venerdì 29 settembre 2017

115 In morte del fratello Giovanni (di Ugo Foscolo)



Questo sonetto fu composto nel 1802 in memoria del fratello Giovanni Dionigi, che si uccise con una pugnalata, in presenza della madre, dopo che venne scoperto e denunciato per un furto di denaro dalle casse militari dell’esercito cisalpino (nel quale era ufficiale), con cui intendeva riparare un grosso debito di gioco. Pur nella tonalità tragica del contenuto (il suicidio del fratello, il desiderio del Foscolo stesso di uccidersi, la disperazione tempestosa del vivere), si sente un’intima e dolce mestizia, che si accentra soprattutto nella figura della madre, comunque legata d’amore ai propri figli, quello morto e quello lontano.

Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentili anni caduto.

La madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,

sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quïete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l'ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.

PARAFRASI:

Un giorno, se non andrò sempre fuggendo
di gente in gente [allude alle continue peregrinazioni in varie città italiane], mi vedrai seduto
sulla tua tomba, fratello mio, gemendo
il fiore reciso dei tuoi anni gentili [la tua vita spezzata quand’era ancora in fiore].

Ora la madre sola, trascinando la sua stanca vecchiezza [in realtà aveva solo 55 anni],
parla di me con la tua cenere muta [perché non può dare risposte]:
ma io tendo le mani deluse [quasi in un’inutile preghiera] verso di voi;
e se da lontano saluto i miei tetti [quelli veneziani; Foscolo si trovava allora a Milano]

sento gli dei che mi sono avversi, e quei segreti
affanni che furono come una tempesta per la tua vita,
e anch’io prego [di trovare] pace nel tuo porto [quello della morte].

Questo mi resta oggi di tante speranze [provate un tempo]!
O genti straniere [presso le quali presagisce di morire], restituite allora
le mie ossa al petto della mia triste madre.



giovedì 28 settembre 2017

114 Alla Musa (di Ugo Foscolo



È il primo dei sonetti maggiori, scritti fra il 1802 e il 1803. Il poeta esprime qui una profonda delusione nei confronti della vita, ancor maggiore in quanto gli viene a mancare la sorgente dell’ispirazione poetica, un tempo abbondante ed ora ridotta a una favilla. Il concetto, espresso in modi intimi e pacati, trascende il dato autobiografico e sembra diventare una riflessione sul destino comune a tutti gli uomini, che, attraverso il dolore, si dirigono tutti verso la riva muta della morte.

Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, aonia Diva,
quando de' miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto

questa che meco per la via del pianto
scende di Lete vèr la muta riva:
non udito or t'invoco, oimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva.

E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco:

però mi accorgo, e mel ridice Amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.

PARAFRASI:

Eppure tu riversavi abbondanza vitale [alma = che nutre] di canto
sulle mie labbra una volta, Musa dell’Aonia [regione della Beozia sacra alle Muse],
quando passava fuggente la prima stagione
dei miei anni fiorenti [la giovinezza], e dietro le veniva intanto

questa che con me lungo la via del pianto
scende verso la muta riva del Lete [il fiume dell’oblio e della morte]:
ora t’invoco ma non sono udito, ahimè! soltanto
una favilla del tuo spirito è viva.

E tu sei fuggita in compagnia delle ore [del tempo che passa],
o Dea! tu mi lasci continuamente alle pensose
rimembranze [del tempo passato], e al timore cieco [oscuro, imprevedibile] del futuro:

però mi accorgo, e Amore me lo ripete,
che le scarse e faticose [o elaborate] rime [che scrivo] non possono
dar sfogo al dolore che deve dimorare con me.



mercoledì 27 settembre 2017

113 A Zacinto (di Ugo Foscolo)



Il sonetto, composto probabilmente tra l’agosto 1802 e l’aprile 1803, è dedicato a Zante (Zacinto con espressione grecizzante), l’isola nel Mar Ionio dove Foscolo nacque. È la sua patria reale, dunque, ma è anche una patria ideale, osservata con nostalgia, come facevano altri romantici europei che vedevano nella Grecia classica l’espressione suprema della bellezza (la figura di Venere) e dei più alti valori umani (la poesia di Omero). In Ulisse, inoltre, Foscolo vede se stesso, esule, destinato a morire lontano da ogni affetto familiare, avversato dagli uomini e dalla fortuna. 

Nè più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e féa quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio,
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

PARAFRASI:

Non toccherò mai più le sponde sacre
dove giacque [nella culla] il mio corpo di bambino,
mia Zacinto, che ti rifletti come in uno specchio nelle onde
del mare greco da cui nacque giovinetta

Venere, che rese quelle isole feconde
con il suo primo sorriso, e per questo non poté non parlare
delle tue limpide nubi e della tua vegetazione
l’illustre poesia di colui che cantò

le acque fatali, e l’esilio errabondo,
in seguito ai quali bello di fama e di sventura
Ulisse baciò [infine] la sua Itaca rocciosa.

Tu non avrai altro che il canto del figlio,
o materna terra mia; a me il destino
ha prescritto una sepoltura senza lacrime [su cui nessuno verserà lacrime, quindi abbandonata, solitaria].








112 Alla sera (di Ugo Foscolo)



Scritto nel 1803, questo sonetto venne collocato dal Foscolo come primo nell’edizione definitiva delle poesie. L’invocazione alla sera non è un tema nuovo nella tradizione letteraria, ma il Foscolo lo rende personale, sia con il riferimento alla propria contemporaneità (il “reo tempo”, cioè il secolo in cui vive), sia con il richiamo esplicito al materialismo (il “nulla eterno”) che faceva parte della formazione ideologica del poeta. È considerato il più bel sonetto foscoliano e uno dei maggiori della letteratura italiana, malgrado il tema doloroso della morte, vista però come il raggiungimento di una suprema pace spirituale.

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago, a me sì cara vieni,
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor söavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

PARAFRASI:

Forse perché tu sei l’immagine della quiete
fatale [la morte], a me vieni così cara,
o Sera! Sia quanto ti fanno lieto corteggio
le nubi estive e i zeffiri sereni,

sia quando dall’aria satura di neve porti
all’universo tenebre inquietanti e durature,
sempre scendi invocata, e le segrete
vie del mio cuore pervadi soavemente.

Mi fai vagare con i miei pensieri sulle orme
che conducono al nulla eterno; e intanto questo tempo
doloroso fugge, e con lui se ne vanno le schiere

delle angosce con le quali esso si consuma assieme a me;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerriero che mi ruggisce dentro.







martedì 26 settembre 2017

111 Solcata ho fronte, occhi incavati intenti (di Ugo Foscolo)



Questo sonetto è una descrizione autobiografica dell’autore, che si presenta fisicamente (in modo complessivamente positivo, pur con qualche elemento d’imperfezione: gli occhi infossati, le guance pallide) e soprattutto caratterialmente; da questo punto di vista Foscolo sottolinea sia le sue virtù (prontezza di parola e di pensiero, lealtà, generosità, franchezza, ecc…), sia i suoi difetti (l’iracondia, la mestizia che lo rende solitario, l’inquietudine). Ne viene fuori il ritratto di un eroe romantico, che rifiuta il mondo, dal quale è a sua volta rifiutato, e di un uomo pieno di contraddizioni, che crede nella ragione ma segue l’istinto. Come spesso nella sua opera, infine, esalta la morte, perché soltanto in essa egli troverà quiete e fama.

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto;

giuste membra; vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:

talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquieto, tenace:

di vizi ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo.

PARAFRASI:

Ho la fronte solcata [dalle rughe], gli occhi incavati intensi,
i capelli rossi, le guance emaciate, l’aspetto fiero,
il labbro carnoso e di colore acceso, e i denti bianchi,
il capo chino, un bel collo, e un largo petto;

le membra proporzionate; il vestire semplice e curato;
veloci i passi, i pensieri, gli atti, il parlare;
[sono] sobrio, umano, leale, generoso, schietto;
avverso al mondo, come avversi a me sono gli eventi:

talvolta audace di lingua, e spesso con le mani;
la maggior parte dei giorni sono mesto e solo, sempre pensoso,
guardingo, facile all’ira, inquieto, tenace:

ricco di vizi e di virtù, ammiro
la ragione, ma corro dove piace al cuore [mi lascio guidare dai sentimenti]:
solo la morte mi darà gloria e riposo.

110 Meritamente, però ch'io potei (di Ugo Foscolo)



Il sonetto contiene i consueti riferimenti autobiografici che troviamo spesso nelle opere del Foscolo: il pianto d'amore (questa volta per una donna che egli ha abbandonato, poiché ha scelto di lasciare l'Italia), l'esilio presso genti odiose (forse i francesi che non hanno dato all'Italia quella libertà che avevano promesso ed ora, perciò, sono detti spergiuri), la natura tumultuosa che esprime con le sue caratteristiche (onde che si infrangono sui monti costieri, ostili venti tirrenici, eterne oscure foreste) gli stati d'animo del poeta, egli stesso ridotto alla condizione di animale selvaggio, che meritatamente viene punito per l'errore fatto di abbandonare colei il cui amore non lo lascerà neanche dopo la morte.

Meritamente, però ch'io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton l'alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i venti.

Sperai, poiché mi han tratto uomini e dei
in lungo esilio fra spergiure genti
dal bel paese ove or meni sì rei,
me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,

sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
rupi ch'io varco anelando, e le eterne
ov'io qual fiera dormo atre foreste,

sarien ristoro al mio cor sanguinente;
ahi vota speme! Amor fra l'ombre inferne
seguirammi immortale, onnipotente.

PARAFRASI:

Meritevolmente, dato che ho potuto
abbandonarti, ora grido alle frementi
onde che battono le rocce alpine [forse quelle liguri], e i sordi [insensibili al mio dolore]
venti del Tirreno sperdono miei pianti.

Sperai, poiché uomini e Dei mi han condotto
a un lungo esilio fra genti spergiure [forse allusione ai francesi]
dal bel paese dove tu ora, rimpiangendomi,
conduci così tristi i tuoi giorni fiorenti,

sperai che il tempo, e le tristi vicende [che mi sono accadute], e queste
rupi che valico sospirando, e le eterne
buie foreste dov’io dormo come un animale selvatico,

fossero di conforto al mio cuore sanguinante;
ah speranza inutile! Amore fra le ombre infernali [dell’oltretomba]
mi seguirà immortale, onnipotente.



lunedì 25 settembre 2017

109 Così gl'interi giorni in lungo incerto (di Ugo Foscolo)



Anche questo sonetto fu scritto (forse nel 1801) per Isabella Roncioni, qui presentata come causa d’un amore infelice, che provoca una dolente solitudine. Pur non perfetto (l’ultima terzina è generica e l’ultimo verso è preso tale e quale da un mediocre poeta contemporaneo, Luigi Lamberti) questo sonetto rispetto ai precedenti appare più maturo, poiché certi accorgimenti stilistici (l’avverbio che apre il componimento, il ricorso a numerosi enjambements) danno al componimento un ritmo continuo, melodico, meditativo, come se la poesia fosse il risultato di un lungo soliloquio interiore, di una vasta analisi spirituale, debitrice del Petrarca ma anche originale e decisamente romantica.

Così gl’interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il freddo aer di mute ombre è coverto;

dove selvoso è il piano e più deserto
allor lento io vagando, ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fortuna,
e amore e il mondo hanno il mio core aperto.

Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
ed or prostrato ove strepitan l’onde,
con le speranze mie parlo e deliro.

Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei, chi mi t’asconde?

PARAFRASI:

Così gemo per giorni interi in un lungo [in quanto viene a mancare la nozione del tempo]
incerto sonno! ma poi quando l’oscura
notte richiama in cielo gli astri e la luna,
e l’aria fredda è piena di mute ombre;

dove la pianura è selvosa e maggiormente deserta
vagando io allora lento, ad una ad una
palpo le ferite che l’avversa fortuna,
e l’amore e gli uomini hanno aperto nel mio cuore.

Mi appoggio stanco al tronco d’un pino,
e sfinito ora dove le onde [del mare] strepitano,
parlo con le mie speranze e deliro.

Ma spesso dimenticando per te le ire del mondo
e il mio destino, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei, chi ti nasconde a me?






domenica 24 settembre 2017

108 Perché taccia il rumor di mia catena (di Ugo Foscolo)



Anche questo sonetto è probabilmente dedicato a Isabella Roncioni, presentata ancora come una dea (divine sono le sue membra, immortale il suo sguardo), capace di placare i tormenti amorosi del poeta, che egli descrive a un solitario ruscello (reminiscenza petrarchesca), a cui si accosta ogni notte. Ma questi tormenti trovano infine la consolazione che tutti gli innamorati conoscono bene: il pianto liberatorio causato dall’amore, anch’esso dono divino, poiché giunge dalla donna amata.

Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme, e di amor vivo,
e di silenzio; ché pietà mi affrena
se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena,
qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena.

E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d’immortal raggio il mio core,
come la rosea bocca, e i rilucenti

odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m’insegnarono alfin pianger d’amore.

PARAFRASI:

Affinché taccia il rumore della mia catena [cioè della mia sofferenza]
vivo di lacrime, di speranza e di amore
e di silenzio; perché la pietà mi trattiene [cioè provo meno pietà di me stesso]
se parlo con lei, o penso e scrivo di lei.

Solo tu mi ascolti, rivo solitario,
dove l’amore mi conduce con sé ogni notte,
qui io affido [ad esso] il mio pianto e ragiono sulle mie sofferenze,
qui verso tutta la piena del mio dolore.

E narro come i suoi grandi occhi ridenti
bruciarono il mio cuore con il loro sguardo immortale,
come la rosea bocca e i lucenti

capelli odorosi e il candore
delle membra divine e il caro suono delle sue parole
mi hanno infine insegnato a piangere d’amore.




107 E tu ne' carmi avrai perenne vita (di Ugo Foscolo)



Composto intorno al 1800, il sonetto si riferisce all'amore del Foscolo per Isabella Roncioni, presentata come una divinità capace con la sua bellezza e grazia di illuminare il mondo e di portarvi la beatitudine; e tutto si svolge in quella città, Firenze, che Foscolo ammira per la splendida civiltà (quella tardomedievale e rinascimentale) che qui nacque, dopo gli scontri fratricidi tra guelfi e ghibellini, e dove sorge la casa in cui viveva Vittorio Alfieri, il poeta che con i suoi versi ispira nobili sentimenti e ideali.
La parte più interessante e spontanea del sonetto è costituita dalle due terzine, che permettono al poeta di esaltare il sentimento amoroso per la sua donna.

E tu ne’ carmi avrai perenne vita,
sponda che Arno saluta in suo cammino,
partendo la città che del latino
nome accogliea finor l’ombra fuggita.

Già dal tuo ponte all’onda impaurita
il papale furore e il ghibellino
mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino
del fero vate la magion s’addita.

Per me cara, felice, inclita riva
ove sovente i pie’ leggiadri mosse
colei che vera al portamento Diva

in me volgeva sue luci beate,
mentr’io sentia dai crin d’oro commosse
spirar ambrosia l’aure innamorate.

PARAFRASI:

Anche tu avrai nella poesia vita perenne,
sponda [allude al Lungarno Corsini] che l’Arno saluta nel suo cammino,
dividendo la città che finora [al cominciare dell’Età Moderna]
accoglieva l’ombra [ormai] dileguata della gloria di Roma.

Già dal tuo ponte [forse Foscolo intende un ponte preciso, ma non serve determinare quale]
il furore papale e quello ghibellino mescolavano all’onda impaurita [dalla guerra civile]
una grande quantità di sangue, dove oggi al pellegrino
si addita la casa del fiero vate [allude all’Alfieri].

Per me cara, felice, nobile riva
dove mosse spesso i piedi leggiadri
colei, che nel portamento appare davvero come una Dea,

rivolgeva a me il suo sguardo beatificante,
mentre io sentivo mossa dai biondi capelli
odorare d’ambrosia [la bevanda degli dei] l’aria innamorata.



Il Lungarno Corsini a Firenze




mercoledì 20 settembre 2017

106 Te nudrice alle Muse, ospite e dea (di Ugo Foscolo)



Il sonetto venne ispirato da una proposta del Consiglio Cisalpino, cioè il governo francese, di abolire la lingua latina. il Foscolo ne è amareggiato, dato che essa, considerata la fonte prima della poesia, faceva dell'Italia la patria dell'arte e rendeva meno grave il peso della dominazione straniera. E se noi, dopo aver dimenticato la grandezza di Roma, guasteremo il nostro toscano con il linguaggio straniero, quello dei francesi, allora avremo perduto completamente ciò che ci fa grandi e i barabari ne saranno orgogliosi.
Se Foscolo fosse vissuto nella nostra epoca, chissà cosa avrebbe detto del nostro italiano attuale, infarcito di anglicismi, anche corretti, che ci vantiamo di usare!

PER LA SENTENZA CAPITALE PROPOSTA NEL GRAN CONSIGLIO CISALPINO CONTRO LA LINGUA LATINA

Te nudrice alle muse, ospite e Dea
le barbariche genti che ti han doma
nomavan tutte; e questo a noi pur fea
lieve la varia, antiqua, infame soma.

Ché se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
ti han morto il senno ed il valor di Roma,
in te viveva il gran dir che avvolgea
regali allori alla servil tua chioma.

Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
reliquie estreme di cotanto impero;
anzi il Toscano tuo parlar celeste

ognor più stempra nel sermon straniero,
onde, più che di tua divisa veste,
sia il vincitor di tua barbarie altero.

PARAFRASI:

Tutte le genti barbariche chi ti hanno sottomesso
ti chiamavano [riferito all’Italia] nutrice, patria
e dea delle Muse [cioè delle arti]; e questo ci rendeva
lieve il vario, antico, infame peso che ci grava [il peso di essere sottomessi].

Perché se i tuoi vizi, e i tanti anni e il destino crudele
hanno ucciso in te la saggezza ed hanno cancellato il valore di Roma,
in te viveva quella grande lingua [il latino] che avvolgeva
di regali allori la tua chioma or resa serva.

Adesso, Italia, ardi al tuo Genio queste
ultime reliquie della tua grandezza;
anzi corrompi il tuo celeste parlar Toscano

con il linguaggio straniero,
di modo che, più ancora dell’averti fatto a pezzi,
il vincitore vada fiero della tua barbarie [di aver distrutto la tua cultura].






mercoledì 13 settembre 2017

105 Che stai? già il secol l'orma ultima lascia (di Ugo Foscolo)



Questo sonetto fu scritto probabilmente nel 1800: in esso Foscolo si rivolge a se stesso per ricordarsi che il secolo XVIII sta finendo e che i suoi vent’anni non hanno prodotto niente di ammirevole, avendo vissuto finora nell’errore, nella rabbia e nel tormento. Se non ti è concesso di compiere gesta eroiche – augura a se stesso -, almeno cerca la fama nel produrre qualche opera poetica di alto valore, che rimanga ai posteri quando sarai per essi un uomo del passato.
Anch’esso immaturo e non del tutto riuscito, il sonetto esprime però realisticamente i tormenti, non solo del suo autore, ma di qualunque ventenne, che sente con disagio di non aver ancora compiuto nulla di importante nella vita, pur sentendone il desiderio.

Che stai? già il secol l’orma ultima lascia;
dove del tempo son le leggi rotte
precipita, portando entro la notte
quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.

Che se vita è l’error, l’ira, e l’ambascia,
troppo hai del viver tuo l’ore prodotte;
or meglio vivi, e con fatiche dotte
a chi diratti antico esempi lascia.

Figlio infelice, e disperato amante,
e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
giovine d’anni e rugoso in sembiante,

che stai? breve è la vita, e lunga è l’arte;
a chi altamente oprar non è concesso
fama tentino almen libere carte.

PARAFRASI:

Che indugi? già il secolo imprime l’ultima sua orma [volge al termine];
dove le leggi del tempo sono rotte [non esistono più, nell’eternità]
precipita, portando dentro il buio della sua notte
quattro tuoi lustri [vent’anni], e un freddo oblio li avvolge.

Perché se la vita è errore, ira e angoscia,
hai già vissuto troppo del tempo tuo;
ora vivi più degnamente, e con fatiche erudite
lascia esempio di te a chi ti chiamerà antico [cioè chi verrà dopo di te].

Figlio infelice e amante disperato,
e senza patria, duro con tutti e anche con te stesso,
giovane d’anni ma dall’aspetto rugoso,

cosa aspetti? la vita è breve mentre l’arte è lunga [dura a lungo];
a chi non è concesso di compiere alte cose
almeno libere carte [liberi versi] procurino fama.






domenica 10 settembre 2017

104 Non son chi fui (di Ugo Foscolo)



Ugo Foscolo pubblicò a Pisa nel 1802 otto sonetti, a cui ne aggiunse altri quattro nell’edizione definitiva del 1803: questi ultimi (Alla sera, A Zacinto, Alla Musa, In morte del fratello Giovanni) sono considerati i migliori della raccolta e tra i più belli della letteratura italiana.
I primi otto riconducono alle atmosfere del romanzo epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis” e alle vicende autobiografiche del poeta, cariche di passione politica e sentimentale; numerose sono le reminiscenze classiche (Petrarca e Alfieri in particolare). Gli ultimi quattro si sottraggono alle suggestioni immediate della passione, per aprirsi alla meditazione su sentimenti universali ed eterni.
Il primo sonetto fu scritto tra il 1797 e il 1801: è uno dei più immaturi della raccolta, troppo ricercato nell’espressione, ma comunque psicologicamente sincero nella sua esposizione del crollo degli ideali, che inducono il poeta a considerare vana ogni cosa.

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

PARAFRASI:

Non sono più colui che ero; gran parte di me è morta:
quel che mi resta è solo struggimento e pianto.
E il mirto [la pianta sacra a Venere, simbolo dell’amore] è secco, e le foglie dell’alloro [simbolo della gloria poetica], primo incentivo alla mia poesia giovanile, sono avvizzite.

Perché dal giorno in cui un’empia licenza [la violenza rivoluzionaria che rende lecito l’assassinio] e Marte [la guerra]
mi rivestirono del loro manto di sangue,
la mia mente è divenuta cieca, e guasto il cuore, e l’uccidere
altri uomini è diventato per me arte [mestiere] e vanto.

Che se anche mi viene il pensiero di morire [con il suicidio],
da questo proposito crudele mi distolgono
l’ardente desiderio di gloria e l’affetto di figlio.

Così schiavo di me stesso, e d’altri, e del destino,
so qual è la cosa migliore da fare [cioè morire] eppure mi aggrappo a quella peggiore [cioè vivere],
e so invocare la morte ma non so darmela.






mercoledì 6 settembre 2017

103 Ferondo in Purgatorio (di Giovanni Boccaccio)



Un vispo abate, da tutti creduto un sant’uomo, invaghitosi della moglie di un rozzo sbruffone, lo rinchiude in un sotterraneo, facendogli credere di essere capitato in Purgatorio, e intanto si prende il suo piacere con la donna; quando questa rimane incinta, fa “resuscitare” l’uomo, il quale con le sue parole contribuisce ad accrescere la santità dell’abate.
Stupenda novella in cui Boccaccio intreccia abilmente tre tematiche ricorrenti nel Decameron: la pulsione erotica, la credulità popolare in tema di religione e le astuzie peccaminose del clero.

[Giornata terza: 8]
Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall’abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che egli è in Purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo dello abate nella moglie di lui generato.

[…] Carissime donne, a me si para davanti a doversi far raccontare una verità che ha, troppo più che di quello che ella fu, di menzogna sembianza; e quella nella mente m’ha ritornata l’avere udito un per un altro essere stato pianto e sepellito. Dirò adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come poi per risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri lui credessero essere della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come colpevole ne dovea più tosto essere condannato.
Fu adunque in Toscana una badia, e ancora è, posta, sì come noi ne veggiam molte, in luogo non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in ogni cosa era santissimo fuor che nell’opera delle femine: e questo sapeva sì cautamente fare, che quasi niuno, non che il sapesse, ma né suspicava; per che santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa. Ora avvenne che, essendosi molto con l’abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome Ferondo, uomo materiale e grosso senza modo (né per altro la sua dimestichezza piaceva all’abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava delle sue simplicità), e in questa dimestichezza s’accorse l’abate Ferondo avere una bellissima donna per moglie, della quale esso sì ferventemente s’innamorò, che ad altro non pensava né dì né notte. Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e dissipato, in amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo, quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, recò a tanto Ferondo, che egli insieme con la sua donna a prendere alcun diporto nel giardino della badia venivano alcuna volta: e quivi con loro della beatitudine di vita eterna e di santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava modestissimamente loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui e chiesene la licenzia da Ferondo e ebbela.
Venuta adunque a confessarsi la donna all’abate, con grandissimo piacere di lui e a’ piè postaglisi a sedere, anzi che a dire altro venisse, incominciò: «Messere, se Idio m’avesse dato marito o non me l’avesse dato, forse mi sarebbe agevole co’ vostri ammaestramenti d’entrare nel camino che ragionato n’avete che mena altrui a vita eterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stoltizia, mi posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso, altro marito aver non posso; e egli, così matto come egli è, senza alcuna cagione è sì fuori d’ogni misura geloso di me, che io per questo altro che in tribulazione e in mala ventura con lui viver non posso. Per la qual cosa, prima che io a altra confession venga, quanto più posso umilmente vi priego che sopra questo vi piaccia darmi alcun consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la cagione del mio bene potere adoperare, il confessarmi o altro ben fare poco mi gioverà».
Questo ragionamento con gran piacere toccò l’animo dell’abate, e parvegli che la fortuna gli avesse al suo maggior disidero aperta la via, e disse: «Figliuola mia, io credo che gran noia sia a una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per marito un mentecatto, ma molto maggior la credo essere l’avere un geloso; per che, avendo voi e l’uno e l’altro, agevolmente ciò che della vostra tribulazion dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando, niuno né consiglio né rimedio veggo fuor che uno, il quale è che Ferondo di questa gelosia si guerisca. La medicina da guerillo so io troppo ben fare, pur che a voi dea il cuore di segreto tenere ciò che io vi ragionerò».
La donna disse: «Padre mio, di ciò non dubitate, per ciò che io mi lascerei innanzi morire che io cosa dicessi a altrui che voi mi diceste che io non dicessi; ma come si potrà far questo?»
Rispose l’abate: «Se noi vogliamo che egli guerisca, di necessità convien che egli vada in Purgatorio».
«E come» disse la donna «vi potrà egli andar vivendo?»
Disse l’abate: «Egli convien ch’e’ muoia, e così v’andrà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli di questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo Idio che in questa vita il ritorni, e Egli il farà».
«Adunque,» disse la donna «debbo io rimaner vedova?»
«Sì,» rispose l’abate «per un certo tempo, nel quale vi converrà molto ben guardare che voi a alcun non vi lasciate rimaritare, per ciò che Idio l’avrebbe per male, e, tornandoci Ferondo vi converrebbe a lui tornare, e sarebbe più geloso che mai».
La donna disse: «Pur che egli di questa mala ventura guerisca, che egli non mi convenea sempre stare in prigione, io son contenta; fate come vi piace».
Disse allora l’abate: «E io il farò; ma che guiderdone debbo io aver da voi di così fatto servigio?»
«Padre mio,» disse la donna «ciò che vi piace, pur che io possa: ma che puote una mia pari, che a un così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole?»
A cui l’abate disse: «Madonna, voi potete non meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi, per ciò che, sì come io mi dispongo a far quello che vostro bene e vostra consolazion dee essere, così voi potete far quello che fia salute e scampo della vita mia».
Disse allora la donna: «Se così è, io sono apparecchiata».
«Adunque» disse l’abate «mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la quale io ardo tutto e mi consumo».
La donna, udendo questo, tutta sbigottita rispose: «Ohimè, padre mio, che è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un santo; or conviensi egli a’ santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno per consiglio, di così fatte cose?»
A cui l’abate disse: «Anima mia bella, non vi maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per ciò che ella dimora nell’anima e quello che io vi domando è peccato del corpo. Ma che che si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costrigne a così fare; e dicovi che voi della vostra bellezza più che altra donna gloriar vi potete, pensando che ella piaccia a’ santi, che sono usi di vedere quelle del cielo. E oltre a questo, come che io sia abate, io sono uomo come gli altri e, come voi vedete, io non sono ancor vecchio. E non vi dee questo esser grave a dover fare, anzi il dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo starà in Purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella consolazione che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona alcuna s’accorgerà, credendo ciascun di me quello, e più, che voi poco avante ne credavate. Non rifiutate la grazia che Dio vi manda, ché assai sono di quelle che quello disiderano che voi potete avere e avrete, se savia crederete al mio consiglio. Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non intendo che d’altra persona sieno che vostra. Fate adunque, dolce speranza mia, per me quello che io fo per voi volentieri».
La donna teneva il viso basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per che l’abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendogliele avere già mezza convertita, con molte altre parole alle prime continuandosi, avanti che egli ristesse, l’ebbe nel capo messo che questo fosse ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere apparecchiata a ogni suo comando, ma prima non poter che Ferondo andato fosse in Purgatoro. A cui l’abate contentissimo disse: «E noi faremo che egli v’andrà incontanente; farete pure che domane o l’altro dì egli qua con meco se ne venga a dimorare»; e detto questo, postole celatamente in mano un bellissimo anello, la licenziò. La donna, lieta del dono e attendendo d’aver degli altri, alle compagne tornata maravigliose cose cominciò a raccontare della santità dell’abate e con loro a casa se ne tornò.
Ivi a pochi dì Ferondo se n’andò alla badia, il quale come l’abate vide, così s’avisò di mandarlo in Purgatoro. E ritrovata una polvere di maravigliosa vertù, la quale nelle parti di Levante avuta avea da un gran prencipe (il quale affermava quella solersi usare per lo Veglio della Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel suo Paradiso o trarlone, e che ella, più e men data, senza alcuna lesione faceva per sì fatta maniera più e men dormire colui che la prendeva, che, mentre la sua vertù durava, non avrebbe mai detto colui in sé aver vita) e di questa tanta presane che a far dormir tre giorni sufficiente fosse, e in un bicchier di vino non ben chiaro ancora nella sua cella, senza avvedersene Ferondo, gliele diè bere: e lui appresso menò nel chiostro e con più altri de’ suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a pigliar diletto. Il quale non durò guari che, lavorando la polvere, a costui venne un sonno subito e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè s’addormentò e addormentato cadde. L’abate mostrando di turbarsi dell’accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e gittargliele nel viso e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna fumosità di stomaco o d’altro che occupato l’avesse gli volesse la smarrita vita e ’l sentimento rivocare, veggendo l’abate e’ monaci che per tutto questo egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli, tutti per constante ebbero ch’e’ fosse morto: per che, mandatolo a dire alla moglie e a’ parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero; e avendolo la moglie con le sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece l’abate mettere in uno avello.
La donna si tornò a casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva partirsi giammai; e così rimasasi nella casa il figliuolo e la ricchezza che stata era di Ferondo cominciò a governare.
L’abate con un monaco bolognese, di cui egli molto si confidava e che quel dì quivi da Bologna era venuto, levatosi la notte, tacitamente Ferondo trassero della sepoltura e lui in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione de’ monaci che fallissero era stata fatta, nel portarono; e trattigli i suoi vestimenti, a guisa di monaco vestitolo sopra un fascio di paglia il posero e lasciaronlo stare tanto che egli si risentisse. In questo mezzo il monaco bolognese, dallo abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne alcuna altra persona niuna cosa, cominciò ad attender che Ferondo si risentisse.
L’abate il dì seguente con alcun de’ suoi monaci per modo di visitazione se n’andò a casa della donna, la quale di nero vestita e tribolata trovò: e confortatala alquanto, pianamente la richiese della promessa. La donna, veggendosi libera e senza lo ’mpaccio di Ferondo o d’altrui, avendogli veduto in dito un altro bello anello, disse che era apparecchiata, e con lui compose che la seguente notte v’andasse. Per che, venuta la notte, l’abate travestito de’ panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato, v’andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si giacque e poi si ritornò alla badia, quel cammino per così fatto servigio faccendo assai sovente. E da alcuni e nell’andare e nel tornare alcuna volta essendo scontrato, fu creduto ch’e’ fosse Ferondo che andasse per quella contrada penitenza faccendo, e poi molte novelle tralla gente grossa della villa contatone, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era, più volte fu detto.
Il monaco bolognese, risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper dove si fosse, entrato dentro con una voce orribile, con certe verghe in mano, presolo, gli diede una gran battitura.
Ferondo, piangendo e gridando, non faceva altro che domandare: «Dove sono io?»
A cui il monaco rispose: «Tu se’ in Purgatoro».
«Come?» disse Ferondo «Dunque son io morto?»
Disse il monaco: «Mai sì»; per che Ferondo se stesso e la sua donna e ’l suo figliuolo cominciò a piagnere, le più nuove cose del mondo dicendo.
Al quale il monaco portò alquanto da mangiare e da bere; il che veggendo Ferondo disse: «O mangiano i morti?»
Disse il monaco: «Sì, e questo che io ti reco è ciò che la donna che fu tua mandò stamane alla chiesa a far dir messe per l’anima tua, il che Domenedio vuole che qui rappresentato ti sia».
Disse allora Ferondo: «Domine, dalle il buono anno! Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva tutta notte in braccio e non faceva altro che basciarla e anche faceva altro quando voglia me ne veniva»; e poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a bere, e non parendogli il vino troppo buono, disse: «Domine, falla trista! ché ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro».
Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran battitura.
A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse: «Deh, questo perché mi fai tu?»
Disse il monaco: «Per ciò che così ha comandato Domenedio che ogni dì due volte ti sia fatto».
«E per che cagione?» disse Ferondo.
Disse il monaco: «Perché tu fosti geloso, avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie».
«Oimè» disse Ferondo «tu di’ vero, e la più dolce: ella era più melata che ’l confetto, ma io non sapeva che Domenedio avesse per male che l’uomo fosse geloso, ché io non sarei stato».
Disse il monaco: «Di questo ti dovevi tu avvedere mentre eri di là e ammendartene; e se egli avvien che tu mai vi torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io ti fo ora, che tu non sii mai più geloso».
Disse Ferondo: «O ritornavi mai chi muore?»
Disse il monaco: «Sì, chi Dio vuole».
«Oh!» disse Ferondo «se io vi torno mai, io sarò il migliore marito del mondo; mai non la batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane: e anche non ci ha mandato candela niuna, e èmmi convenuto mangiare al buio».
Disse il monaco: «Sì fece bene, ma elle arsero alle messe».
«Oh!» disse Ferondo «tu dirai vero: e per certo, se io vi torno, io le lascerò fare ciò che ella vorrà. Ma dimmi, chi se’ tu che questo mi fai?»
Disse il monaco: «Io sono anche morto, e fui di Sardigna; e perché io lodai già molto ad un mio signore l’esser geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e queste battiture infino a tanto che Idio dilibererà altro di te e di me».
Disse Ferondo: «Non c’è egli più persona che noi due?»
Disse il monaco: «Sì, a migliaia, ma tu non gli puoi né vedere né udire se non come essi te».
Disse allora Ferondo: «O quanto siam noi di lungi dalle nostre contrade?»
«Ohioh!» disse il monaco «sèvi di lungi delle miglia più di be’ la cacheremo».
«Gnaffé! cotesto è bene assai!» disse Ferondo «e per quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor del mondo, tanto ci ha».
Ora in così fatti ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da dieci mesi, infra li quali assai sovente l’abate bene avventurosamente visitò la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del mondo. Ma, come avvengono le sventure, la donna ingravidò e, prestamente accortasene, il disse all’abate: per che a ammenduni parve che senza indugio Ferondo fosse da dovere essere di Purgatorio rivocato a vita e che a lei si tornasse, e ella di lui dicesse che gravida fosse.
L’abate adunque la seguente notte fece con una voce contrafatta chiamar Ferondo nella prigione e dirgli: «Ferondo, confortati, ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa questa grazia».
Ferondo, udendo questo, fu forte lieto e disse: «Ben mi piace: Dio gli dea il buono anno a messer Domeneddio e all’abate e a san Benedetto e alla moglie mia casciata, melata, dolciata».
L’abate, fattogli dare nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quatro ora il facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il tornarono nello avello nel quale era stato sepellito. La mattina in sul far del giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dell’avello lume, il quale egli veduto non avea ben dieci mesi; per che, parendogli esser vivo, cominciò a gridare «Apritemi, apritemi!» ed egli stesso a pontar col capo nel coperchio dello avello sì forte, che ismossolo, per ciò che poca ismovitura aveva, lo ’ncominciava a mandar via, quando i monaci, che detto avean matutino, corson colà e conobbero la voce di Ferondo e viderlo già del monimento uscir fuori: di che spaventati tutti per la novità del fatto cominciarono a fuggire e allo abate n’andarono.
Il quale, sembianti faccendo di levarsi d’orazione, disse: «Figliuoli, non abbiate paura; prendete la croce e l’acqua santa e appresso di me venite, e veggiam ciò che la potenzia di Dio ne vuol mostrare»; e così fece.
Era Ferondo tutto pallido, come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuori dello avello uscito; il quale, come vide l’abate, così gli corse a’ piedi e disse: «Padre mio, le vostre orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia donna m’hanno delle pene del Purgatoro tratto e tornato in vita; di che io priego Idio che vi dea il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia».
L’abate disse: «Lodata sia la potenza di Dio! Va dunque, figliuolo, poscia che Idio t’ha qui rimandato, e consola la tua donna, la quale sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata in lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidor di Dio».
Disse Ferondo: «Messere, egli m’è ben detto così; lasciate far pur me, ché, come io la troverò, così la bascerò, tanto bene le voglio».
L’abate, rimaso co’ monaci suoi, mostrò d’avere di questa cosa una grande ammirazione e fecene divotamente cantare il Miserere. Ferondo tornò nella sua villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili cose, ma egli richiamandogli affermava sé essere risuscitato. La moglie similmente aveva di lui paura.
Ma poi che la gente alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, domandandolo di molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle dell’anime de’ parenti loro e faceva da sé medesimo le più belle favole del mondo de’ fatti del Purgatoro: e in pien popolo raccontò la revelazione statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse. Per la qual cosa in casa con la moglie tornatosi e in possessione rientrato de’ suoi beni, la ’ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole tempo, secondo l’oppinion degli sciocchi che credono la femina nove mesi appunto portare i figliuoli, la donna partorì un figliuol maschio, il qual fu chiamato Benedetto Ferondi.
La tornata di Ferondo e le sue parole, credendo quasi ogn’uomo che risuscitato fosse, acrebbero senza fine la fama della santità dell’abate; e Ferondo, che per la sua gelosia molte battiture ricevute avea, sì come di quella guerito, secondo la promessa dell’abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di che la donna contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sì veramente che, quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e diligentemente ne’ suoi maggior bisogni servita l’avea.

PARAFRASI IN ITALIANO MODERNO

Ferondo, mangiata certa polvere, è sotterrato per morto; e dall’abate, che la moglie di lui si gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e gli è fatto credere che egli è in Purgatorio; e poi resuscitato, come fosse suo alleva un figliuolo generato dall’abate nella moglie di lui.

[…] Carissime donne, mi si offre il bisogno di raccontare un fatto vero, il quale più che di verità ha apparenza di menzogna; e ciò mi è venuto in mente in quanto ho udito di uno che per un altro era stato pianto e sepolto [ciò è narrato nella novella precedente]. Dirò dunque di come un vivo fosse sepolto credendolo morto, e come poi per risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri credessero che lui era uscito dalla sepoltura, mentre colui che meritava piuttosto di essere considerato colpevole venisse invece adorato come un santo.
Ci fu dunque in Toscana una badia, e ancora c’è, posta, così come noi ne vediamo molte, in luogo non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il quale in ogni cosa era santissimo fuorché nei rapporti con le femmine: e questo sapeva così cautamente fare, che quasi nessuno, non solo non lo sapeva, ma neppure lo sospettava; per cui era considerato santissimo e giusto in ogni cosa. Ora avvenne che, avendo molto familiarizzato con l’abate un ricchissimo villano, il quale si chiamava Ferondo, uomo materiale e grossolano fuor di misura (né per altro la sua dimestichezza piaceva all’abate, se non per un certo sollazzo che talvolta ricavava dalle sue sciocchezze), in seguito a questa dimestichezza l’abate s’accorse che Ferondo aveva una bellissima donna per moglie, della quale esso così ferventemente s’innamorò, che ad altro non pensava né giorno né notte. Ma udendo che, sebbene Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e sciocco, nell’amare questa sua moglie e nel cusodirla bene era savissimo, quasi se ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, seppe trattare Ferondo in tal modo, che egli insieme con la sua donna veniva a prendere qualche diporto nel giardino della badia di tanto in tanto: e qui con loro ragionava modestissimamente della beatitudine della vita eterna e di santissime opere di molti uomini e donne del passato, tanto che alla donna venne desiderio di confessarsi da lui e ne chiese il permesso a Ferondo e l’ottenne.
Venuta dunque la donna a confessarsi dall’abate, con grandissimo piacere di lui e messasi a sedere ai suoi piedi, prima di arrivare a parlare d’altro, incominciò: «Messere, se Iddio m’avesse dato marito veramente [cioè se me l’avesse dato assennato e di proposito] o non me l’avesse dato [piuttosto che darmelo così sciocco], forse mi sarebbe agevole con i vostri ammaestramenti entrare nel cammino di cui mi avete ragionato che conduce alla vita eterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua stoltezza, mi posso dire vedova, eppure sono maritata, in quanto, finché lui è vivo, non posso avere altro marito; inoltre egli, così stupido com’è, senza alcun motivo è così fuori d’ogni misura geloso di me, che io per questo non posso vivere altro che in tribolazione e in mala ventura. Per la qual cosa, prima che io passi a confessare altre cose, quanto più posso umilmente vi prego che su questo vi piaccia darmi qualche consiglio, per ciò che, se da qui non comincia la ragione del mio potere far bene, il confessarmi o qualunque altra opera buona poco mi gioverà».
Questo ragionamento con gran piacere toccò l’animo dell’abate, e gli parve che la fortuna gli avesse aperta la via al suo maggiore desiderio, e disse: «Figliuola mia, io credo che sia una gran noia per una bella e delicata donna, come voi siete, avere per marito un mentecatto, ma credo che sia molto maggiore quella d’averne uno geloso; perciò, avendo voi e l’uno e l’altro, credo agevolmente a ciò che dite della vostra tribolazione. Ma a questo, per dirla in breve, non vedo alcun consiglio né rimedio fuorché uno, e cioè che Ferondo guarisca di questa gelosia. La medicina per guarirlo io la conosco bene, purché voi abbiate cuore di tenere segreto tenere ciò che io vi spiegherò».
La donna disse: «Padre mio, di ciò non dubitate, perché io mi lascerei morire piuttosto che dire a qualcuno qualcosa che voi mi abbiate detto di non dire; ma come si potrà far questo?»
Rispose l’abate: «Se noi vogliamo che egli guarisca, è necessario che egli vada in Purgatorio».
«E come» disse la donna «potrà egli andarvi da vivo?»
Disse l’abate: «È necessario che egli muoia, e così ci andrà; e quando avrà sofferto tanta pena da essere castigato di questa sua gelosia, noi con certe orazioni pregheremo Iddio che lo riporti in questa vita, ed Egli lo farà».
«Dunque,» disse la donna «devo io rimanere vedova?»
«Sì,» rispose l’abate «per un certo tempo, durante il quale vi converrà stare molto attenta affinché non vi lasciate rimaritare ad alcuno [com’era usanza che facessero il padre o i fratelli di una vedova], perché Iddio l’avrebbe per male, e, tornando Ferondo in questo mondo vi converrebbe a lui tornare, ed egli sarebbe più geloso che mai».
La donna disse: «Purché guarisca di questa mala ventura, poiché non mi piaceva stare sempre in prigione, io son contenta; fate come vi piace».
Disse allora l’abate: «E io lo farò; ma che ricompensa devo io aver da voi per così fatto servizio?»
«Padre mio,» disse la donna «ciò che vi piace, purché io possa: ma che può una mia pari, che a un così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole?»
Al che l’abate disse: «Madonna, voi potete fare per me cosa non minore di quella che io sto per fare per voi, dato che, proprio come io mi dispongo a fare quello che sarà il vostro bene e la vostra consolazione, così voi potete fare quello che sarà salute e scampo della vita mia».
Disse allora la donna: «Se così è, io sono apparecchiata».
«Dunque» disse l’abate «voi mi donerete il vostro amore e mi farete contento di voi, per cui io ardo tutto e mi consumo».
La donna, udendo questo, tutta sbigottita rispose: «Ohimè, padre mio, che è ciò che voi domandate? Io credevo che voi foste un santo; da quando conviene ai santi uomini chiedere simili cose alle donne, che vanno da loro per consiglio?»
Al che l’abate disse: «Anima mia bella, non vi meravigliate, perché per questo la santità non diventa minore, dato che ella dimora nell’anima e quello che io vi domando è peccato del corpo. Ma sia quel che sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga bellezza, che amore mi costringe a far così; e vi dico che voi vi potete gloriare della vostra bellezza più che qualunque altra donna, pensando che essa piace ai santi, che sono abituati a vedere quelle del cielo. E oltre a questo, sebbene io sia abate, io sono uomo come gli altri e, come voi vedete, non sono ancora vecchio. E dover far questo non vi deve essere gravoso, anzi lo dovete desiderare, visto che, mentre Ferondo starà in Purgatorio, io vi darò, facendovi compagnia la notte, quella consolazione che egli vi dovrebbe dare; né mai di questo persona alcuna si accorgerà, dato che ciascuno crede di me quello, e più, che voi poco prima ne credevate. Non rifiutate la grazia che Dio vi manda, perché sono molte quelle che desiderano ciò che voi potete avere e avrete, se savia crederete al mio consiglio. Oltre a questo, io ho dei gioielli belli e preziosi, e io non intendo che siano d’altri se non vostri. Fate dunque, dolce speranza mia, per me quello che io faccio per voi volentieri».
La donna teneva il viso basso, né sapeva come negare ciò che le veniva richiesto, e al concederlo non le pareva di far bene; perciò l’abate, vedendo che aveva ascoltato e che indugiava nella risposta, parendogli di averla già mezza convertita, aggiungendo molte altre parole alle prime, avanti che egli smettesse di parlare, le ebbe messo nel capo che questo fosse ben fatto; per cui essa vergognosamente disse di essere apparecchiata a ogni suo comando, ma di non poterlo fare prima che Ferondo fosse andato in Purgatorio. Al che l’abate contentissimo disse: «E noi faremo che egli ci vada subito; e voi pure farete in modo che domani l’altro egli venga a dimorare qua con me»; e detto questo, postole celatamente in mano un bellissimo anello, la licenziò. La donna, lieta del dono e attendendo d’averne degli altri, tornata alle compagne, meravigliose cose cominciò a raccontare della santità dell’abate e con loro a casa se ne tornò.
Di lì a pochi giorni Ferondo se n’andò alla badia, e appena lo vide l’abate si decise a mandarlo in Purgatorio. E ritrovata una polvere di virtù meravigliosa, che aveva avuto nelle terre di Levante da un gran principe (il quale affermava che era solito farne uso il Veglio della Montagna, quando voleva mandare nel suo Paradiso o trarne fuori qualcuno addormentato, e che essa, data in quantità maggiore o minore, senza alcun danno faceva dormire di più o di meno colui che la prendeva, in modo che, finché durava il suo effetto, non si sarebbe mai detto colui fosse vivo) e presane di questa tanta da essere sufficiente a far dormire per tre giorni, la diede a bere a Ferondo in un bicchiere di vino non ben chiaro mentre era ancora nella sua cella, senza che lui se ne accorgesse: poi lo portò nel chiostro e assieme con altri monaci cominciarono a prendere diletto di lui e delle sue sciocchezze. Il quale non durò molto, dato che, facendo la polvere il suo effetto, a costui venne un sonno improvviso e fiero nella testa, tale che, mentre era ancora in piedi, si addormentò e addormentato cadde. L’abate, mostrando di turbarsi per ciò che succedeva, fattigli slacciare gli abiti e fatta recare dell’acqua fredda e gettatagliela nel viso e fatti fare molti suoi altri argomenti, come se  qualche esalazione di vapori malefici per cattiva digestione o per altro motivo  gli volesse togliere la vita smarrita e i sensi, vedendo l’abate e i monaci che malgrado tutto questo egli non si riprendeva, toccandogli il polso e non trovandogli alcuna manifestazione vitale, tutti indubitabilmente pensarono che egli fosse morto: per cui, mandatolo a dire alla moglie e ai parenti di lui, tutti qui prestamente vennero; e dopo che la moglie con le sue parenti l’ebbe pianto a lungo, così vestito come era l’abate lo fece mettere in un avello.
La donna se ne tornò a casa, e disse che non intendeva mai separarsi da un piccolo fanciullino che aveva avuto da lui; così si tenne in casa il figliuolo e cominciò ad amministrare la ricchezza che era stata di Ferondo.
L’abate con un monaco bolognese, di cui egli molto si fidava e che quel giorno da Bologna era qui venuto, levatosi la notte, tacitamente trassero Ferondo dalla sepoltura e lo portarono in un sotterraneo, nel quale non c’era alcun lume e che era stato adibito a prigione dei monaci che fallissero; e toltigli i suoi vestimenti, vestitolo a guisa di monaco, lo posero sopra un fascio di paglia e lo lasciarono stare tanto che egli si svegliasse. In questo frattempo il monaco bolognese, informato dall’abate di ciò che doveva fare, senza che nessun altro ne sapesse niente, cominciò ad attendere che Ferondo si svegliasse.
L’abate il dì seguente con alcuni dei suoi monaci fingendo una visita di cortesia se ne andò a casa della donna, che trovò vestita di nero e abbattuta: e confortatala alquanto, pianamente le richiese della promessa. La donna, vedendosi libera e senza l’impaccio di Ferondo o di altri, avendogli veduto in dito un altro bell’anello, disse che era apparecchiata, e con lui si accordò affinché la notte seguente andasse da lei. Per cui, venuta la notte, l’abate travestito dei panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato, vi andò e con lei si giacque fino al mattutino con grandissimo diletto e piacere, poi se ne ritornò alla badia, facendo assai volte quel cammino fatto per tale servizio. E incontrandosi con alcuni sia nell’andare sia nel tornare alcune volte, fu creduto che egli fosse Ferondo che andasse per quella contrada facendo penitenza, e poi ne nacquero molte chiacchiere tra la gente rozza del villaggio, e queste furono più volte riportate alla moglie, che ben sapeva qual era la verità.
Il monaco bolognese, quando Ferondo si riprese e si trovò senza sapere dove fosse, entrato dentro con una voce orribile, con certe verghe in mano, lo prese e gli diede una gran battitura.
Ferondo, piangendo e gridando, non faceva altro che domandare: «Dove sono io?»
Al che il monaco rispose: «Tu sei in Purgatorio».
«Come?» disse Ferondo «Dunque sono morto?»
Disse il monaco: «Ebbene sì»; al che Ferondo cominciò a piangere se stesso e la sua donna e il suo figliuolo, dicendo le più strane cose del mondo.
Al che il monaco portò alquanto da mangiare e da bere; vedendo ciò Ferondo disse: «Oh che, mangiano i morti?»
Disse il monaco: «Sì, e questo che io ti reco è ciò che la donna che fu tua mandò stamane alla chiesa perché fossero dette messe per l’anima tua, il che Domeneddio vuole che qui presentato ti sia».
Disse allora Ferondo: «Signore, dalle il buon anno [esclamazione popolaresca d’augurio del tipo “Signore benedicila”]! Io le volevo proprio un gran bene prima di morire, tanto che io me la tenevo tutta la notte in braccio e non facevo altro che baciarla e anche facevo dell’altro quando voglia me ne veniva»; e poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a bere, e non parendogli il vino troppo buono, disse: «Domine, falla trista! ché ella non diede al prete quel vino della botte allato al muro».
Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo lo riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran battitura.
Al che Ferondo, avendo gridato assai, disse: «Deh, perché mi fai tu questo?»
Disse il monaco: «Perché così ha comandato Domeneddio, che ogni giorno ciò ti sia fatto due volte».
«E per quale ragione?» disse Ferondo.
Disse il monaco: «Perché tu fosti geloso, avendo per moglie la miglior donna che fosse nelle tue contrade».
«Oimè» disse Ferondo «tu dici vero, e la più dolce: ella era più dolce del confetto, ma io non sapevo che Domeneddio avesse per male che l’uomo fosse geloso, perché non lo sarei stato».
Disse il monaco: «Di questo dovevi tu accorgerti mentre eri di là e ammendartene; e se accade che tu mai vi torni, fa che tu abbia così a mente quello che io ti faccio ora, che tu non sia mai più geloso».
Disse Ferondo: «Ma chi muore può tornare di là?»
Disse il monaco: «Sì, chi Dio vuole».
«Oh!» disse Ferondo «se io mai vi torno, io sarò il migliore marito del mondo; mai non la batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha mandato stamane: e anche non ci ha mandato nessuna candela, e ho dovuto mangiare al buio».
Disse il monaco: «Sì che lo fece, ma esse arsero alle messe».
«Oh!» disse Ferondo «tu dirai il vero: e per certo, se io vi torno, io le lascerò fare ciò che ella vorrà. Ma dimmi, chi sei tu che questo mi fai?»
Disse il monaco: «Anch’io morto, e fui di Sardegna; e poiché io già molto lodai un mio signore per il fatto che fosse geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare e bere e queste battiture infino a tanto che Idio delibererà altro di te e di me».
Disse Ferondo: «Non c’è altra persona che noi due?»
Disse il monaco: «Sì, a migliaia, ma tu non li puoi né vedere né udire così come essi te».
Disse allora Ferondo: «O quanto siamo noi lontani dalle nostre contrade?»
«Ohioh!» disse il monaco «vi sei di lungi delle miglia più di be’ la cacheremo [parole senza senso, dette per confondere ancor più Ferondo]».
«Gnaffé! cotesto è bene assai!» disse Ferondo «e per quel che mi pare, noi dovremmo essere fuor del mondo, tanto ci ha».
Ora in così fatti ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo circa dieci mesi, durante i quali assai sovente l’abate bene avventurosamente visitò la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del mondo. Ma, come avvengono le sventure, la donna ingravidò e, prestamente accortasene, lo disse all’abate: per cui a entrambi parve che senza indugio Ferondo dovesse dal Purgatorio essere riportato in vita e che a lei tornasse, ed ella dicesse che era gravida di lui.
L’abate dunque la seguente notte con una voce contraffatta fece chiamar Ferondo nella prigione e gli disse: «Ferondo, confortati, ché a Dio piace che tu torni al mondo; dove, una volta tornato, tu avrai dalla tua donna un figliuolo, che farai chiamare Benedetto, dato che per le preghiere del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa questa grazia».
Ferondo, udendo questo, fu assai lieto e disse: «Ben mi piace: Dio gli dia il buono anno al signor Domeneddio e all’abate e a san Benedetto e alla moglie mia piena di cacio [cioè saporita come un cibo con molto cacio], melata, dolciata [aggettivi che sottolineano la goffaggine del protagonista]».
L’abate, fattogli dare nel vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quattro ore lo facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente lo riportarono nell’avello nel quale era stato seppellito. La mattina in sul far del giorno Ferondo si risvegliò e vide della luce per qualche pertugio dell’avello, cosa che egli non aveva veduto per ben dieci mesi; per cui, parendogli di essere vivo, cominciò a gridare «Apritemi, apritemi!» ed egli stesso a spingere col capo nel coperchio dell’avello così forte, che smossolo, dato che si riusciva a smuoverlo con poco, incominciava ad aprirlo, quando i monaci, che avevano detto mattutino, corsero colà e conobbero la voce di Ferondo e lo videro già uscir fuori della tomba: al che tutti spaventati per la novità del fatto cominciarono a fuggire e andarono dall’abate.
Il quale, facendo finta di aver appena finito di pregare, disse: «Figliuoli, non abbiate paura; prendete la croce e l’acqua santa e venite appresso a me, e vediamo ciò che la potenza di Dio ci vuol mostrare»; e così fece.
Ferondo tutto pallido, come uno che era stato tanto tempo senza vedere il cielo, era uscito fuori dall’avello; e, come vide l’abate, gli corse ai piedi e disse: «Padre mio, le vostre orazioni, secondo ciò che mi è stato rivelato, e quelle di san Benedetto e della mia donna m’hanno tratto dalle pene del Purgatorio e riportato in vita; di che io prego Iddio che vi dia il buono anno e i buoni mesi, oggi e sempre».
L’abate disse: «Lodata sia la potenza di Dio! Va dunque, figliuolo, dato che Iddio ti ha qui rimandato, e consola la tua donna, la quale sempre, dopo che tu lasciasti questa vita, è stata in lagrime, e sii d’ora in poi amico e servitor di Dio».
Disse Ferondo: «Signore, già mi è stato detto così; lasciate fare a me, perché, come io la troverò, così la bacerò, tanto bene le voglio».
L’abate, rimasto con i monaci suoi, mostrò d’avere di questa cosa una grande ammirazione e fece per questo cantare devotamente il Miserere. Ferondo tornò nella sua villa, dove chiunque lo vedeva fuggiva, come si suole fare davanti a delle orribili cose, ma egli richiamandogli affermava che era risuscitato. La moglie similmente aveva di lui paura.
Ma poi che la gente alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, facendogli domande su molte cose, quasi ritornato savio, a tutti rispondeva e diceva loro notizie delle anime dei parenti loro e inventava da sé medesimo le più belle favole del mondo sui fatti del Purgatorio: e in mezzo ai suoi compaesani raccontò la rivelazione che gli era stata fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello [deformazione di Agnolo Gabriello, a sottolineare ancora una volta la rozzezza di Ferondo] prima che risuscitasse. Perciò tornato in casa con la moglie e rientrato in possesso dei suoi beni, la ingravidò (secondo il suo parere), e per ventura avvenne che a convenevole tempo, secondo l’opinione degli sciocchi che credono la femmina appunto portare i figliuoli per nove mesi, la donna partorì un figliuolo maschio, il quale fu chiamato Benedetto Ferondi.
Il ritorno di Ferondo e le sue parole, dato che quasi tutti credevano che fosse risuscitato, accrebbero senza fine la fama della santità dell’abate; e Ferondo, che per la sua gelosia aveva ricevuto molte battiture, come se fosse guarito da quella, secondo la promessa dell’abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di che la donna contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, solo che, quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si ritrovava, il quale bene e diligentemente l’aveva servita nei suoi maggiori bisogni.

Miniature da antichi manoscritti raffiguranti momenti diversi di questa novella