domenica 26 marzo 2017

63 Come andarono i fatti a proposito delle mie recenti dimissioni (di Mark Twain)



In questo racconto, pubblicato nel dicembre 1867 con il titolo “The Facts Concerning the Recent Resignation”, Mark Twain immagina di aver trovato lavoro come scrivano (ossia dattilografo) presso il Senato statunitense e di considerarsi, solo per questo, membro del governo: naturalmente nessuno ascolterà le sue opinioni in tema di politica.
La satira dello scrittore americano colpisce duramente i suoi obiettivi: sia il Congresso, ossia il Parlamento, le cui decisioni potrebbero condurre al disastro («come ben può avvenire»), sia la gente comune: esilaranti sono i consigli dello scrivano per sterminare gli indiani.

Ho dato le dimissioni. Pare che il governo vada avanti più o meno come prima, ma, ciononostante, gli manca un raggio della ruota. Ero scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia e ho mandato al diavolo l’impiego. Era evidente, e la vedevo con chiarezza, la tendenza da parte degli altri membri del governo a impedirmi di avere voce in capitolo negli organi consultivi della nazione, e quindi non mi è stato più possibile restare in carica e salvare, al tempo stesso, il mio orgoglio. Se dovessi raccontare nei minimi particolari tutti gli oltraggi che si sono accumulati su di me nei sei mesi in cui ho fatto parte del governo in funzione ufficiale, la narrazione riempirebbe un volume. Mi nominarono scrivano di quel Comitato di Conchiliologia, e poi non mi assegnarono un amanuense per giocarci a bigliardo. Avrei anche sopportato quel posto, pur solitario com’era, se negli altri membri del gabinetto avessi riscontrato quella cortesia che mi era dovuta. Invece no. Ogniqualvolta vedevo che il capo di un dipartimento seguiva una strada sbagliata, abbandonavo tutto quanto e andavo da lui e cercavo di riportarlo sulla retta via, come era mio dovere; e non una volta, dico una, sono stato ringraziato. Andai, con le migliori intenzioni del mondo, dal Ministro della Marina e gli dissi:
«Eccellenza, secondo me l’ammiraglio Farragut, là in Europa, non fa altro che qualche scaramuccia, un po’ qua, un po’ là: una specie di scampagnata. Ora, tutto questo andrà anche benone, ma io non la vedrei in questa luce. Se non trova da combattere sul serio, se ne torni a casa. È inutile che un uomo abbia tutta una flotta per farsi una gita di piacere. È troppo dispendioso. Sia chiaro: io non ho niente contro le gite di piacere che siano ragionevoli, che siano economiche. Per esempio, potrebbero andar giù per il Mississippi con una zattera…»
Avreste dovuto sentire che sfuriata! Roba da far pensare che io avessi commesso non so che delitto. Ma io non feci una piega. Dissi che una gita in zattera nel Mississippi era una cosa a buon mercato, piena di semplicità repubblicana e senza pericoli di sorta. Dissi che, per una tranquilla gita di piacere, non c’era niente che valesse una zattera. Allora il Ministro della Marina mi chiese chi ero; e quando gli dissi che facevo parte del governo, volle sapere in quale funzione. Risposi, senza sottolineare la stranezza della domanda da parte di un membro dello stesso governo, che ero lieto di informarlo che ero scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia. Allora sì, ci fu una burrasca coi fiocchi! Finì con l’ordinarmi di abbandonare l’edificio e di badare, per l’avvenire, esclusivamente ai fatti miei. Il mio primo impulso fu di farlo licenziare. Ma la cosa avrebbe danneggiato altre persone, oltre a lui, e a me non avrebbe poi giovato gran che, e così lasciai perdere.
Subito dopo andai dal Ministro della Guerra, il quale non era affatto disposto a ricevermi finché non apprese che facevo parte del governo. Se non avessi avuto per le mani un affare importante, non credo che sarei riuscito a entrare. Gli chiesi un fiammifero (stava fumando), e poi gli dichiarai che non avevo niente da ridire sulla sua difesa dei trattati di armistizio del generale Lee e dei militari suoi colleghi, ma che non potevo approvare il suo metodo di combattere gli indiani nelle Pianure. Gli dissi che combatteva a gruppi troppo isolati. Avrebbe dovuto fare in modo di radunare più indiani… radunarli in un punto comodo, dove ci fossero a disposizione viveri sufficienti per le due parti, e poi fare un massacro generale. Gli dissi che per un indiano non c’è niente di più convincente di un massacro generale. Se non d’accordo sul massacro, gli dissi, l’alternativa più sicura, per un indiano, erano sapone e istruzione. Sapone e istruzione non hanno effetto immediato come un massacro, ma alla lunga sono più letali, perché un indiano semimassacrato si può rimettere, ma se uno si prende la briga di istruirlo e di lavarlo, finisce, prima o poi, col farlo fuori. È una cosa che gli mina l’organismo; che intacca le fondamenta del suo essere. «Eccellenza,» dissi, «è giunta l’ora in cui le crudeltà più raccapriccianti sono divenute una necessità. Infliggete sapone e sillabario a ogni indiano che infesta le Praterie e annientatelo!»
Il Ministro della Guerra mi domandò se ero membro del gabinetto, e io risposi di sì. Volle sapere quale carica ricoprivo, e io gli dissi che ero scrivano al Comitato Senatoriale di Conchiliologia. Allora fui messo agli arresti per oltraggio alle autorità e privato della libertà personale per la maggior parte della giornata.
Per poco non decisi di starmene zitto, da allora in poi, e di lasciare che il governo tirasse avanti alla meno peggio. Ma il dovere mi chiamò, ed io obbedii. Feci visita al Ministro del Tesoro.
Mi domandò:
«E voi, cosa volete?»
La domanda mi fece perdere le staffe. Risposi:
«Punch al rum.»
Lui disse:
«Se avete qui affari che vi riguardano, esponeteli… e il più brevemente possibile.»
Allora dissi che mi rincresceva che egli avesse deciso di cambiare argomento così ex-abrupto, perché tale condotta era altamente offensiva per me; ma, date le circostanze, avrei lasciato correre e sarei venuto al fatto. Mi buttai quindi in un’animata discussione con lui sull’eccessiva lunghezza del suo bilancio. Gli dissi che era dispendioso, inutile, mal costruito; non conteneva brani descrittivi, né poesia, né sentimento… né eroi, né trama, né illustrazioni… nemmeno incisioni in legno. Non l’avrebbe letto nessuno, questo era evidente. Lo supplicai di non rovinarsi la reputazione col far pubblicare roba del genere. Se sperava di conquistare un giorno il successo letterario, doveva mettere nei suoi scritti più varietà. Doveva guardarsi dagli aridi dettagli. Dissi che la grande popolarità degli almanacchi era dovuta alle poesie e agli indovinelli, e che qualche indovinello qua e là nel suo bilancio preventivo ne avrebbe facilitato la vendita più di tutte le relazioni sul reddito interno che sarebbe riuscito a metterci dentro. Dissi tutte queste cose in uno spirito di straordinaria benevolenza, e ciononostante il Ministro del Tesoro fu colto da un violento accesso di furia. Arrivò persino a dire che ero un somaro. Mi ricoprì di ingiurie nel modo più implacabile, e disse che, se fossi tornato un’altra volta a impicciarmi degli affari suoi, mi avrebbe buttato dalla finestra. Io dissi che, se non fossi riuscito a farmi trattare col rispetto dovuto alle mie funzioni, avrei preso il cappello e me ne sarei andato; e me ne andai davvero. Si era comportato proprio con un autore esordiente. Questi tipi, quando buttano fuori il loro primo libro, credono sempre di saperne più di tutti gli altri. Nessuno gli può dir niente.
Per tutto il tempo che feci parte del governo parve che non potessi far niente, nelle mie funzioni ufficiali, senza cacciarmi nei guai. Eppure non facevo nulla, non tentavo nulla che non fosse, a mio giudizio, per il bene del paese. Forse era la sensazione irritante dei torti subiti a portarmi a conclusioni errate e nefaste, ma certo mi pareva che il Presidente del Consiglio, il Ministro della Guerra, il Ministro del Tesoro e gli altri miei confrères avessero, fin da principio, cospirato per estromettermi dall’amministrazione. Mentre facevo parte del governo, assistetti a una sola riunione del Consiglio. E quella mi bastò. L’usciere che stava alla porta della Casa Bianca non sembrava molto disposto a introdurmi, finché non gli ebbi chiesto se gli altri membri del Consiglio erano arrivati. Rispose di sì, e io entrai. Erano tutti lì, ma nessuno mi offrì una seggiola. Mi fissavano come se fossi un intruso. Il Presidente disse:
«E voi, signore, chi siete?».
Gli porsi il mio biglietto da visita ed egli lesse: «On. Mark Twain, scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia». Poi mi squadrò da capo a piedi, come se non mi avesse mai sentito nominare prima di allora. Il Ministro del Tesoro disse:
«È quel somaro, quel rompiscatole che è venuto a consigliarmi di mettere poesie e indovinelli nel bilancio, come se fosse un almanacco».
Il Ministro della Guerra disse: «È quel visionario che è stato da me ieri con il progetto di istruire a morte parte degli indiani e di massacrarne il resto».
Il Ministro della Marina disse: «Riconosco in questo giovanotto l’individuo che durante la settimana si è ripetutamente impicciato degli affari miei. È preoccupato perché l’ammiraglio Farragut adopera tutta una flotta per una gita di piacere, come lui la definisce. La sua proposta di una certa insensata gita di piacere con una zattera è tanto assurda che non val la pena di parlarne».
Io dissi: «Signori, scorgo qui una tendenza a gettare il discredito su ogni atto della mia carriera politica; scorgo altresì una tendenza a estromettermi dai Consigli della nazione. Oggi non mi è stato inviato alcun avviso. È stato per un puro caso che ho appreso che ci sarebbe stata una riunione del Consiglio. Ma sorvoliamo. Tutto ciò che desidero sapere è: questa è una riunione del Consiglio o no?».
Il Presidente disse che lo era.
«Allora,» dissi, «passiamo immediatamente agli affari e non perdiamo tempo prezioso in disdicevoli critiche delle nostre rispettive linee di condotta politica.»
Il Presidente del Consiglio parlò allora col suo tono benevolo, e disse: «Giovanotto, voi siete vittima di un errore. Gli scrivani dei Comitati del Congresso non sono membri del governo. E non lo sono neppure i portieri del Campidoglio, per strano che ciò possa apparire. Quindi, per quanto noi possiamo desiderare la vostra trascendente saggezza nelle nostre deliberazioni, non possiamo legalmente avvalercene. Le assemblee della nazione dovranno procedere senza di voi; se questo condurrà al disastro, come ben può avvenire, sia balsamo al vostro spirito dolente il fatto che, con la parola e con l’azione, avete fatto tutto quanto era in vostro potere per evitarlo. Abbiate la mia benedizione. Addio!».
Queste soavi parole placarono il mio animo sconvolto, e così me ne andai. Ma i servi della nazione non hanno mai riposo. Avevo appena raggiunto il mio stanzino al campidoglio, e posto i piedi sul tavolo come un rappresentante del popolo, quando uno dei senatori del Comitato Conchiliologia entrò furibondo e disse:
«Dove siete stato tutto il giorno?»
Osservai che, se la cosa poteva interessare a qualcuno, oltre a me stesso, ero stato a una riunione del Consiglio.
«A una riunione del Consiglio? Mi piacerebbe proprio sapere che c’entrate voi con una riunione del Consiglio.»
Dissi che c’ero stato per una consultazione, ammesso e non concesso che la cosa lo riguardasse menomamente. Allora lui diventò insolente, e finì col dire che mi cercava da tre giorni per farmi copiare una relazione su guscioni, gusci d’uova, gusci d’ostrica e non che altro connesso con la conchiliologia, e nessuno era riuscito a trovarmi.
Era troppo. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso scritturale. Dissi: «Signore, credete che io mi metta a lavorare per sei dollari al giorno? Se avete queste idee, permettetemi di consigliare al Comitato Senatoriale di Conchiliologia di assumere qualcun altro. Io non sono schiavo di una fazione. Riprendetevi il vostro degradante impiego. Datemi la libertà oppure la morte!».
Da quel momento non feci più parte del governo. Vilipeso dal Ministero, vilipeso dal Consiglio, vilipeso alfine dal Presidente di un comitato cui mi sforzavo di dar lustro, cedetti alla persecuzione, rigettai lungi da me le seduzioni e i rischi della mia alta carica e, nell’ora del periglio, abbandonai la patria sanguinante.
Ma avevo reso allo Stato certi servigi e mandai il conto:

STATI UNITI D’AMERICA

Dare all’On. Scrivano del Comitato Senatoriale di conchiliologia, Dr. Mark Twain:
Per consultazione con il Ministro della Marina………………………………      dollari  50
Per consultazione con il Ministro della Guerra………………………………           »      50
Per consultazione con il Ministro del Tesoro….…………………………….            »      50
Per consultazione con la Presidenza del Consiglio………………………….          (gratuita)
Per viaggi e spese per e da Gerusalemme*, via Egitto, Algeri,
Gibilterra e Cadice, miglia 14.000 a cent. 20 al miglio………......................            » 2.800
Onorario di scrivano del Comitato Senatoriale di Conchiliologia,
giorni 6 a dollari 6 al giorno…........................................................................…        »     36
                                                                                                                          ___________
                                             Totale………………………………………....     dollari 2.986

* I delegati del territorio mettono in conto i viaggi di andata e ritorno, anche se, una volta arrivati, non tornano mai indietro. Perché a me vengano negati i viaggi, proprio non riesco a capirlo

Non una sola voce di questo conto mi è stata pagata, eccetto quella miseria di trentasei dollari come onorario di scrivano. Il Ministro del Tesoro, perseguitandomi sino alla fine, cancellò con un tratto di penna tutte le altre voci e annotò semplicemente in margine: «Non concesso». E così, finalmente, la terribile alternativa è risolta. Il mio ripudio è cominciato! Il paese è perduto. Per il momento, mi sono ritirato dalla vita pubblica. Restino pure quegli scrivani che sono disposti a subire imposizioni. Ne conosco una quantità nei vari ministeri, che non vengono mai informati di quando deve aver luogo una seduta del Consiglio, e il cui parere sulla guerra, sulle finanze e sul commercio non viene chiesto, quasi non facessero parte del governo, che stanno in ufficio, un giorno dopo l’altro, e lavorano! Conoscono la propria importanza nei riguardi della nazione, e inconsciamente lo dimostrano nel contegno, nel modo di ordinare il pranzo al ristorante… ma lavorano. Ne conosco uno che deve appiccicare ogni sorta di ritagli di giornali in un album… a volte fino a otto dieci ritagli al giorno. Non lo fa bene, ma lo fa come meglio può. È un lavoro faticosissimo. Porta all’esaurimento cerebrale. Eppure è pagato solo milleottocento dollari all’anno. Con un cervello come il suo, quel giovanotto potrebbe ammucchiare migliaia e migliaia di dollari, se volesse. Ma no, il suo cuore è tutto per la patria, ed egli la servirà finché gli resterà un solo album di ritagli. E conosco scrivani che non sanno scrivere tanto bene, ma che nobilmente depongono ai piedi della patria tutto il sapere che posseggono, e sgobbano e soffrono per duemilacinquecento dollari all’anno. A volte quello che scrivono deve essere riscritto da altri scrivani, ma quando un uomo ha fatto del suo meglio per la patria, forse che la patria dovrebbe lamentarsi? E poi ci sono impiegati che non hanno impiego e aspettano aspettano aspettano che si faccia libero un posto… aspettano pazientemente l’occasione di giovare alla patria, e, mentre aspettano, ottengono, per tutta ricompensa, duemila dollari all’anno. È triste… è molto, molto triste. Quando un membro del Congresso ha un amico di talento, ma non ha a disposizione un impiego in cui le grandi capacità dell’amico si possano esplicare, lo dona alla patria e gli dà un posto in un ministero. E là quell’uomo deve faticare come uno schiavo per tutta la vita, lottare con una quantità di documenti per il bene di un paese che non pensa mai a lui, che mai ha per lui la minima comprensione… e tutto per due o tremila dollari all’anno. Quando avrò completato la mia lista di tutti gli impieghi dei vari ministeri, con la nota di quello che hanno da fare e di quello che guadagnano, vedrete che non c’è neanche la metà degli impiegati che ci vorrebbero, e quelli che ci sono non ricevono neanche la metà del salario che gli spetta.

Il Campidoglio di Washington oggi, sede del Congresso degli Stati Uniti d’America







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