domenica 10 settembre 2017

104 Non son chi fui (di Ugo Foscolo)



Ugo Foscolo pubblicò a Pisa nel 1802 otto sonetti, a cui ne aggiunse altri quattro nell’edizione definitiva del 1803: questi ultimi (Alla sera, A Zacinto, Alla Musa, In morte del fratello Giovanni) sono considerati i migliori della raccolta e tra i più belli della letteratura italiana.
I primi otto riconducono alle atmosfere del romanzo epistolare “Ultime lettere di Jacopo Ortis” e alle vicende autobiografiche del poeta, cariche di passione politica e sentimentale; numerose sono le reminiscenze classiche (Petrarca e Alfieri in particolare). Gli ultimi quattro si sottraggono alle suggestioni immediate della passione, per aprirsi alla meditazione su sentimenti universali ed eterni.
Il primo sonetto fu scritto tra il 1797 e il 1801: è uno dei più immaturi della raccolta, troppo ricercato nell’espressione, ma comunque psicologicamente sincero nella sua esposizione del crollo degli ideali, che inducono il poeta a considerare vana ogni cosa.

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

PARAFRASI:

Non sono più colui che ero; gran parte di me è morta:
quel che mi resta è solo struggimento e pianto.
E il mirto [la pianta sacra a Venere, simbolo dell’amore] è secco, e le foglie dell’alloro [simbolo della gloria poetica], primo incentivo alla mia poesia giovanile, sono avvizzite.

Perché dal giorno in cui un’empia licenza [la violenza rivoluzionaria che rende lecito l’assassinio] e Marte [la guerra]
mi rivestirono del loro manto di sangue,
la mia mente è divenuta cieca, e guasto il cuore, e l’uccidere
altri uomini è diventato per me arte [mestiere] e vanto.

Che se anche mi viene il pensiero di morire [con il suicidio],
da questo proposito crudele mi distolgono
l’ardente desiderio di gloria e l’affetto di figlio.

Così schiavo di me stesso, e d’altri, e del destino,
so qual è la cosa migliore da fare [cioè morire] eppure mi aggrappo a quella peggiore [cioè vivere],
e so invocare la morte ma non so darmela.






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