. Nessuna vecchia ostrica ficcanaso di un giudice entrò a combinare guai, e così Giorgio, il ragazzo modello, prese un sacco di botte, e Jim fu contento, perché Jim, lo sapete, odiava i ragazzi morali. Jim diceva che "ce l'aveva a morte con quelle pappemolle". Questo era il modo di esprimersi di quel ragazzo cattivo e negligente.
Ma la cosa più strana che mai succedesse a Jim, fu la volta che andò in barca la domenica e non annegò; e un'altra volta che era andato a pesca la domenica e che fu sorpreso dal temporale e non fu colpito dal fulmine. Insomma, potete cercare e cercare, in tutti i libri della scuola domenicale, da adesso fino a quest'altro Natale, e non mai niente di simile. Oh, no; ci troverete che tutti i ragazzini cattivi che vanno in barca la domenica inevitabilmente annegano; e tutti i ragazzini cattivi che vengono sorpresi dal temporale, quando vanno a pesca la domenica, vengono inesorabilmente colpiti dal fulmine. Le barche con dentro dei ragazzini cattivi si capovolgono sempre la domenica, e c'è sempre temporale quando i ragazzini cattivi vanno a pesca nelle feste di precetto. Come mai questo Jim se la cavasse è per me un vero mistero.
Nella vita di questo Jim ci doveva essere un incantesimo... Ecco quale deve essere la ragione. Niente gli poteva far male. Diede perfino un pezzo di tabacco all'elefante del giardino zoologico, e l'elefante non gli fece saltare via la cucuzza con un colpo di proboscide. Andò a frugare nell'armadio a caccia di sciroppo di menta, e non si sbagliò e non bevve acido nitrico. Rubò il fucile del babbo e andò a caccia la domenica, e non si portò via con un colpo tre o quattro dita. Una volta che era incavolato, colpì con un pugno la sorellina alla tempia, e lei non giacque sofferente durante i lunghi giorni d'estate per poi morire con sulle labbra dolci parole di perdono che raddoppiavano l'angoscia del suo cuore straziato. No; lei se la cavò. Alla fine il ragazzino cattivo scappò di casa e andò al mare, e non tornò per trovarsi triste e solo al mondo, con i suoi cari che dormivano nel tranquillo cimitero, e la casa della sua infanzia, con il pergolato sul davanti, crollata e andata in rovina. Macché; tornò a casa sbronzo come un pifferaio e per prima cosa andò all'osteria.
E crebbe e si sposò e allevò una numerosa famiglia, e una notte spaccò la testa a tutti con un'accetta e diventò ricco utilizzando tutti gli imbrogli e le mascalzonate possibili e ora è il più infernale, perfido farabutto del villaggio natìo, ed è rispettato da tutti, e fa parte della magistratura.
E così, come vedete, non ci fu mai, nei libri della scuola domenicale, un cattivo Giacomino che avesse tanta fortuna come questo peccatore di un Jim dalla vita incantata.

THE STORY OF THE BAD LITTLE BOY

Once there was a bad little boy whose name was Jim—though, if you will notice, you will find that bad little boys are nearly always called James in your Sunday-school books. It was strange, but still it was true, that this one was called Jim.
He didn’t have any sick mother, either—a sick mother who was pious and had the consumption, and would be glad to lie down in the grave and be at rest but for the strong love she bore her boy, and the anxiety she felt that the world might be harsh and cold toward him when she was gone. Most bad boys in the Sunday books are named James, and have sick mothers, who teach them to say, “Now, I lay me down,” etc., and sing them to sleep with sweet, plaintive voices, and then kiss them good night, and kneel down by the bedside and weep. But it was different with this fellow. He was named Jim, and there wasn’t anything the matter with his mother—no consumption, nor anything of that kind. She was rather stout than otherwise, and she was not pious; moreover, she was not anxious on Jim’s account. She said if he were to break his neck it wouldn’t be much loss. She always spanked Jim to sleep, and she never kissed him good night; on the contrary, she boxed his ears when she was ready to leave him.
Once this little bad boy stole the key of the pantry, and slipped in there and helped himself to some jam, and filled up the vessel with tar, so that his mother would never know the difference; but all at once a terrible feeling didn’t come over him, and something didn’t seem to whisper to him, “Is it right to disobey my mother? Isn’t it sinful to do this? Where do bad little boys go who gobble up their good kind mother’s jam?” and then he didn’t kneel down all alone and promise never to be wicked any more, and rise up with a light, happy heart, and go and tell his mother all about it, and beg her forgiveness, and be blessed by her with tears of pride and thankfulness in her eyes. No; that is the way with all other bad boys in the books; but it happened otherwise with this Jim, strangely enough. He ate that jam, and said it was bully, in his sinful, vulgar way; and he put in the tar, and said that was bully also, and laughed, and observed “that the old woman would get up and snort” when she found it out; and when she did find it out, he denied knowing anything about it, and she whipped him severely, and he did the crying himself. Everything about this boy was curious—everything turned out differently with him from the way it does to the bad Jameses in the books.
Once he climbed up in Farmer Acorn’s apple tree to steal apples, and the limb didn’t break, and he didn’t fall and break his arm, and get torn by the farmer’s great dog, and then languish on a sickbed for weeks, and repent and become good. Oh, no; he stole as many apples as he wanted and came down all right; and he was all ready for the dog, too, and knocked him endways with a brick when he came to tear him. It was very strange—nothing like it ever happened in those mild little books with marbled backs, and with pictures in them of men with swallow-tailed coats and bell-crowned hats, and pantaloons that are short in the legs, and women with the waists of their dresses under their arms, and no hoops on. Nothing like it in any of the Sunday-school books.
Once he stole the teacher’s penknife, and, when he was afraid it would be found out and he would get whipped, he slipped it into George Wilson’s cap—poor Widow Wilson’s son, the moral boy, the good little boy of the village, who always obeyed his mother, and never told an untruth, and was fond of his lessons, and infatuated with Sunday-school. And when the knife dropped from the cap, and poor George hung his head and blushed, as if in conscious guilt, and the grieved teacher charged the theft upon him, and was just in the very act of bringing the switch down upon his trembling shoulders, a white-haired, improbable justice of the peace did not suddenly appear in their midst, and strike an attitude and say, “Spare this noble boy—there stands the cowering culprit! I was passing the school door at recess, and, unseen myself, I saw the theft committed!” And then Jim didn’t get whaled, and the venerable justice didn’t read the tearful school a homily, and take George by the hand and say such a boy deserved to be exalted, and then tell him to come and make his home with him, and sweep out the office, and make fires, and run errands, and chop wood, and study law, and help his wife do household labors, and have all the balance of the time to play, and get forty cents a month, and be happy. No; it would have happened that way in the books, but didn’t happen that way to Jim. No meddling old clam of a justice dropped in to make trouble, and so the model boy George got thrashed, and Jim was glad of it because, you know, Jim hated moral boys. Jim said he was “down on them milksops.” Such was the coarse language of this bad, neglected boy.
But the strangest thing that ever happened to Jim was the time he went boating on Sunday, and didn’t get drowned, and that other time that he got caught out in the storm when he was fishing on Sunday, and didn’t get struck by lightning. Why, you might look, and look, all through the Sunday-school books from now till next Christmas, and you would never come across anything like this. Oh, no; you would find that all the bad boys who go boating on Sunday invariably get drowned; and all the bad boys who get caught out in storms when they are fishing on Sunday infallibly get struck by lightning. Boats with bad boys in them always upset on Sunday, and it always storms when bad boys go fishing on the Sabbath. How this Jim ever escaped is a mystery to me.
This Jim bore a charmed life—that must have been the way of it. Nothing could hurt him. He even gave the elephant in the menagerie a plug of tobacco, and the elephant didn’t knock the top of his head off with his trunk. He browsed around the cupboard after essence-of peppermint, and didn’t make a mistake and drink aqua fortis. He stole his father’s gun and went hunting on the Sabbath, and didn’t shoot three or four of his fingers off. He struck his little sister on the temple with his fist when he was angry, and she didn’t linger in pain through long summer days, and die with sweet words of forgiveness upon her lips that redoubled the anguish of his breaking heart. No; she got over it. He ran off and went to sea at last, and didn’t come back and find himself sad and alone in the world, his loved ones sleeping in the quiet churchyard, and the vine-embowered home of his boyhood tumbled down and gone to decay. Ah, no; he came home as drunk as a piper, and got into the station-house the first thing.
And he grew up and married, and raised a large family, and brained them all with an ax one night, and got wealthy by all manner of cheating and rascality; and now he is the infernalest wickedest scoundrel in his native village, and is universally respected, and belongs to the legislature.
So you see there never was a bad James in the Sunday-school books that had such a streak of luck as this sinful Jim with the charmed life.




63 Come andarono i fatti a proposito delle mie recenti dimissioni (di Mark Twain)



In questo racconto, pubblicato nel dicembre 1867 con il titolo “The Facts Concerning the Recent Resignation”, Mark Twain immagina di aver trovato lavoro come scrivano (ossia dattilografo) presso il Senato statunitense e di considerarsi, solo per questo, membro del governo: naturalmente nessuno ascolterà le sue opinioni in tema di politica.
La satira dello scrittore americano colpisce duramente i suoi obiettivi: sia il Congresso, ossia il Parlamento, le cui decisioni potrebbero condurre al disastro («come ben può avvenire»), sia la gente comune: esilaranti sono i consigli dello scrivano per sterminare gli indiani.

Ho dato le dimissioni. Pare che il governo vada avanti più o meno come prima, ma, ciononostante, gli manca un raggio della ruota. Ero scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia e ho mandato al diavolo l’impiego. Era evidente, e la vedevo con chiarezza, la tendenza da parte degli altri membri del governo a impedirmi di avere voce in capitolo negli organi consultivi della nazione, e quindi non mi è stato più possibile restare in carica e salvare, al tempo stesso, il mio orgoglio. Se dovessi raccontare nei minimi particolari tutti gli oltraggi che si sono accumulati su di me nei sei mesi in cui ho fatto parte del governo in funzione ufficiale, la narrazione riempirebbe un volume. Mi nominarono scrivano di quel Comitato di Conchiliologia, e poi non mi assegnarono un amanuense per giocarci a bigliardo. Avrei anche sopportato quel posto, pur solitario com’era, se negli altri membri del gabinetto avessi riscontrato quella cortesia che mi era dovuta. Invece no. Ogniqualvolta vedevo che il capo di un dipartimento seguiva una strada sbagliata, abbandonavo tutto quanto e andavo da lui e cercavo di riportarlo sulla retta via, come era mio dovere; e non una volta, dico una, sono stato ringraziato. Andai, con le migliori intenzioni del mondo, dal Ministro della Marina e gli dissi:
«Eccellenza, secondo me l’ammiraglio Farragut, là in Europa, non fa altro che qualche scaramuccia, un po’ qua, un po’ là: una specie di scampagnata. Ora, tutto questo andrà anche benone, ma io non la vedrei in questa luce. Se non trova da combattere sul serio, se ne torni a casa. È inutile che un uomo abbia tutta una flotta per farsi una gita di piacere. È troppo dispendioso. Sia chiaro: io non ho niente contro le gite di piacere che siano ragionevoli, che siano economiche. Per esempio, potrebbero andar giù per il Mississippi con una zattera…»
Avreste dovuto sentire che sfuriata! Roba da far pensare che io avessi commesso non so che delitto. Ma io non feci una piega. Dissi che una gita in zattera nel Mississippi era una cosa a buon mercato, piena di semplicità repubblicana e senza pericoli di sorta. Dissi che, per una tranquilla gita di piacere, non c’era niente che valesse una zattera. Allora il Ministro della Marina mi chiese chi ero; e quando gli dissi che facevo parte del governo, volle sapere in quale funzione. Risposi, senza sottolineare la stranezza della domanda da parte di un membro dello stesso governo, che ero lieto di informarlo che ero scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia. Allora sì, ci fu una burrasca coi fiocchi! Finì con l’ordinarmi di abbandonare l’edificio e di badare, per l’avvenire, esclusivamente ai fatti miei. Il mio primo impulso fu di farlo licenziare. Ma la cosa avrebbe danneggiato altre persone, oltre a lui, e a me non avrebbe poi giovato gran che, e così lasciai perdere.
Subito dopo andai dal Ministro della Guerra, il quale non era affatto disposto a ricevermi finché non apprese che facevo parte del governo. Se non avessi avuto per le mani un affare importante, non credo che sarei riuscito a entrare. Gli chiesi un fiammifero (stava fumando), e poi gli dichiarai che non avevo niente da ridire sulla sua difesa dei trattati di armistizio del generale Lee e dei militari suoi colleghi, ma che non potevo approvare il suo metodo di combattere gli indiani nelle Pianure. Gli dissi che combatteva a gruppi troppo isolati. Avrebbe dovuto fare in modo di radunare più indiani… radunarli in un punto comodo, dove ci fossero a disposizione viveri sufficienti per le due parti, e poi fare un massacro generale. Gli dissi che per un indiano non c’è niente di più convincente di un massacro generale. Se non d’accordo sul massacro, gli dissi, l’alternativa più sicura, per un indiano, erano sapone e istruzione. Sapone e istruzione non hanno effetto immediato come un massacro, ma alla lunga sono più letali, perché un indiano semimassacrato si può rimettere, ma se uno si prende la briga di istruirlo e di lavarlo, finisce, prima o poi, col farlo fuori. È una cosa che gli mina l’organismo; che intacca le fondamenta del suo essere. «Eccellenza,» dissi, «è giunta l’ora in cui le crudeltà più raccapriccianti sono divenute una necessità. Infliggete sapone e sillabario a ogni indiano che infesta le Praterie e annientatelo!»
Il Ministro della Guerra mi domandò se ero membro del gabinetto, e io risposi di sì. Volle sapere quale carica ricoprivo, e io gli dissi che ero scrivano al Comitato Senatoriale di Conchiliologia. Allora fui messo agli arresti per oltraggio alle autorità e privato della libertà personale per la maggior parte della giornata.
Per poco non decisi di starmene zitto, da allora in poi, e di lasciare che il governo tirasse avanti alla meno peggio. Ma il dovere mi chiamò, ed io obbedii. Feci visita al Ministro del Tesoro.
Mi domandò:
«E voi, cosa volete?»
La domanda mi fece perdere le staffe. Risposi:
«Punch al rum.»
Lui disse:
«Se avete qui affari che vi riguardano, esponeteli… e il più brevemente possibile.»
Allora dissi che mi rincresceva che egli avesse deciso di cambiare argomento così ex-abrupto, perché tale condotta era altamente offensiva per me; ma, date le circostanze, avrei lasciato correre e sarei venuto al fatto. Mi buttai quindi in un’animata discussione con lui sull’eccessiva lunghezza del suo bilancio. Gli dissi che era dispendioso, inutile, mal costruito; non conteneva brani descrittivi, né poesia, né sentimento… né eroi, né trama, né illustrazioni… nemmeno incisioni in legno. Non l’avrebbe letto nessuno, questo era evidente. Lo supplicai di non rovinarsi la reputazione col far pubblicare roba del genere. Se sperava di conquistare un giorno il successo letterario, doveva mettere nei suoi scritti più varietà. Doveva guardarsi dagli aridi dettagli. Dissi che la grande popolarità degli almanacchi era dovuta alle poesie e agli indovinelli, e che qualche indovinello qua e là nel suo bilancio preventivo ne avrebbe facilitato la vendita più di tutte le relazioni sul reddito interno che sarebbe riuscito a metterci dentro. Dissi tutte queste cose in uno spirito di straordinaria benevolenza, e ciononostante il Ministro del Tesoro fu colto da un violento accesso di furia. Arrivò persino a dire che ero un somaro. Mi ricoprì di ingiurie nel modo più implacabile, e disse che, se fossi tornato un’altra volta a impicciarmi degli affari suoi, mi avrebbe buttato dalla finestra. Io dissi che, se non fossi riuscito a farmi trattare col rispetto dovuto alle mie funzioni, avrei preso il cappello e me ne sarei andato; e me ne andai davvero. Si era comportato proprio con un autore esordiente. Questi tipi, quando buttano fuori il loro primo libro, credono sempre di saperne più di tutti gli altri. Nessuno gli può dir niente.
Per tutto il tempo che feci parte del governo parve che non potessi far niente, nelle mie funzioni ufficiali, senza cacciarmi nei guai. Eppure non facevo nulla, non tentavo nulla che non fosse, a mio giudizio, per il bene del paese. Forse era la sensazione irritante dei torti subiti a portarmi a conclusioni errate e nefaste, ma certo mi pareva che il Presidente del Consiglio, il Ministro della Guerra, il Ministro del Tesoro e gli altri miei confrères avessero, fin da principio, cospirato per estromettermi dall’amministrazione. Mentre facevo parte del governo, assistetti a una sola riunione del Consiglio. E quella mi bastò. L’usciere che stava alla porta della Casa Bianca non sembrava molto disposto a introdurmi, finché non gli ebbi chiesto se gli altri membri del Consiglio erano arrivati. Rispose di sì, e io entrai. Erano tutti lì, ma nessuno mi offrì una seggiola. Mi fissavano come se fossi un intruso. Il Presidente disse:
«E voi, signore, chi siete?».
Gli porsi il mio biglietto da visita ed egli lesse: «On. Mark Twain, scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia». Poi mi squadrò da capo a piedi, come se non mi avesse mai sentito nominare prima di allora. Il Ministro del Tesoro disse:
«È quel somaro, quel rompiscatole che è venuto a consigliarmi di mettere poesie e indovinelli nel bilancio, come se fosse un almanacco».
Il Ministro della Guerra disse: «È quel visionario che è stato da me ieri con il progetto di istruire a morte parte degli indiani e di massacrarne il resto».
Il Ministro della Marina disse: «Riconosco in questo giovanotto l’individuo che durante la settimana si è ripetutamente impicciato degli affari miei. È preoccupato perché l’ammiraglio Farragut adopera tutta una flotta per una gita di piacere, come lui la definisce. La sua proposta di una certa insensata gita di piacere con una zattera è tanto assurda che non val la pena di parlarne».
Io dissi: «Signori, scorgo qui una tendenza a gettare il discredito su ogni atto della mia carriera politica; scorgo altresì una tendenza a estromettermi dai Consigli della nazione. Oggi non mi è stato inviato alcun avviso. È stato per un puro caso che ho appreso che ci sarebbe stata una riunione del Consiglio. Ma sorvoliamo. Tutto ciò che desidero sapere è: questa è una riunione del Consiglio o no?».
Il Presidente disse che lo era.
«Allora,» dissi, «passiamo immediatamente agli affari e non perdiamo tempo prezioso in disdicevoli critiche delle nostre rispettive linee di condotta politica.»
Il Presidente del Consiglio parlò allora col suo tono benevolo, e disse: «Giovanotto, voi siete vittima di un errore. Gli scrivani dei Comitati del Congresso non sono membri del governo. E non lo sono neppure i portieri del Campidoglio, per strano che ciò possa apparire. Quindi, per quanto noi possiamo desiderare la vostra trascendente saggezza nelle nostre deliberazioni, non possiamo legalmente avvalercene. Le assemblee della nazione dovranno procedere senza di voi; se questo condurrà al disastro, come ben può avvenire, sia balsamo al vostro spirito dolente il fatto che, con la parola e con l’azione, avete fatto tutto quanto era in vostro potere per evitarlo. Abbiate la mia benedizione. Addio!».
Queste soavi parole placarono il mio animo sconvolto, e così me ne andai. Ma i servi della nazione non hanno mai riposo. Avevo appena raggiunto il mio stanzino al campidoglio, e posto i piedi sul tavolo come un rappresentante del popolo, quando uno dei senatori del Comitato Conchiliologia entrò furibondo e disse:
«Dove siete stato tutto il giorno?»
Osservai che, se la cosa poteva interessare a qualcuno, oltre a me stesso, ero stato a una riunione del Consiglio.
«A una riunione del Consiglio? Mi piacerebbe proprio sapere che c’entrate voi con una riunione del Consiglio.»
Dissi che c’ero stato per una consultazione, ammesso e non concesso che la cosa lo riguardasse menomamente. Allora lui diventò insolente, e finì col dire che mi cercava da tre giorni per farmi copiare una relazione su guscioni, gusci d’uova, gusci d’ostrica e non che altro connesso con la conchiliologia, e nessuno era riuscito a trovarmi.
Era troppo. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso scritturale. Dissi: «Signore, credete che io mi metta a lavorare per sei dollari al giorno? Se avete queste idee, permettetemi di consigliare al Comitato Senatoriale di Conchiliologia di assumere qualcun altro. Io non sono schiavo di una fazione. Riprendetevi il vostro degradante impiego. Datemi la libertà oppure la morte!».
Da quel momento non feci più parte del governo. Vilipeso dal Ministero, vilipeso dal Consiglio, vilipeso alfine dal Presidente di un comitato cui mi sforzavo di dar lustro, cedetti alla persecuzione, rigettai lungi da me le seduzioni e i rischi della mia alta carica e, nell’ora del periglio, abbandonai la patria sanguinante.
Ma avevo reso allo Stato certi servigi e mandai il conto:

STATI UNITI D’AMERICA

Dare all’On. Scrivano del Comitato Senatoriale di conchiliologia, Dr. Mark Twain:
Per consultazione con il Ministro della Marina………………………………      dollari  50
Per consultazione con il Ministro della Guerra………………………………           »      50
Per consultazione con il Ministro del Tesoro….…………………………….            »      50
Per consultazione con la Presidenza del Consiglio………………………….          (gratuita)
Per viaggi e spese per e da Gerusalemme*, via Egitto, Algeri,
Gibilterra e Cadice, miglia 14.000 a cent. 20 al miglio………......................            » 2.800
Onorario di scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia,
giorni 6 a dollari 6 al giorno…........................................................................…        »     36
                                                                                                                          ___________
                                             Totale………………………………………....     dollari 2.986

* I delegati del territorio mettono in conto i viaggi di andata e ritorno, anche se, una volta arrivati, non tornano mai indietro. Perché a me vengano negati i viaggi, proprio non riesco a capirlo

Non una sola voce di questo conto mi è stata pagata, eccetto quella miseria di trentasei dollari come onorario di scrivano. Il Ministro del Tesoro, perseguitandomi sino alla fine, cancellò con un tratto di penna tutte le altre voci e annotò semplicemente in margine: «Non concesso». E così, finalmente, la terribile alternativa è risolta. Il mio ripudio è cominciato! Il paese è perduto. Per il momento, mi sono ritirato dalla vita pubblica. Restino pure quegli scrivani che sono disposti a subire imposizioni. Ne conosco una quantità nei vari ministeri, che non vengono mai informati di quando deve aver luogo una seduta del Consiglio, e il cui parere sulla guerra, sulle finanze e sul commercio non viene chiesto, quasi non facessero parte del governo, che stanno in ufficio, un giorno dopo l’altro, e lavorano! Conoscono la propria importanza nei riguardi della nazione, e inconsciamente lo dimostrano nel contegno, nel modo di ordinare il pranzo al ristorante… ma lavorano. Ne conosco uno che deve appiccicare ogni sorta di ritagli di giornali in un album… a volte fino a otto dieci ritagli al giorno. Non lo fa bene, ma lo fa come meglio può. È un lavoro faticosissimo. Porta all’esaurimento cerebrale. Eppure è pagato solo milleottocento dollari all’anno. Con un cervello come il suo, quel giovanotto potrebbe ammucchiare migliaia e migliaia di dollari, se volesse. Ma no, il suo cuore è tutto per la patria, ed egli la servirà finché gli resterà un solo album di ritagli. E conosco scrivani che non sanno scrivere tanto bene, ma che nobilmente depongono ai piedi della patria tutto il sapere che posseggono, e sgobbano e soffrono per duemilacinquecento dollari all’anno. A volte quello che scrivono deve essere riscritto da altri scrivani, ma quando un uomo ha fatto del suo meglio per la patria, forse che la patria dovrebbe lamentarsi? E poi ci sono impiegati che non hanno impiego e aspettano aspettano aspettano che si faccia libero un posto… aspettano pazientemente l’occasione di giovare alla patria, e, mentre aspettano, ottengono, per tutta ricompensa, duemila dollari all’anno. È triste… è molto, molto triste. Quando un membro del Congresso ha un amico di talento, ma non ha a disposizione un impiego in cui le grandi capacità dell’amico si possano esplicare, lo dona alla patria e gli dà un posto in un ministero. E là quell’uomo deve faticare come uno schiavo per tutta la vita, lottare con una quantità di documenti per il bene di un paese che non pensa mai a lui, che mai ha per lui la minima comprensione… e tutto per due o tremila dollari all’anno. Quando avrò completato la mia lista di tutti gli impieghi dei vari ministeri, con la nota di quello che hanno da fare e di quello che guadagnano, vedrete che non c’è neanche la metà degli impiegati che ci vorrebbero, e quelli che ci sono non ricevono neanche la metà del salario che gli spetta.

Il Campidoglio di Washington oggi, sede del Congresso degli Stati Uniti d’America







62 Come fui redattore di un giornale agrario (di Mark Twain)




Pubblicato con il titolo ““How I Edited an Agricultural Paper Once” nel 1870 nel giornale The Galaxy, questo racconto satirico se la prende con il mondo dei giornali, dove meno uno ne sa, più vende. Credo che valga ancora oggi.

Non fu senza perplessità che assunsi temporaneamente la redazione di un giornale agrario. Non senza perplessità un abitante della terraferma prenderebbe il comando di una nave. Ma mi trovavo in circostanze che facevano della paga una mèta importante. Il vero redattore del giornale doveva partire per le vacanze, ed io accettai le condizioni da lui offertemi e presi il suo posto.
La sensazione di essere di nuovo al lavoro era grandiosa, ed io lavorai con soddisfazione costante per l’intera settimana. Il giornale andò in macchina, e per un giorno attesi, non senza ansia, di vedere se il mio sforzo avrebbe avuto qualche risonanza. Mentre lasciavo l’ufficio, verso il tramonto, un gruppo di uomini e di ragazzi ai piedi delle scale si sciolse di colpo e fece ala al mio passaggio; sentii uno o due che dicevano: «È lui!». La cosa, naturalmente, mi fece piacere. La mattina dopo trovai, ai piedi delle scale, un gruppo del genere nonché altra gente, isolata o a coppie, sparsa qua e là per la strada lungo il mio percorso, che mi osservava con interesse. Non appena mi avvicinai, il gruppo si sciolse e si trasse indietro, e sentii un uomo che diceva: «Guardategli gli occhi!». Finsi di non far caso all’attenzione che andavo destando, ma dentro di me ne ero compiaciuto e mi proponevo di scriverne un racconto a mia zia. Salii quei pochi gradini e, mentre mi avvicinavo alla porta, sentii voci allegre e una risata fragorosa; aprii la porta ed ebbi la fuggevole visione di due giovanotti – contadini, a giudicare dall’aspetto – e le cui facce, non appena mi videro, si fecero lunghe e smorte, dopodiché entrambi si buttarono dalla finestra con un gran tonfo. Restai sorpreso.
Di lì a mezz’ora un vecchio signore dalla barba fluente e dal volto nobile ed austero fece il suo ingresso, e dietro mio invito si mise a sedere. Aveva l’aria di chi è oppresso da qualche pensiero. Si levò il cappello e lo posò sul pavimento, e ne cavò un fazzoletto di seta rossa e una copia del nostro giornale.
Si posò il giornale in grembo e, mentre si puliva gli occhiali col fazzoletto, disse: «Siete voi il nuovo redattore?»
Risposi che ero proprio io.
«Avete mai diretto un giornale agrario prima d’ora?»
«No,» replicai, «questo è il mio primo tentativo.»
«Capisco. Avete qualche esperienza diretta di agricoltura?»
«No. Credo di no.»
«Un certo istinto me lo diceva,» disse il vecchio signore, infilandosi gli occhiali e sogguardandomi con asprezza, mentre ripiegava il giornale fino a ridurlo ad un formato più maneggevole. «Voglio leggervi quello che, con ogni probabilità, ha risvegliato in me quell’istinto. È stato l’articolo di fondo. Ascoltate, e vedete un po’ se l’avete scritto voi.»
«Non si dovrebbero mai strappare le rape: ciò le danneggia. Meglio mandare su un ragazzo a scuotere l’albero
«Allora che ne pensate?... perché ho proprio idea che l’abbiate scritto voi.»
«Che ne penso? Be’, penso che non è poi male. Penso che è una cosa sensata. Sono certo che ogni anno, qui in questa zona, milioni e milioni di staia di rape vanno in malora per il solo fatto di essere strappate quando non sono ancora in stato di perfetta maturazione, mentre se si mandasse su un ragazzo a dare una scrollata all’albero…»
«Una scrollata a tua nonna! Le rape non crescono sugli alberi.»
«No? Ma davvero? Be’, e chi ha detto che ci crescano? L’espressione andava presa in senso figurato, assolutamente figurato. Chiunque se ne intenda, almeno un pochino, sa che volevo dire che il ragazzo deve dare una scrollata alla vite.»
Allora il venerando vecchio si alzò, strappò il giornale riducendolo a pezzi minutissimi, li calpestò con energia, ruppe parecchi oggetti col suo bastone da passeggio e disse che io ne sapevo quanto una mucca, e anche meno; e poi se ne uscì, sbatté la porta dietro di sé e, per farla breve, si comportò in modo tale da farmi pensare che fosse seccato per qualche motivo. Ma, non sapendo che cosa mai lo turbasse, non potei essergli d’aiuto.
Non passò molto che un tipo lungo lungo, dall’aspetto cadaverico, coi capelli radi che gli pendevano giù sulle spalle, la barba di una settimana che spuntava irta di fra le alture e le vallate della sua faccia, entrò dalla porta come un razzo e si fermò immobile, un dito sulle labbra, la testa e il corpo chini nell’atteggiamento di chi sta in ascolto. Non si udiva alcun suono. Lui continuava a stare in ascolto. Nessun suono. Allora girò la chiave nella toppa e avanzò in punta di piedi, cautissimamente, verso di me, finché non giunse quasi a portata di mano; allora si fermò e, dopo aver studiato la mia faccia per un bel po’, con vivo interesse, tirò fuori una copia piegata del giornale, e disse:
«Ecco, questo l’avete scritto voi. Leggetemelo… presto! Toglietemi questo peso. Soffro.»
Lessi quanto segue; e, mentre le frasi mi uscivano dalle labbra, potevo vedere il sollievo giungere a poco a poco, potevo vedere i muscoli contratti rilassarsi e l’ansia abbandonare quel volto, e il ristoro e la pace scendere su quei lineamenti come il pietoso raggio di luna su di un paesaggio desolato:
«Il guano è un nobile volatile, ma gran cura si richiede per allevarlo. Non lo si dovrebbe importare prima di giugno e dopo settembre. D’inverno è opportuno tenerlo in un luogo caldo, di modo che i piccoli possano uscire dalle uova.
«Appare evidente che il raccolto del granoturco sarà tardivo. Perciò sarà bene che l’agricoltore cominci a metter fuori i suoi covoni e a piantare le sue focacce di grano saraceno in luglio invece che in agosto.
«A proposito della zucca. Questa bacca è prediletta dagli abitanti della parte interna del New England che nella confezione di crostate, la preferiscono all’uva spina, e che, similmente, l’antepongono ai lamponi come foraggio per le mucche, poiché più sostanziosa e altrettanto soddisfacente quanto ai risultati. La zucca è l’unico commestibile della famiglia degli aranci che attecchisca nel Nord, ad eccezione della zucca gialla e di un paio di varietà di melopopone. Ma l’usanza di piantarla nei giardini di fronte alle case, insieme agli alberelli ornamentali, va rapidamente passando di moda, poiché ormai è generalmente ammesso che, come albero ombrifero, la zucca è un fallimento.
«Ora, poiché si avvicina la stagione calda e i paperi cominciano a deporre le uova…»
L’ascoltatore, eccitatissimo, fece un balzo, corse a stringermi la mano, e disse:
«Ecco, ecco… basta così. Ora so di essere in me, perché voi l’avete letto proprio come l’ho letto io, parola per parola. Ma, o straniero, quando stamattina l’ho letto la prima volta, mi sono detto che mai, mai per il passato l’avevo creduto, benché i miei mi tenessero sotto strettissima sorveglianza, ma ora sì, lo credevo di essere pazzo; e allora ho dato in un urlo che avreste sentito a due miglia di distanza, e sono uscito per ammazzare qualcuno… perché, vedete, sapevo che presto o tardi ci sarei arrivato, e così tanto valeva cominciare subito. Ho riletto una di quelle frasi ancora una volta – così, tanto per esser ben sicuro – poi ho dato fuoco alla mia casa, e via. Ho mezzo storpiato diverse persone, e ho fatto salire un tale su un albero, dove posso acchiapparlo quando voglio. Ma ho pensato di fare una capatina qui, mentre passavo da queste parti, tanto per essere ben sicuro della cosa. Ora è sicura e posso dire che è una fortuna per il tizio che è sull’albero. Al ritorno, l’avrei certo ammazzato. Addio, addio, caro signore; mi avete tolto un gran peso dal cuore. La mia ragione ha superato la prova di uno dei vostri articoli sull’agricoltura, e so che ora nulla può sconvolgerla. Addio, signore.»
Provai un certo disagio per via degli storpiamenti e degli incendi dolosi ai quali quell’individuo si era dedicato, perché non potevo fare a meno di sentirmi, sia pure lontanissimamente, complice. Ma tali pensieri furono ben presto allontanati, perché, all’improvviso, entro il vero redattore del giornale! (Pensai dentro di me: «Ora, se te ne fossi andato in Egitto come ti avevo raccomandato, avrei avuto la possibilità di farmici un po’ la mano; ma no, non hai voluto, ed eccoti qui. In un certo senso, mi aspettavo di vederti».)
Il redattore aveva un’aria triste, perplessa e abbattuta.
Esaminò lo sfacelo che il vecchio energumeno e quei due giovani agricoltori avevano combinato, e poi fece: «Un brutto affare… un bruttissimo affare. Ecco: rotta la bottiglietta della colla… sei vetri e una sputacchiera e due candelieri. Ma questo non è tutto. Il buon nome del giornale è compromesso, e per sempre, ho paura. Vero che non c’è mai stata per il passato tanta richiesta del giornale, e che non se ne erano mai vendute tante copie, né aveva mai raggiunto, così d’un balzo, tanta celebrità… Ma chi vorrebbe essere famoso grazie alla pazzia, e prosperare grazie all’infermità mentale? Amico mio, come è vero che sono un uomo onesto, la strada qui fuori è piena di gente, e altra se ne sta appollaiata sulle staccionate in attesa di vederti sia pure per un istante, perché pensano che tu sia pazzo. E ne hanno ben donde, dopo aver letto i tuoi articoli di fondo. Sono una vergogna per il giornalismo. Ma che cosa ti ha messo in mente di essere in grado di redigere un giornale di questo genere? È chiaro che tu non conosci neppure l’abbicì dell’agricoltura. Tu parli di solco e di erpice come se si trattasse della stessa cosa; chiacchieri della stagione della muda (1) per le mucche; e consigli di addomesticare la puzzola per la sua natura amabile e vivace e la sua abilità nel cacciare i topi! La tua osservazione sui molluschi che se ne stanno tranquilli se si suona loro un po’ di musica era superflua: completamente superflua. Nulla disturba i molluschi. I molluschi se ne stanno sempre tranquilli. Ai molluschi della musica non importa un bel niente. Ah, cielo e terra, amico! se tu avessi fatto della conquista dell’ignoranza lo scopo dei tuoi studi, in tutta la tua vita, non ti saresti potuto laureare con maggior lode di quanto tu non abbia fatto oggi. Non ho mai visto niente di simile. La tua osservazione sulle castagne d’India (2) che, come genere di consumo, incontrano sempre maggior richiesta, è semplicemente fatta apposta per rovinare questo giornale. Voglio che tu ti dimetta immediatamente e te ne vada. Non ho più bisogno di vacanze; se me le prendessi, non potrei goderle. Certo non con te seduto alla mia scrivania. Vivrei nel terrore continuo di quello che potresti raccomandare alla prossima occasione. Ogniqualvolta penso alla tua dissertazione sui vivai di ostriche, sotto il titolo Il giardinaggio come arte, perdo la pazienza. Voglio che tu te ne vada. Nessuna ragione al mondo potrebbe indurmi a prendermi altre vacanze. Oh, ma perché non mi hai detto prima che non sapevi niente di agricoltura?».
«Dirlo a te, gambo di mais, testa di cavolo, figlio d’un broccolo? È la prima volta che sento un’osservazione così insensata. Ti dico che mi sono occupato di redazione di giornali per quattordici anni buoni, e questa è la prima volta che mi sento dire che uno deve sapere qualcosa per redigere un giornale. Testa di rapa! Chi scrive le critiche teatrali per i giornali di second’ordine? Eh? ex calzolai e garzoni di speziali, che di recitazione autentica ne sa quanto ne so io di agricoltura autentica, e neppure un etto di più. Chi recensisce i libri? Gente che non ne ha mai scritto uno. Chi scrive i ponderosi articoli di fondo sulla finanza? Individui che hanno avuto le più illimitate opportunità di non saper niente in proposito. Chi critica le spedizioni contro gli indiani? Dei signori che non distinguono un grido di guerra da un wigwam (3), e che non hanno mai dovuto farsi una gara podistica con un tomahawk (4), o strappare le frecce dai loro familiari per prepararci, la sera, il fuoco da campo. Chi scrive gli appelli per l’astinenza dall’alcool e leva alte proteste contro l’inebriante calice? Gente che, finché non sarà nella tomba, seguiterà, ogniqualvolta respira, a mandare zaffate di liquori. Chi pubblica giornali agrari? Tu, eh? in genere, dei falliti nel campo della poesia, nel campo del romanzo giallo, nel campo del drammone sensazionale, nel campo dei grandi quotidiani, che alla fine cercano riparo nell’agricoltura come in un rifugio temporaneo dall’ospizio per i poveri. E proprio tu vuoi insegnare – a me – come si fanno i giornali! Signore, lo conosco dall’A alla Zeta, e ti dico che, meno uno ne sa e più è il baccano che fa e più alto è lo stipendio che pretende. Se soltanto – e il cielo mi è testimone – fossi stato ignorante anziché colto, e impudente anziché riservato, avrei potuto farmi un nome in questo gelido mondo egoista. Vi saluto, caro signore. Poiché sono stato trattato come mi avete trattato, sono più che disposto ad andarmene. Ma ho fatto il mio dovere. Mi sono mantenuto fedele al mio contratto finché mi è stato possibile. Avevo detto che ero in grado di far salire la vostra tiratura a ventimila copie, e, se solo avessi avuto altre due settimane, lo avrei fatto. E vi avrei dato il miglior pubblico di lettori che un giornale agrario abbia mai avuto: senza nemmeno un contadino, né un solo individuo capace di distinguere un albero di angurie da una vigna di pesche, no, ne dovesse andare della vita. Siete voi che ci perdete, con questa rottura, non io, o pianta di torte. Adios
E poi me ne andai.

(1) muda = il cambiamento annuale delle penne degli uccelli
(2) castagne d’India = il frutto dell’ippocastano, che, pur di forma simile a una castagna, non è commestibile
(3) wigwam = la tenda a forma di cono dei pellirosse
(4) tomahawk = l’ascia da guerra dei pellirosse (la gara podistica con un tomahawk è, ovviamente, la fuga di un bianco inseguito da un indiano ostile)



venerdì 24 marzo 2017

61 Dal barbiere (di Mark Twain)



Pubblicato per la prima volta nell’agosto 1871 sul magazine “The Galaxy”, questo racconto (il cui titolo originale è “About Barbers”) racconta le disavventure di un cliente, che capita, in un negozio di barbiere, nelle mani del meno esperto dei garzoni di bottega. Con uno spirito paradossale, ma non così distante dalla realtà anche odierna.

Tutto si trasforma quaggiù, tutto, eccetto i barbieri, i modi dei barbieri e le cose che riguardano i barbieri. Queste non cambiano mai. Ciò che si prova la prima volta che si mette piede nella bottega di un barbiere è precisamente ciò che si proverà ogni altra volta fino alla fine dei nostri giorni.
Stamattina sono uscito come al solito per farmi radere. Mentre mi avvicinavo alla porta della bottega, ecco un tale che vi si stava dirigendo dalla parte opposta. Tutte le volte succede. Ho accelerato il passo; ma niente da fare, è arrivato prima lui, proprio di un soffio, e io sono dovuto entrare dietro di lui che si è subito seduto sull’unica poltrona libera, quella servita dal miglior garzone della bottega. È sempre così.
Mi sono seduto ad aspettare, sperando di ereditare la poltrona servita dal meno peggio dei due altri giovani del negozio, che vedevo già occupato a pettinare i capelli del suo cliente, mentre il collega non aveva ancor finito di lisciare e impomatare la testa del suo. Così mi sono messo a calcolare la probabilità di cadere nelle mani dell’uno o dell’altro. Quando mi sono accorto che il giovane numero due guadagnava terreno sul giovane numero uno, ho cominciato a sentirmi inquieto. Quando il numero uno si è arrestato un momento, la mia inquietudine si è trasformata in ansia. Quando il numero uno ha riacquistato un po’ di vantaggio e li ho visti tutti e due togliere gli asciugamani dal collo dei due clienti e spolverarli di borotalco, tutti e due sul punto di dire: «A chi tocca adesso?», ho trattenuto il fiato per l’angoscia.
Ma quando, nel momento decisivo, il numero uno si è attardato a dare due colpi di pettine alle sopracciglia del suo uomo e ho capito che aveva perduto la corsa, mi sono alzato indignato e sono uscito dal negozio per non cadere nelle mani del numero due. Non sono di quelli, io, che hanno l’invidiabile coraggio di guardare tranquillamente negli occhi il giovane di bottega che gli offre la poltrona e di dirgli che preferiscono aspettare che il suo collega sia libero. Così sono andato a fare due passi per un quarto d’ora e poi sono rientrato con la speranza di miglior fortuna. Naturalmente tutte le poltrone erano occupate e quattro altri clienti sedevano aspettando in silenzio, assorti e chiusi in viso, con quello sguardo annoiato che si ha sempre dal barbiere quando si aspetta il proprio turno.
Mi sono seduto sul sofà e ho cercato per un poco di ingannare il tempo leggendo i cartelloni pubblicitari delle lozioni per tingere e rinvigorire i capelli; poi le bisunte etichette delle boccette di profumi dei clienti; poi i nomi e i numeri dei catini; e per un pezzo ho studiato le vecchie stampe colorate appiccicate ai muri: battaglie, defunti presidenti della repubblica, sultane voluttuosamente sdraiate e l’eterna insopportabile ragazzina che si mette gli occhiali del nonno; e ho mandato un paio d’accidenti al brioso canarino e all’atroce pappagallo che non mancano mai nelle botteghe di barbiere. Alla fine ho cercato il meno logoro dei giornali illustrati dell’anno passato che ingombravano il sudicio tavolo centrale e ho imparato a memoria le sue bugie su avvenimenti ormai passati da un pezzo. Finalmente è venuto il mio turno. Una voce ha detto: «A chi tocca?» e io mi sono trovato nelle mani del… del numero due, naturalmente. Succede sempre così.
Gli ho detto con dolcezza che avevo molta fretta. Ne è rimasto così impressionato che credo non mi abbia nemmeno sentito. Mi ha alzato la testa, mi ha passato un asciugamano sotto la nuca, mi ha ficcato le dita nel collo per fissarvi un altro asciugamano. Poi si è messo ad esaminare i miei capelli ficcandoci dentro le unghie e ha osservato che avevano bisogno di una spuntatina. Gli ho detto che non volevo tagliarmi i capelli. Allora si è messo a studiarli di nuovo e ha deciso che erano assolutamente troppo lunghi. Gli ho detto che me li avevano appena tagliati la settimana prima. È rimasto un momento indeciso; poi mi ha chiesto con profondo disprezzo:
«Chi ve li ha tagliati?»
«Proprio voi!»
Colpito in pieno, non ha detto nulla. Si è messo a rimestare il sapone per la barba, e intanto si guardava nello specchio, fermandosi ogni tanto per studiarsi un foruncolo sulla punta del mento. Finalmente ha cominciato a insaponarmi da una parte e stava per passare dall’altra, quando è stato attirato da due cani che si azzuffavano nella strada. È corso alla finestra e c’è stato fino alla fine della scena, e con mia grandissima soddisfazione ha perso anche due scellini che aveva scommesso coi colleghi. Poi ha finito di insaponarmi col pennello e ha cominciato a stropicciarmi con le mani la faccia insaponata.
Dopo di che ha dovuto affilare il rasoio sul cuoio di una vecchia bretella e ha perso un sacco di tempo a discutere su di un ballo in maschera cui ha preso parte ieri sera, camuffato da re con un vestito di tela rossa e un mantello di ermellino di coniglio. Diceva di aver fatto girare la testa a una ragazza con le sue arie regali ed era così felice delle battute dei colleghi che cercava in tutti i modi di tirarla per le lunghe facendo finta di essere seccato delle loro allusioni.
Così ha sentito il bisogno di osservarsi con maggior compiacenza nello specchio. Ha deposto il rasoio, si è spazzolato i capelli con gran cura, ha spianato il ciuffo sulla fronte, rifatto la riga e dato un colpettino di spazzola, con grande abilità e precisione, sulle due tempie. Intanto, sulla mia faccia, il sapone si era del tutto prosciugato fino a penetrare nella pelle.
Allora ha cominciato a radermi, piantandomi le dita nelle guance per tenerle distese e sballottandomi la testa da una parte all’altra. Finché ha avuto a che fare con le guance me la sono cavata abbastanza bene, ma quando si è messo a raschiarmi, a grattare e stiracchiare il mento sono cominciati i guai. Mi ha afferrato il naso come fosse un manico per radermi meglio il labbro superiore e così ho scoperto che tra le sue mansioni ci deve essere anche quella di pulire le lampade della bottega, tanto le sue dita puzzavano di petrolio. Già mi ero chiesto altre volte chi fosse a sbrigare questa mansione, se i giovani di bottega o il padrone. Ora lo so.
Intanto cercavo di distrarmi tentando di indovinare dove mi avrebbe fatto il primo taglio; ma lui è stato più svelto di me e mi ha tagliato la punta del mento prima che io avessi risolto la questione: immediatamente si è rimesso ad affilare il rasoio. Accidenti, avrebbe potuto farlo meglio prima. Già mi piace poco farmi raschiare la pelle; ho tentato quindi di fargli deporre il rasoio perché non gli venisse in mente di passare una seconda volta sullo stesso punto e lavorarmi a modo suo la piccola graziosa ferita col risultato di rovinarmi il mento del tutto.
Mi lui mi ha risposto che desiderava soltanto pareggiare certe piccole asperità e subito ha ripassato il rasoio proprio dove temevo, col risultato che immediatamente i pori della pelle ormai troppo raschiati si son messi a bruciare maledettamente.
Lui allora ha imbevuto un asciugamano con acqua profumata e me l’ha sbattuto brutalmente in viso, come se fosse questo il modo migliore per lavare la faccia. Quindi ha cominciato a sfregarmi violentemente con la parte asciutta dell’asciugamano come se fosse questo il modo migliore per asciugarla; ma è difficile che un barbiere vi tratti da cristiano. Quindi mi ha bagnato la ferita con acqua profumata, ha cercato di stagnare il sangue con borotalco; poi ha lavato via il borotalco con nuova acqua e avrebbe certamente continuato per un pezzo a spolverarmi e a bagnarmi se non mi fossi ribellato pregandolo di smettere. Allora mi ha spolverato tutta la faccia, mi ha raddrizzato la testa, si è rimesso a scompigliarmi apposta i capelli passandoci dentro le dita e proponendomi una lavatina, di cui, secondo lui, i miei capelli avevano assoluto bisogno. Gli ho fatto osservare che me li ero lavati io stesso facendo il bagno.
Allora ha cominciato a raccomandarmi il «Glorificatore dei capelli di Smith» e mi ha proposto di comprarne una bottiglia. Ho rifiutato. Immediatamente si è messo a lodare il nuovo profumo «La delizia della toeletta di Jones» perché ne comperassi un flacone. Ho rifiutato di nuovo. Ma non si è dato per vinto e mi ha offerto uno spazzolino da denti di sua invenzione; e poiché ho detto di no, mi ha proposto un affare di temperini.
Fallito anche questo tentativo, si è rimesso all’opera, mi ha bagnato dalla testa ai piedi con lo spruzzatore, mi ha impomatato i capelli e quasi me li ha strappati dalle radici, mi ha ravviato e lisciato con la spazzola, mi ha rifatto la riga, mi ha spianato il ciuffo sulla fronte e passandomi il pettine sulle rade sopracciglia imbrattate di pomata, ha cominciato ad elencarmi le prodezze di un suo cane, un piccolo terrier nero e caffè, finché ho udito il fischio delle sirene di mezzogiorno e mi sono accorto di aver perso il treno. Lui ha strappato via l’asciugamano, mi ha spazzolato la faccia, mi ha passato il pettine di nuovo sulle sopracciglia e tutto allegro ha gridato: «A chi tocca?».
Due ore più tardi, il mio giovanotto è morto d’un colpo apoplettico. Sono impaziente che arrivi domani per vendicarmi: andrò al suo funerale.

Un negozio di barbiere nel secolo XIX




60 Una visita misteriosa (di Mark Twain)




Mark Twain, appena entrato nella sua nuova casa, riceve la visita di un esattore fiscale, scambiandolo però per un qualunque commerciante; si vanta con lui delle sue enormi rendite e solo quando l’uomo se ne va, capisce che la sua sincerità gli costerà un mucchio di soldi da pagare in tasse. Come venirne fuori? Esattamente come fanno, ancora oggi, “migliaia e migliaia dei più ricchi e più dignitosi, dei più rispettati, onorati e corteggiati uomini” del Paese (Italia compresa)!
Questo racconto (titolo originale "A Mysterious Visit") venne pubblicato nel 1870 nel giornale "Buffalo Express" e poi raccolto nel 1875 nel volume di brevi storie intitolato “Sketches New and Old”.

La prima persona che si accorse di me, quando, or non è molto, misi su casa, fu un signore che disse di essere assessore e di avere a che fare col Bilancio Interno degli Stati Uniti. Gli dissi che non avevo mai sentito parlare di quel ramo di commercio, ma che ero lieto lo stesso di vederlo… voleva accomodarsi? Egli si accomodò. Io non sapevo che dire di speciale, ma sentivo che un uomo giunto alla dignità di padron di casa deve saper fare conversazione, mostrarsi alla mano e socievole… in compagnia. E così, in mancanza d’altro da dire, gli domandai se intendeva aprire bottega in quei paraggi.
Mi disse di sì. (Io non volevo fare la figura dell’ignorante, ma avevo proprio sperato che dicesse cosa aveva da vendere.)
Mi avventurai a chiedergli: «Come vanno gli affari?». E lui rispose: «Così così».
Allora promisi che avremmo fatto una capatina da lui e che se la sua ditta ci fosse piaciuta ci saremmo serviti da lui. Egli rispose che credeva che il suo esercizio ci sarebbe piaciuto quanto bastava per farci limitare a quello; e aggiunse che non gli era mai capitato di vedere nessuno che, uscito di lì, fosse andato a scovare un altro esercente della sua categoria, una volta avute trattative d’affari con lui.
Quest’affermazione suonava alquanto presuntuosa, ma, a parte la naturale espressione di delinquenza che tutti noi abbiamo, quell’uomo aveva l’aria piuttosto per bene.
Non so di preciso come avvenne, ma a poco a poco parve che ci fondessimo e prendessimo a scorrere insieme, nella conversazione, e allora tutto andò liscio come l’olio. Parlammo, parlammo e parlammo… per lo meno io parlai; e ridemmo, ridemmo e ridemmo… per lo meno lui rise. Ma nel frattempo io conservavo la mia presenza di spirito; avevo la mia innata scaltrezza aperta a tutto vapore, come dicono i macchinisti. Ero fermamente deciso a scoprire tutto dei suoi affari, a dispetto delle sue risposte oscure; ed ero deciso a cavarglielo di bocca senza che egli neppure sospettasse a che cosa miravo. Avevo l’intenzione di intrappolarlo con un’astuzia sottilissima. Gli avrei raccontato tutto degli affari miei e, naturalmente, durante il mio seducente accesso di confidenza, egli si sarebbe tanto acceso di simpatia per me, che si sarebbe distratto e mi avrebbe raccontato tutti gli affari suoi prima di sospettare il gioco. Dissi fra me: «Figlio mio, tu non sai con che vecchia volpe hai a che fare.» Poi cominciai:
«Dunque, lei non indovinerebbe mai quanto ho fatto con le conferenze (1) quest’inverno e la primavera scorsa…»
«No… credo che non ci riuscirei a nessun costo. Vediamo, vediamo. Intorno ai duemila dollari, forse? Ma no; nossignore, non credo che possa aver fatto tanto. Diciamo millesettecento, forse?»
«Ah, ah! Lo sapevo che non avrebbe indovinato. Gli introiti delle mie conferenze, la primavera scorsa e quest’inverno, sono stati quattordicimilasettecentocinquanta dollari. Eh, che gliene pare?»
«Perbacco, è sbalorditivo… assolutamente sbalorditivo. Ne voglio prender nota. E lei dice che questo non è stato tutto?»
«Tutto? Santo cielo, c’è stato lo stipendio de L’urlo di Guerra Quotidiano (2) per quattro mesi; circa… be’ cosa ne direbbe lei di ottomila dollari circa, per esempio?»
«Cosa ne direi? Be’, direi che mi piacerebbe nuotare in un tale oceano d’abbondanza. Ottomila! Ne voglio prendere nota. Perdinci bacco! E oltre a tutto questo, dovrei credere che lei ha anche altri redditi?»
«Ah, ah, ah! ma come, lei è ancora nei sobborghi, per così dire. C’è il mio libro Gli innocenti all’estero… (3), prezzo variante dai tre dollari e cinquanta ai cinque dollari, a seconda della rilegatura. Stia a sentire. Mi guardi negli occhi. Negli ultimi quattro mesi e mezzo, per non dir nulla delle vendite precedenti, ma semplicemente negli ultimi quattro mesi e mezzo, abbiamo venduto novantacinquemila copie del libro. Novantacinquemila! Pensi un po’. Diciamo una media di quattro dollari a copia. Fa circa quattrocentomila dollari, figlio mio. A me ne viene la metà.»
«Per le disgrazie di Mosè (4). Me lo voglio scrivere. Quattordicimilasettecentocinquanta… otto… duecento. Totale, diciamo… be’, parola mia, il grandioso totale è di circa duecentotredici o quattordicimila dollari! È mai possibile?»
«Possibile? Se c’è uno sbaglio, è nell’altro senso. Duecentoquattordicimila in contanti è il mio reddito di quest’anno, se so far di conto.»
Allora quel signore si alzò per andarsene. Mi venne fatto di pensare, con un gran senso di disagio, che forse avevo fatto le mie rivelazioni per niente, oltre ad essere stato portato ad esagerarle considerevolmente dalle esclamazioni di stupore dello sconosciuto. Ma no; all’ultimo momento il signore mi porse una gran busta, dicendo che conteneva la sua pubblicità e che lì avrei trovato tutte le informazioni circa i suoi affari; e che sarebbe stato felice della mia clientela, anzi sarebbe stato fiero della clientela di un uomo dal reddito prodigioso come il mio; che spesso aveva pensato che in città ci fossero parecchi uomini facoltosi, ma che, quando venivano a trattative di affari con lui, scopriva sempre che avevano a stento di che vivere; e che, a dire il vero, era passata una tale eternità dall’ultima volta che aveva visto in faccia un uomo ricco e gli aveva parlato e l’aveva toccato con le sue mani, che a fatica si poteva tenere dall’abbracciarmi… anzi avrebbe giudicato un gran favore se gli avessi permesso di abbracciarmi.
Questo mi fece tanto piacere, che non cercai di resistere, e permisi a quello sconosciuto dal cuore semplice di buttarmi le braccia al collo e di piangere alcune lacrime di consolazione giù per la mia collottola. Poi se ne andò per la sua strada.
Non appena se ne fu andato, apersi il suo foglio di pubblicità. Lo studiai attentamente per quattro minuti. Poi chiamai la cuoca e le dissi:
«Reggimi mentre svengo! Lascia girare le cialde a Maria.»
Ah, miscredente che non era altro! La sua «pubblicità» non era che un perfido formulario per le tasse… una filza di domande impertinenti sui miei affari privati, che riempivano la maggior parte di quattro fogli protocollo in caratteri minuti… domande, mi sia permesso osservare, almanaccate con sì mirabile abilità, che l’uomo più anziano del mondo non sarebbe riuscito a capire a cosa mirassero, per la maggior parte… domande, poi, calcolate in modo da far dichiarare a una persona il suo autentico reddito non meno di quattro volte, per impedirgli di giurare il falso. Cercai una scappatoia, ma non pareva che ce ne fosse alcuna. La domanda n. 1 copriva il mio caso con tutta la generosità e tutta l’ampiezza con cui un ombrello coprirebbe un formicaio.
«Quali sono stati i vostri redditi durante il decorso anno, da qualsivoglia negozio, transazione di affari o altra occupazione, comunque svolti?»
E tale inchiesta era spalleggiata da altre tredici di natura altrettanto indiscreta, la più moderata delle quali esigeva informazioni circa eventuali furti con scasso o rapine a mano armata o incendi dolosi, o altre segrete fonti di provento da cui io avessi ricavato profitto non contemplato nella mia dichiarazione di reddito posta a fronte della domanda n. 1.
Era chiaro che lo sconosciuto mi aveva messo in grado di fare la figura dell’allocco, era chiaro, chiarissimo. Facendo leva sulla mia vanità, lo sconosciuto mi aveva portato a dichiarare un reddito di duecentoquattordicimila dollari. Per legge, mille dollari erano esenti da tassa sul reddito; era l’unico alleggerimento che riuscivo a vedere, e non che una goccia nell’oceano. In ragione del cinque per cento di legge, dovevo pagare al governo diecimilaseicentocinquanta dollari di tasse sul reddito!
Posso anche far osservare, a questo punto, che non li ho pagati.
Ho fra i miei conoscenti un uomo molto facoltoso, la cui abitazione è un palazzo, la cui mensa è regale, le cui spesi sono enormi; eppure è un uomo che non ha reddito, come ho spesso osservato dalle sue dichiarazioni fiscali; e a lui mi rivolsi per consiglio nella mia tribolazione. Egli prese il mio spaventoso incartamento, si mise gli occhiali, prese la penna e, tac!, io fui un nullatenente. E lo fece semplicemente manipolando con destrezza la lista delle «spese». Segnò tanto «per tasse governative e comunali»; tanto di «perdita per naufragio, incendio, eccetera»; tanto di «perdita su vendita di beni immobili», su «vendita di bestiame», su «canoni di affitto di cascinali», su «riparazioni, migliorie e interessi», su «onorario già tassato in precedenza come ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, della marina, della dogana», e altre cose. Riuscì a cavare riduzioni sbalorditive da tutte queste voci… da tutte quante. E quando ebbe finito, mi porse il foglio, e io vidi al primo sguardo che durante l’anno il mio reddito attivo era stato di milleduecentocinquanta dollari e quaranta centesimi.
«Ora,» aggiunse, «i mille dollari sono esenti per legge. Tutto quel che lei deve fare è andare ad affermare con giuramento la veridicità di questa dichiarazione e pagare la tassa sui duecentocinquanta dollari.»
Mentre mi faceva questo discorso, il suo figlioletto Guglielmino gli prelevò dalla tasca del gilè un biglietto di due dollari e poi si dileguò; e io scommetterei qualunque cosa che se domani il mio forestiero andasse a trovare quel ragazzino, ne ricaverebbe una falsa dichiarazione di reddito.
«E lei,» dissi, «lei, signore, calcola sempre le “spese” a questa maniera, per quanto la riguarda?»
«Sfido io! Se non fosse per queste undici clausole salvatrici, sotto la voce “spese”, ogni anno mi ridurrei alla mendicità per sostenere questo odioso e perfido governo, sfruttatore e tiranno.»
Questo signore spicca fra gli uomini più rispettabili della città, come uno dei migliori: uomini di consistenza morale, di integrità commerciale, di insospettabile illibatezza sociale… e quindi m’inchinai al suo esempio. Andai giù all’ufficio delle imposte e, sotto lo sguardo di accusa del mio antico visitatore, mi alzai e affermai con giuramento una bugia dopo l’altra, una frode dopo l’altra, una mascalzonata dopo l’altra, finché la mia anima non fu ricoperta di strati su strati di spergiuro e il rispetto di me stesso non fu in me scomparso per sempre.
Ma che importa? Non è altro che quello che fanno tutti gli anni migliaia e migliaia dei più ricchi e più dignitosi, dei più rispettati, onorati e corteggiati uomini d’America. E perciò non me ne importa niente. Non mi vergogno. Mi limiterò semplicemente, per ora, a parlar poco e ad evitare di forzar la mano, per non correre il rischio di prendere irrevocabilmente certe pessime abitudini.

(1) Mark Twain fu effettivamente anche un noto conferenziere e ben pagato.
(2) titolo di giornale inventato, ma terribilmente spassoso.
(3) titolo di una vera opera di Mark Twain, sulle impressioni di un gruppo di americani durante un viaggio in Europa.
(4) in originale “The suffering Moses”, espressione di stupore di natura biblica.