venerdì 24 marzo 2017

61 Dal barbiere (di Mark Twain)



Pubblicato per la prima volta nell’agosto 1871 sul magazine “The Galaxy”, questo racconto (il cui titolo originale è “About Barbers”) racconta le disavventure di un cliente, che capita, in un negozio di barbiere, nelle mani del meno esperto dei garzoni di bottega. Con uno spirito paradossale, ma non così distante dalla realtà anche odierna.

Tutto si trasforma quaggiù, tutto, eccetto i barbieri, i modi dei barbieri e le cose che riguardano i barbieri. Queste non cambiano mai. Ciò che si prova la prima volta che si mette piede nella bottega di un barbiere è precisamente ciò che si proverà ogni altra volta fino alla fine dei nostri giorni.
Stamattina sono uscito come al solito per farmi radere. Mentre mi avvicinavo alla porta della bottega, ecco un tale che vi si stava dirigendo dalla parte opposta. Tutte le volte succede. Ho accelerato il passo; ma niente da fare, è arrivato prima lui, proprio di un soffio, e io sono dovuto entrare dietro di lui che si è subito seduto sull’unica poltrona libera, quella servita dal miglior garzone della bottega. È sempre così.
Mi sono seduto ad aspettare, sperando di ereditare la poltrona servita dal meno peggio dei due altri giovani del negozio, che vedevo già occupato a pettinare i capelli del suo cliente, mentre il collega non aveva ancor finito di lisciare e impomatare la testa del suo. Così mi sono messo a calcolare la probabilità di cadere nelle mani dell’uno o dell’altro. Quando mi sono accorto che il giovane numero due guadagnava terreno sul giovane numero uno, ho cominciato a sentirmi inquieto. Quando il numero uno si è arrestato un momento, la mia inquietudine si è trasformata in ansia. Quando il numero uno ha riacquistato un po’ di vantaggio e li ho visti tutti e due togliere gli asciugamani dal collo dei due clienti e spolverarli di borotalco, tutti e due sul punto di dire: «A chi tocca adesso?», ho trattenuto il fiato per l’angoscia.
Ma quando, nel momento decisivo, il numero uno si è attardato a dare due colpi di pettine alle sopracciglia del suo uomo e ho capito che aveva perduto la corsa, mi sono alzato indignato e sono uscito dal negozio per non cadere nelle mani del numero due. Non sono di quelli, io, che hanno l’invidiabile coraggio di guardare tranquillamente negli occhi il giovane di bottega che gli offre la poltrona e di dirgli che preferiscono aspettare che il suo collega sia libero. Così sono andato a fare due passi per un quarto d’ora e poi sono rientrato con la speranza di miglior fortuna. Naturalmente tutte le poltrone erano occupate e quattro altri clienti sedevano aspettando in silenzio, assorti e chiusi in viso, con quello sguardo annoiato che si ha sempre dal barbiere quando si aspetta il proprio turno.
Mi sono seduto sul sofà e ho cercato per un poco di ingannare il tempo leggendo i cartelloni pubblicitari delle lozioni per tingere e rinvigorire i capelli; poi le bisunte etichette delle boccette di profumi dei clienti; poi i nomi e i numeri dei catini; e per un pezzo ho studiato le vecchie stampe colorate appiccicate ai muri: battaglie, defunti presidenti della repubblica, sultane voluttuosamente sdraiate e l’eterna insopportabile ragazzina che si mette gli occhiali del nonno; e ho mandato un paio d’accidenti al brioso canarino e all’atroce pappagallo che non mancano mai nelle botteghe di barbiere. Alla fine ho cercato il meno logoro dei giornali illustrati dell’anno passato che ingombravano il sudicio tavolo centrale e ho imparato a memoria le sue bugie su avvenimenti ormai passati da un pezzo. Finalmente è venuto il mio turno. Una voce ha detto: «A chi tocca?» e io mi sono trovato nelle mani del… del numero due, naturalmente. Succede sempre così.
Gli ho detto con dolcezza che avevo molta fretta. Ne è rimasto così impressionato che credo non mi abbia nemmeno sentito. Mi ha alzato la testa, mi ha passato un asciugamano sotto la nuca, mi ha ficcato le dita nel collo per fissarvi un altro asciugamano. Poi si è messo ad esaminare i miei capelli ficcandoci dentro le unghie e ha osservato che avevano bisogno di una spuntatina. Gli ho detto che non volevo tagliarmi i capelli. Allora si è messo a studiarli di nuovo e ha deciso che erano assolutamente troppo lunghi. Gli ho detto che me li avevano appena tagliati la settimana prima. È rimasto un momento indeciso; poi mi ha chiesto con profondo disprezzo:
«Chi ve li ha tagliati?»
«Proprio voi!»
Colpito in pieno, non ha detto nulla. Si è messo a rimestare il sapone per la barba, e intanto si guardava nello specchio, fermandosi ogni tanto per studiarsi un foruncolo sulla punta del mento. Finalmente ha cominciato a insaponarmi da una parte e stava per passare dall’altra, quando è stato attirato da due cani che si azzuffavano nella strada. È corso alla finestra e c’è stato fino alla fine della scena, e con mia grandissima soddisfazione ha perso anche due scellini che aveva scommesso coi colleghi. Poi ha finito di insaponarmi col pennello e ha cominciato a stropicciarmi con le mani la faccia insaponata.
Dopo di che ha dovuto affilare il rasoio sul cuoio di una vecchia bretella e ha perso un sacco di tempo a discutere su di un ballo in maschera cui ha preso parte ieri sera, camuffato da re con un vestito di tela rossa e un mantello di ermellino di coniglio. Diceva di aver fatto girare la testa a una ragazza con le sue arie regali ed era così felice delle battute dei colleghi che cercava in tutti i modi di tirarla per le lunghe facendo finta di essere seccato delle loro allusioni.
Così ha sentito il bisogno di osservarsi con maggior compiacenza nello specchio. Ha deposto il rasoio, si è spazzolato i capelli con gran cura, ha spianato il ciuffo sulla fronte, rifatto la riga e dato un colpettino di spazzola, con grande abilità e precisione, sulle due tempie. Intanto, sulla mia faccia, il sapone si era del tutto prosciugato fino a penetrare nella pelle.
Allora ha cominciato a radermi, piantandomi le dita nelle guance per tenerle distese e sballottandomi la testa da una parte all’altra. Finché ha avuto a che fare con le guance me la sono cavata abbastanza bene, ma quando si è messo a raschiarmi, a grattare e stiracchiare il mento sono cominciati i guai. Mi ha afferrato il naso come fosse un manico per radermi meglio il labbro superiore e così ho scoperto che tra le sue mansioni ci deve essere anche quella di pulire le lampade della bottega, tanto le sue dita puzzavano di petrolio. Già mi ero chiesto altre volte chi fosse a sbrigare questa mansione, se i giovani di bottega o il padrone. Ora lo so.
Intanto cercavo di distrarmi tentando di indovinare dove mi avrebbe fatto il primo taglio; ma lui è stato più svelto di me e mi ha tagliato la punta del mento prima che io avessi risolto la questione: immediatamente si è rimesso ad affilare il rasoio. Accidenti, avrebbe potuto farlo meglio prima. Già mi piace poco farmi raschiare la pelle; ho tentato quindi di fargli deporre il rasoio perché non gli venisse in mente di passare una seconda volta sullo stesso punto e lavorarmi a modo suo la piccola graziosa ferita col risultato di rovinarmi il mento del tutto.
Mi lui mi ha risposto che desiderava soltanto pareggiare certe piccole asperità e subito ha ripassato il rasoio proprio dove temevo, col risultato che immediatamente i pori della pelle ormai troppo raschiati si son messi a bruciare maledettamente.
Lui allora ha imbevuto un asciugamano con acqua profumata e me l’ha sbattuto brutalmente in viso, come se fosse questo il modo migliore per lavare la faccia. Quindi ha cominciato a sfregarmi violentemente con la parte asciutta dell’asciugamano come se fosse questo il modo migliore per asciugarla; ma è difficile che un barbiere vi tratti da cristiano. Quindi mi ha bagnato la ferita con acqua profumata, ha cercato di stagnare il sangue con borotalco; poi ha lavato via il borotalco con nuova acqua e avrebbe certamente continuato per un pezzo a spolverarmi e a bagnarmi se non mi fossi ribellato pregandolo di smettere. Allora mi ha spolverato tutta la faccia, mi ha raddrizzato la testa, si è rimesso a scompigliarmi apposta i capelli passandoci dentro le dita e proponendomi una lavatina, di cui, secondo lui, i miei capelli avevano assoluto bisogno. Gli ho fatto osservare che me li ero lavati io stesso facendo il bagno.
Allora ha cominciato a raccomandarmi il «Glorificatore dei capelli di Smith» e mi ha proposto di comprarne una bottiglia. Ho rifiutato. Immediatamente si è messo a lodare il nuovo profumo «La delizia della toeletta di Jones» perché ne comperassi un flacone. Ho rifiutato di nuovo. Ma non si è dato per vinto e mi ha offerto uno spazzolino da denti di sua invenzione; e poiché ho detto di no, mi ha proposto un affare di temperini.
Fallito anche questo tentativo, si è rimesso all’opera, mi ha bagnato dalla testa ai piedi con lo spruzzatore, mi ha impomatato i capelli e quasi me li ha strappati dalle radici, mi ha ravviato e lisciato con la spazzola, mi ha rifatto la riga, mi ha spianato il ciuffo sulla fronte e passandomi il pettine sulle rade sopracciglia imbrattate di pomata, ha cominciato ad elencarmi le prodezze di un suo cane, un piccolo terrier nero e caffè, finché ho udito il fischio delle sirene di mezzogiorno e mi sono accorto di aver perso il treno. Lui ha strappato via l’asciugamano, mi ha spazzolato la faccia, mi ha passato il pettine di nuovo sulle sopracciglia e tutto allegro ha gridato: «A chi tocca?».
Due ore più tardi, il mio giovanotto è morto d’un colpo apoplettico. Sono impaziente che arrivi domani per vendicarmi: andrò al suo funerale.

Un negozio di barbiere nel secolo XIX




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