domenica 31 dicembre 2017

153 A se stesso (di Giacomo Leopardi)




Composta nel 1833, questa canzone nasce dal crollo dell’ultima illusione del poeta, l’amore (non corrisposto) per Fanny Targioni Tozzetti, che per un breve istante gli aveva fatto credere possibile la felicità in terra. Il disinganno è completo, ogni illusione è definitivamente scacciata. Tutto nella vita conduce alla morte, al danno per tutti gli esseri: tutto è un’infinita vanità.

 
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l'infinita vanità del tutto.

PARAFRASI:

Ora avrai posa per sempre,
mio stanco cuore. Morì l’estremo inganno,
che io credevo eterno. Morì. Sento bene,
che in me dei cari inganni,
non solo la speranza, ma è spento persino il desiderio.
Posa per sempre. Assai
hai palpitato. Non valgono niente
i tuoi moti, né è degna di sospiri
la terra. Amarezza e noia
la vita, nient’altro; e il mondo è fango.
Quietati ormai. Disperati
per l’ultima volta. Al nostro genere il destino
non ha donato che la morte. Ormai disprezza
te stesso, la natura, il brutto
potere che, nascosto, comanda al danno comune,
e l’infinita vanità di ogni cosa.









sabato 30 dicembre 2017

152 Canto notturno di un pastore errante dell'Asia (di Giacomo Leopardi)




Scritto a Recanati tra l’ottobre del ’29 e l’aprile del ’30, questo è l’ultimo dei grandi idilli. Lo spunto venne al poeta dalla lettura di un libro di un viaggiatore russo, il quale raccontava che i pastori Chirghisi passavano la notte seduti su un sasso, guardando la luna e improvvisando canti tristissimi. Ecco allora che Leopardi immagina i pensieri di un pastore, sperduto nell’immensa pianura asiatica, quali possono sorgere in un essere semplice, immune da ogni intellettualismo: a che serve la vita? Qual è lo scopo del nostro affaticarci continuo? Perché mettere al mondo figli, se poi dobbiamo continuamenti consolarli delle pene della vita? A che servono il tempo e l’universo? Io chi sono?

Domande senza risposta per il pastore (ma anche per Leopardi); beati gli animali, che se ne stanno oziosi e non si preoccupano di nulla, non si annoiano. O forse non è così? Forse per chiunque, sia un animale nato in un covile, sia l’uomo nato in una culla, nascere è soltanto una cosa funesta.


Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenzïosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
move la greggia oltre pel campo, e vede
greggi, fontane ed erbe;
poi stanco si riposa in su la sera:
altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con gravissimo fascio in su le spalle,
per montagna e per valle,
per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
al vento, alla tempesta, e quando avvampa
l'ora, e quando poi gela,
corre via, corre, anela,
varca torrenti e stagni,
cade, risorge, e più e più s'affretta,
senza posa o ristoro,
lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
colà dove la via
e dove il tanto affaticar fu volto:
abisso orrido, immenso,
ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
è la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
l'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
con atti e con parole
studiasi fargli core,
e consolarlo dell'umano stato:
altro ufficio più grato
non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
perché reggere in vita
chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
è lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
rida la primavera,
a chi giovi l'ardore, e che procacci
il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
A che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
quasi libera vai;
ch'ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
tu se' queta e contenta;
e gran parte dell'anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
e un fastidio m'ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sì che, sedendo, più che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
a bell'agio, ozïoso,
s'appaga ogni animale;
me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? -

Forse s'avess'io l'ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
più felice sarei, dolce mia greggia,
più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
forse in qual forma, in quale
stato che sia, dentro covile o cuna,
è funesto a chi nasce il dì natale.

 PARAFRASI:

Che fai tu, luna, in cielo? dimmi che fai,
luna silenziosa?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; poi cali.
Ancora non sei tu sazia
di percorrere gli eterni sentieri?
Ancora non provi noia, ancor sei desiderosa
di guardare queste valli?
Somiglia alla tua vita
la vita del pastore.
Si leva al primo albore,
muove il gregge giù per la pianura, e vede
greggi, sorgenti ed erbe;
poi stanco si riposa quand’è sera:
non aspetta mai altro.
Dimmi, o luna: a che serve
al pastore la sua vita,
la vostra vita a voi [astri del cielo]? Dimmi: dove tende
questo mio breve vagare,
il tuo corso immortale?

Un vecchierello canuto, infermo,
mezzo vestito e scalzo,
con un pesantissimo carico sulle spalle,
per montagne e per valli,
su sassi acuminati, e profonda sabbia, e sterpeti,
al vento, alla tempesta, sia quando l’ora
avvampa, sia quando poi gela,
corre via, corre, ansima,
varca torrenti e stagni,
cade, si rialza, e si affretta sempre di più,
senza fermarsi mai o riposarsi,
lacero, sanguinante; finché arriva
là dove il cammino
e la tanta fatica erano volti:
un abisso orribile, immenso,
dov’egli, precipitando, tutto dimentica.
Vergine luna, così
è la vita di noi mortali.

L’uomo nasce con fatica
e la nascita è rischio di morte.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e all’inizio stesso [della vita]
la madre e il padre
si danno a consolarlo dell’essere nato.
Poi quando cresce,
l’uno e l’altro lo sostengono, e continuamente
con atti e con parole
si sforzano di fargli coraggio,
e di consolarlo della sua condizione umana:
non c’è altro compito più grato
che i genitori possano fare per i propri figli.
Ma perché mettere al mondo,
perché mantenere in vita
chi poi bisogna consolare di quella?
Se la vita è sventura,
perché sopportiamo di continuare a vivere?
Intatta luna, così
è la condizione di noi mortali.
Ma tu non sei mortale,
e forse di quello che dico t’importa poco.

E tuttavia, solitaria, eterna pellegrina [del cielo],
che sei così pensosa, tu forse capisci
che cosa sia questo vivere terreno,
il nostro patire, il sospirare;
che cosa sia questo morire, quest’estremo
impallidire del volto [del morituro],
e questo svanire dal mondo, questo venir meno
alla compagnia consueta con le persone che amiamo.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il fine
del mattino, della sera,
del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, di sicuro, a quale dolce suo amore
rida la primavera,
a chi giovi il calore estivo, a che serva
l’inverno con i suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille ne scopri,
che sono nascoste al semplice pastore.
Spesso quando io ti osservo
stare così muta sulla pianura deserta,
che confina col cielo nel suo lontano orizzonte;
oppure seguirmi con il mio gregge
vagando a mano a mano;
e quando osservo in cielo le stelle che brillano;
dico fra me pensando:
A che scopo tante stelle?
a che serve l’aria infinita, e quel profondo
infinito sereno? che significa questa
immensa solitudine? e io che cosa sono?
Così ragiono tra me e me: e dell’universo
smisurato e superbo,
e dei suoi innumerevoli abitanti;
e anche di tanto affaccendarsi, di tanti movimenti
di ogni cosa celeste e terrena,
che gira senza posa,
per ritornare là da dove si è mossa;
alcuna utilità, alcun fine
non so immaginare. Ma tu di sicuro,
immortale giovinetta, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
che dei giri eterni,
che del mio fragile essere,
forse qualcun altro avrà
un vantaggio o un piacere; per me la vita è male.

O mio gregge che posi, oh te beato,
che non conosci, credo, la tua miseria!
Quanta invidia ti porto!
Non solo perché da ogni affanno
te ne vai quasi libero;
che ogni stento, ogni danno,
ogni timore estremo subito dimentichi;
ma soprattutto perché non provi mai noia.
Quando ti riposi all’ombra, sopra l’erba,
tu sei quieto e contento;
e gran parte dell’anno
trascorri in quello stato senza noia.
Anch’io mi siedo sopra l’erba, all’ombra,
ma un fastidio m’ingombra
la mente, e uno sprone quasi mi punge
così che, sedendo, più che mai son lontano
dal trovar pace e tranquillità.
Eppure non bramo nulla,
e non ho fin qui una causa vera di pianto.
Quello che tu godi e in che misura,
io non lo so dire; ma sei fortunato.
E anch’io godo poco,
o mio gregge, ma non mi lamento solo di questo.
Se tu sapessi parlare, io ti chiederei.
- Dimmi: perché giacendo
a proprio agio, ozioso,
ogni animale trova appagamento;
mentre io, se giaccio in riposo, sono assalito dal tedio? -

Forse se io avessi le ali
per volare sopra le nubi,
e contare le stelle ad una ad una,
o come il tuono errare di vetta in vetta,
sarei più felice, dolce mio gregge,
sarei più felice, candida luna.
O forse il mio pensiero è lontano dal vero,
considerando la sorte di chi è diverso da me:
forse in qualsiasi forma, in qualunque
condizione sia, dentro un covile o una culla,
è cosa funesta a chi nasce il giorno della nascita.








giovedì 28 dicembre 2017

151 Il sabato del villaggio (di Giacomo Leopardi)



Se nella Quiete dopo la tempesta Leopardi dice che il piacere consiste nella cessazione del dolore, nel Sabato del villaggio (scritto sempre nel settembre 1829) afferma che consiste anche nell’attesa di un bene che in realtà non accadrà. Ed ecco che il sabato è il giorno migliore della settimana, poiché tutti attendono l’illusoria felicità della domenica, che sarà invece una noia e una tristezza, perché, sempre protesi come siamo verso una felicità irraggiungibile, non faremo altro che pensare al giorno dopo e alle fatiche solite. Così accade per i fanciulli e i giovinetti: sono felici perché attendono il realizzarsi dei loro sogni nell’età adulta. Ma il poeta sa che questa è solo un’illusione ed invita il ragazzetto a godersi la sua età fiorita; non vuole dirgli nient’altro, non vuole cioè rovinargli l’unico momento di gioia della vita.

La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dì della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giù da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

PARAFRASI:

La ragazzetta torna dalla campagna,
quando il sole sta per calare,
con il suo fascio d’erba [per gli animali domestici], e tiene in mano
un mazzolino di rose e di viole,
con il quale, così come è solita fare,
si predispone ad ornare
domani, giorno di festa, il petto e i capelli.
Siede con le vicine
sulla scala una vecchietta intenta a filare,
rivolta verso la parte dove il giorno si perde [cioè a occidente];
e sta discorrendo del suo buon tempo [della giovinezza],
quando nei giorni di festa anch’essa si adornava,
e ancor sana e agile
era solita danzare alla sera insieme a quei
compagni che ebbe nell’età più bella.
Tutta l’aria si scurisce,
il cielo sereno si fa azzurro intenso, e le ombre tornano
giù dai colli e dai tetti,
mentre la luna appena sorta biancheggia.
Ora la campana annuncia
la festa che sta per arrivare;
e a quel suono ti vien da dire
che il cuore ne prova conforto.
I fanciulli gridando
in gruppo sulla piazzetta,
e saltando qua e là,
fanno un lieto rumore:
e intanto ritorna alla sua povera tavola,
fischiando, lo zappatore,
e tra sé pensa al giorno del suo riposo.

Poi quando tutto attorno ogni altra lampada è spenta,
e tutto il resto tace,
odi il martello picchiare, odi la sega
del falegname, che è ancora sveglio
nella bottega chiusa alla luce della lanterna,
e si affretta e si dà da fare
per consegnare il suo lavoro prima del chiarore dell’alba.

Di sette giorni questo è il più gradito,
pieno di speranza e di gioia:
domani le ore porteranno
tristezza e noia, e al consueto lavoro
ciascuno farà ritorno col pensiero.

Ragazzino scherzoso,
questa tua età fiorita
è come un giorno pieno d’allegria,
giorno chiaro, sereno,
che precede la festa della tua vita.
Godi, fanciullo mio; è uno stato soave,
una lieta stagione codesta.
Non voglio dirti altro; ma non ti sia un cruccio
se anche la tua festa tardi ad arrivare.










150 La quiete dopo la tempesta (di Giacomo Leopardi)




Composto nel settembre del 1829, poco prima del Sabato del villaggio, assieme a quello è considerato l’espressione più perfetta della poesia idillica leopardiana. Il componimento è suddiviso per contenuto in due parti: nella prima prevale il momento descrittivo del temporale che è finito e della vita che ricomincia felice e tutti (animali e uomini) riprendono le loro faccende quotidiane dopo le minacce e la paura dei fulmini e del vento. Nella seconda si passa alle riflessioni del poeta: il piacere non esiste in sé, esiste soltanto la cessazione del dolore; non la felicità, bensì l’affanno sorge spontaneamente negli uomini, perciò consideriamoci felici se ogni tanto esso ci lascia respirare. La stirpe umana può considerarsi beata se nella morte trova la fine dei suoi tormenti. Ma, al di là di queste desolate affermazioni, si stagliano nette nella poesia le immagini festose della prima parte, che ci ricordano l’insopprimibile amore per la vita di Leopardi.


Passata è la tempesta:
odo augelli far festa, e la gallina,
tornata in su la via,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
rompe là da ponente, alla montagna;
sgombrasi la campagna,
e chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
risorge il romorio,
torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
con l'opra in man, cantando,
fassi in su l'uscio; a prova
vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
della novella piova;
e l'erbaiuol rinnova
di sentiero in sentiero
il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi,
apre terrazzi e logge la famiglia:
e, dalla via corrente, odi lontano
tintinnio di sonagli; il carro stride
del passeggier che il suo cammin ripiglia.

 Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
l'uomo a' suoi studi intende?
o torna all'opre? o cosa nova imprende?
quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
gioia vana, ch'è frutto
del passato timore, onde si scosse
e paventò la morte
chi la vita abborria;
onde in lungo tormento,
fredde, tacite, smorte,
sudâr le genti e palpitâr, vedendo
mossi alle nostre offese
folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta
nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d'alcun dolor: beata
se te d'ogni dolor morte risana.

 PARAFRASI:

Passata è la tempesta:
odo gli uccelli che fanno festa, e la gallina,
tornata sulla strada,
che ripete il suo verso. Ecco il sereno
erompe là da occidente, verso la montagna;
la campagna si sgombra [delle manifestazioni temporalesche],
e il fiume appare chiaro nella valle.
Ogni cuore si rallegra, da ogni parte
ricomincia il rumore,
ritorna il lavoro consueto.
L’artigiano a guardare l’umido cielo,
con il suo lavoro in mano, cantando,
si affaccia all’uscio; a gara
esce la donnetta a cogliere l’acqua
della recente pioggia;
e l’erbivendolo ripete
di sentiero in sentiero
il suo richiamo giornaliero.
Ecco che ritorna il Sole, ecco che sorride
per i poggi e le ville. Apre i balconi,
apre i terrazzi e le logge la servitù:
e, dalla via maestra, odi in lontananza
un tintinnio di sonagli; stride la carrozza
del passeggero che riprende il suo cammino.

Ogni cuore si rallegra.
Così dolce, così gradita
come ora, quand’è la vita?
Quando con tanto amore
l’uomo attende alle sue occupazioni?
o torna alle sue faccende? o ne intraprende di nuove?
quando si ricorda meno dei suoi mali?
Il piacere è figlio dell’affanno;
gioia vana, che è frutto
del passato timore, a causa del quale si riscosse
ed ebbe paura della morte
chi la vita detesta,
a causa del quale per un periodo lungo e tormentoso,
fredde, tacite, smorte,
le persone sudarono e palpitarono, vedendo
scatenati per offenderci [per recarci offesa, male]
le folgori, le nuvole e il vento.

O natura cortese,
questi sono i tuoi doni,
queste sono le gioie
che tu porgi ai mortali. Uscire dalla pena
è il nostro [unico] diletto.
Tu spargi dolori a piene mani; il dolore
sorge spontaneo: e quel tanto di piacere
che talvolta quasi fosse un prodigio e un miracolo
nasce dall’affanno, va considerato un gran guadagno. Umana
stirpe cara agli dei! Assai felice
se ti è lecito [se ti riesce] riprenderti
da uno dei tuoi tanti dolori: beata
se la morte ti guarisce da ogni dolore.




149 Le ricordanze (di Giacomo Leopardi)



Scritto nell’agosto-settembre del 1829, questo componimento in endecasillabi sciolti e in strofe di diversa lunghezza, nasce dal ritorno a casa di Leopardi, dopo un’assenza di tre anni, e dalla marea di ricordi che ogni cosa, ogni ambiente suscitano in lui. Ricordi fatti dei sogni, delle speranze e delle illusioni della fanciullezza e dell’adolescenza, che si scontrano con la realtà attuale, vuota e inutile perché quei sogni si sono ormai infranti e la speranza più bella (quella dell’amore) è rappresentata da Nerina, una fanciulla simile a Silvia, come lei morta giovane, esattamente come le illusioni del poeta.
Ma se la giovinezza è ormai perduta, essa rivive nella memoria ed ha ancora la forza di suscitare favole bellissime, per quanto malinconiche; negli anni dei grandi idilli Leopardi scrisse nello Zibaldone che «la rimembranza è essenziale e principale al sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual che egli sia, non può essere poetico; in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago».

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l'aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l'aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de' servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l'età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di sé, ma perché tale estima
ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de' malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l'allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell'arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell'ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m'era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per varïar d'affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben voti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l'avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell'imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l'esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dì fatal tempererà d'affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d'angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro quell'acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de' miei poveri dì, che sì per tempo
cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co' silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l'antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d'ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

PARAFRASI:

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credevo
di tornare ancora come ero solito un tempo a contemplarvi
scintillanti sul giardino paterno
e a ragionare con voi dalle finestre
di questo albergo dove abitai fanciullo,
e vidi la fine delle mie gioie.
Quante immagini un tempo, e quante favole
il vostro aspetto mi creò nel pensiero
e quello delle altre stelle chi vi sono compagne! allora
che, taciturno, seduto sull’erba verde del prato,
solevo passar gran parte delle sere
contemplando il cielo, e ascoltando il canto
della rana remota nella campagna!
E la lucciola vagava presso le siepi
e sulle aiuole, mentre sussurravano al vento
i viali odorosi, ed i cipressi
là nel boschetto; e sotto al tetto paterno
risuonavano voci alterne, e le tranquille
faccende dei servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi ispirò la vista
di quel lontano mare, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che un giorno io pensavo
di varcare, fingendo per la mia vita
arcani mondi, arcana felicità!
ignaro del mio destino, e di quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
avrei cambiato volentieri con la morte.

Né il cuore mi diceva che la mia verde età
sarei stato condannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, in mezzo a gente
zotica e vile; per i quali sono nomi strani, e spesso
oggetto di riso e di derisione,
la dottrina e il sapere; che mi odia e mi fugge,
non già per invidia, perché non mi considera
superiore a sé, ma perché tale crede
che io mi consideri in cuor mio, sebbene esternamente
io non lasci mai trapelare con nessuno segno di ciò.
Qui passo gli anni, abbandonato, sconosciuto,
senza amore, senza vita; e intrattabile per forza di cose
divento tra la schiera di malevoli [che mi circondano]:
qui mi spoglio di pietà e di virtù,
e divento dispregiatore degli uomini,
per questo gregge che ho vicino: e intanto vola
il caro tempo giovanile; più caro
della fama e della gloria, più della pura
luce del giorno, e del respiro: ti perdo
senza un piacere, inutilmente, in questo
soggiorno indegno di un uomo, tra le angosce,
o unico fiore dell’arida vita.

Il vento viene recando con sé il suono dell’ora
dalla torre del borgo. Era di conforto
questo suono, mi ricordo, alle mie notti,
quando fanciullo, nella stanza buia,
stavo sveglio per continue paure,
sospirando che arrivasse il mattino. Qui non c’è cosa
che io veda o senta, da cui non torni dentro me
un’immagine, e non sorga un dolce ricordo.
Dolce per sé stesso; ma dolorosamente vi sottentra
il pensiero del presente, un vano desiderio
del passato, anche se doloroso, e la certezza che io fui [cioè che la mia vita è finita].
Quella loggia lassù, volta agli ultimi
raggi del giorno; questi muri dipinti,
quegli armenti raffigurati, e il Sole che sorge
sulla campagna solitaria, nelle ore di svago
mi porsero mille diletti allorché mi stava al fianco,
quasi parlasse, il mio potente errore [quello di sognare e illudersi]
sempre, dovunque fossi. In queste antiche sale,
al chiarore della neve, mentre intorno a queste
ampie finestre sibilava il vento,
rimbombarono i divertimenti e le grida
festose [di me bambino], nel tempo in cui l’acerbo, crudele
mistero delle cose si mostra a noi
pieno di dolcezza; illibata, intera
il ragazzo, come un amante inesperto,
vagheggia la sua vita ingannevole,
e fingendo la contempla come se fosse una bellezza divina.

O speranze, speranze; gioiosi inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; perché nonostante il trascorrere del tempo,
e il mutare degli affetti e dei pensieri,
non so dimenticarvi. Capisco che fantasmi
sono la gloria e l’onore; le gioie e i beni
nient’altro che desiderio; la vita non ha scopo,
inutile miseria. E sebbene vuoti
siano i miei anni, sebbene desolata, oscura
la mia condizione mortale, poco mi toglie
la fortuna, ben vedo. Ahi, ma ogni qual volta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
e a quella mia cara prima immaginazione;
se poi guardo il mio vivere così inutile
e così dolente, e [penso] che la morte è ciò
che oggi mi resta di così tante speranze;
sento serrarmi il cuore, sento che completamente
non so consolarmi del mio destino.
E quando questa morte pur invocata
mi sarà al fianco, e sarà giunto il termine
della mia sventura; quando la terra
mi sarà diventata una valle estranea, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenire; di voi certamente
mi ricorderò; e ancora quell’immagine
mi farà sospirare, mi farà rimpiangere
d’esser vissuto invano, e riempirà d’affanno
la dolcezza del dì fatale.

E già nel primo giovanile tumultuare
di gioia, d’angoscia e di desiderio,
invocai la morte più volte, e a lungo
mi sedetti là sulla fontana
pensando di por fine dentro quelle acque
alla speranza e al mio dolore. Poi, spinto a dubitare
di sopravvivere a causa di un male ignoto,
piansi la bella giovinezza, e il fiore
dei miei poveri giorni, che cadeva così
presto: e spesso a tarda ora, seduto
sul letto consapevole [dei miei mali fisici e spirituali], dolorosamente
poetando al [chiarore della] debole lucerna,
lamentai con il silenzio e con la notte
lo spirito che mi abbandonava, e a me stesso
sul languire [della vita] cantai un canto funebre.

Chi vi può ricordare senza sospiri,
o prima giovinezza, o giorni
felici, inenarrabili, allorché
per la prima volta al giovane estasiato
sorridono le ragazze; intorno quasi in gara
ogni cosa sorride; tace l’invidia,
ancora non destata oppure benigna; e quasi
(meraviglia fuori del consueto) il mondo [ossia gli uomini]
gli porge la destra in soccorso,
scusa i suoi errori, festeggia il nuovo
suo entrare nella vita, ed inchinandosi
gli mostra che lo chiama e l’accoglie come un signore?
Giorni fugaci! Simili a un lampo
si sono dileguati. E quale essere mortale può
ignorare la sua sventura, se per lui è già trascorsa
quella stagione vaga, se il suo tempo felice,
se giovinezza, ahi giovinezza, è spenta?

O Nerina! e non odo forse di te
parlare questi luoghi? forse tu sei caduta
dal mio pensiero? Dove sei andata,
che qui di te soltanto il ricordo
trovo, dolcezza mia? Non ti vede più
questa Terra natale: quella finestra,
da cui eri solita parlarmi, e su cui
risplende debole il raggio delle stelle,
è deserta. Dove sei, che non odo più
risuonare la tua voce, così come un giorno
quando ogni lontano accento della tua bocca,
che giungesse a me, era solito
farmi impallidire? Altro tempo. I tuoi giorni
sono andati, mio dolce amore. Passasti. Ad altri
oggi è dato di passare per la terra,
e di abitare questi colli odorosi.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Andavi danzando; in viso
ti splendeva la gioia, risplendeva negli occhi
quell’immaginazione fiduciosa, quella luce
della gioventù, quando il destino li ha spenti,
e tu giacevi. Ahi Nerina! Nel cuore mi regna
l’antico amore. Se talvolta ancora a feste,
a riunioni io vado, tra me e me
dico: o Nerina, a riunioni, a feste
tu non ti prepari più, tu più non vai.
Se torna maggio, e gli amanti vanno
recando ramoscelli e serenate alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non ritorna
più la primavera, non torna l’amore.
Ogni giorno sereno, ogni luogo fiorito
che io veda, ogni piacere che io senta,
dico: Nerina ora non gode più; i campi,
l’aria non vede. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e sarà compagna
di ogni mia vaga immaginazione, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cuore, il ricordo angoscioso.

La casa di Giacomo Leopardi