giovedì 28 dicembre 2017

149 Le ricordanze (di Giacomo Leopardi)



Scritto nell’agosto-settembre del 1829, questo componimento in endecasillabi sciolti e in strofe di diversa lunghezza, nasce dal ritorno a casa di Leopardi, dopo un’assenza di tre anni, e dalla marea di ricordi che ogni cosa, ogni ambiente suscitano in lui. Ricordi fatti dei sogni, delle speranze e delle illusioni della fanciullezza e dell’adolescenza, che si scontrano con la realtà attuale, vuota e inutile perché quei sogni si sono ormai infranti e la speranza più bella (quella dell’amore) è rappresentata da Nerina, una fanciulla simile a Silvia, come lei morta giovane, esattamente come le illusioni del poeta.
Ma se la giovinezza è ormai perduta, essa rivive nella memoria ed ha ancora la forza di suscitare favole bellissime, per quanto malinconiche; negli anni dei grandi idilli Leopardi scrisse nello Zibaldone che «la rimembranza è essenziale e principale al sentimento poetico, non per altro, se non perché il presente, qual che egli sia, non può essere poetico; in uno o in un altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago».

Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti,
e ragionar con voi dalle finestre
di questo albergo ove abitai fanciullo,
e delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
creommi nel pensier l'aspetto vostro
e delle luci a voi compagne! allora
che, tacito, seduto in verde zolla,
delle sere io solea passar gran parte
mirando il cielo, ed ascoltando il canto
della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
e in su l'aiuole, susurrando al vento
i viali odorati, ed i cipressi
là nella selva; e sotto al patrio tetto
sonavan voci alterne, e le tranquille
opre de' servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi spirò la vista
di quel lontano mar, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che varcare un giorno
io mi pensava, arcani mondi, arcana
felicità fingendo al viver mio!
ignaro del mio fato, e quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l'età verde
sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di sé, ma perché tale estima
ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
tra lo stuol de' malevoli divengo:
qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
e sprezzator degli uomini mi rendo,
per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
il caro tempo giovanil; più caro
che la fama e l'allor, più che la pura
luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
senza un diletto, inutilmente, in questo
soggiorno disumano, intra gli affanni,
o dell'arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon dell'ora
dalla torre del borgo. Era conforto
questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
quando fanciullo, nella buia stanza,
per assidui terrori io vigilava,
sospirando il mattin. Qui non è cosa
ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
il pensier del presente, un van desio
del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
raggi del dì; queste dipinte mura,
quei figurati armenti, e il Sol che nasce
su romita campagna, agli ozi miei
porser mille diletti allor che al fianco
m'era, parlando, il mio possente errore
sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
al chiaror delle nevi, intorno a queste
ampie finestre sibilando il vento,
rimbombaro i sollazzi e le festose
mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
mistero delle cose a noi si mostra
pien di dolcezza; indelibata, intera
il garzoncel, come inesperto amante,
la sua vita ingannevole vagheggia,
e celeste beltà fingendo ammira.

O speranze, speranze; ameni inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; che per andar di tempo,
per varïar d'affetti e di pensieri,
obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
son la gloria e l'onor; diletti e beni
mero desio; non ha la vita un frutto,
inutile miseria. E sebben voti
son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
il mio stato mortal, poco mi toglie
la fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
ed a quel caro immaginar mio primo;
indi riguardo il viver mio sì vile
e sì dolente, e che la morte è quello
che di cotanta speme oggi m'avanza;
sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
sarammi allato, e sarà giunto il fine
della sventura mia; quando la terra
mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
fuggirà l'avvenir; di voi per certo
risovverrammi; e quell'imago ancora
sospirar mi farà, farammi acerbo
l'esser vissuto indarno, e la dolcezza
del dì fatal tempererà d'affanno.

E già nel primo giovanil tumulto
di contenti, d'angosce e di desio,
morte chiamai più volte, e lungamente
mi sedetti colà su la fontana
pensoso di cessar dentro quell'acque
la speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
malor, condotto della vita in forse,
piansi la bella giovanezza, e il fiore
de' miei poveri dì, che sì per tempo
cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
sul conscio letto, dolorosamente
alla fioca lucerna poetando,
lamentai co' silenzi e con la notte
il fuggitivo spirto, ed a me stesso
in sul languir cantai funereo canto.

Chi rimembrar vi può senza sospiri,
o primo entrar di giovinezza, o giorni
vezzosi, inenarrabili, allor quando
al rapito mortal primieramente
sorridon le donzelle; a gara intorno
ogni cosa sorride; invidia tace,
non desta ancora ovver benigna; e quasi
(inusitata maraviglia!) il mondo
la destra soccorrevole gli porge,
scusa gli errori suoi, festeggia il novo
suo venir nella vita, ed inchinando
mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo
son dileguati. E qual mortale ignaro
di sventura esser può, se a lui già scorsa
quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?

O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
questa Terra natal: quella finestra,
ond'eri usata favellarmi, ed onde
mesto riluce delle stelle il raggio,
è deserta. Ove sei, che più non odo
la tua voce sonar, siccome un giorno,
quando soleva ogni lontano accento
del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
il passar per la terra oggi è sortito,
e l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
la gioia ti splendea, splendea negli occhi
quel confidente immaginar, quel lume
di gioventù, quando spegneali il fato,
e giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
l'antico amor. Se a feste anco talvolta,
se a radunanze io movo, infra me stesso
dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
dico: Nerina or più non gode; i campi,
l'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e fia compagna
d'ogni mio vago immaginar, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cor, la rimembranza acerba.

PARAFRASI:

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credevo
di tornare ancora come ero solito un tempo a contemplarvi
scintillanti sul giardino paterno
e a ragionare con voi dalle finestre
di questo albergo dove abitai fanciullo,
e vidi la fine delle mie gioie.
Quante immagini un tempo, e quante favole
il vostro aspetto mi creò nel pensiero
e quello delle altre stelle chi vi sono compagne! allora
che, taciturno, seduto sull’erba verde del prato,
solevo passar gran parte delle sere
contemplando il cielo, e ascoltando il canto
della rana remota nella campagna!
E la lucciola vagava presso le siepi
e sulle aiuole, mentre sussurravano al vento
i viali odorosi, ed i cipressi
là nel boschetto; e sotto al tetto paterno
risuonavano voci alterne, e le tranquille
faccende dei servi. E che pensieri immensi,
che dolci sogni mi ispirò la vista
di quel lontano mare, quei monti azzurri,
che di qua scopro, e che un giorno io pensavo
di varcare, fingendo per la mia vita
arcani mondi, arcana felicità!
ignaro del mio destino, e di quante volte
questa mia vita dolorosa e nuda
avrei cambiato volentieri con la morte.

Né il cuore mi diceva che la mia verde età
sarei stato condannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, in mezzo a gente
zotica e vile; per i quali sono nomi strani, e spesso
oggetto di riso e di derisione,
la dottrina e il sapere; che mi odia e mi fugge,
non già per invidia, perché non mi considera
superiore a sé, ma perché tale crede
che io mi consideri in cuor mio, sebbene esternamente
io non lasci mai trapelare con nessuno segno di ciò.
Qui passo gli anni, abbandonato, sconosciuto,
senza amore, senza vita; e intrattabile per forza di cose
divento tra la schiera di malevoli [che mi circondano]:
qui mi spoglio di pietà e di virtù,
e divento dispregiatore degli uomini,
per questo gregge che ho vicino: e intanto vola
il caro tempo giovanile; più caro
della fama e della gloria, più della pura
luce del giorno, e del respiro: ti perdo
senza un piacere, inutilmente, in questo
soggiorno indegno di un uomo, tra le angosce,
o unico fiore dell’arida vita.

Il vento viene recando con sé il suono dell’ora
dalla torre del borgo. Era di conforto
questo suono, mi ricordo, alle mie notti,
quando fanciullo, nella stanza buia,
stavo sveglio per continue paure,
sospirando che arrivasse il mattino. Qui non c’è cosa
che io veda o senta, da cui non torni dentro me
un’immagine, e non sorga un dolce ricordo.
Dolce per sé stesso; ma dolorosamente vi sottentra
il pensiero del presente, un vano desiderio
del passato, anche se doloroso, e la certezza che io fui [cioè che la mia vita è finita].
Quella loggia lassù, volta agli ultimi
raggi del giorno; questi muri dipinti,
quegli armenti raffigurati, e il Sole che sorge
sulla campagna solitaria, nelle ore di svago
mi porsero mille diletti allorché mi stava al fianco,
quasi parlasse, il mio potente errore [quello di sognare e illudersi]
sempre, dovunque fossi. In queste antiche sale,
al chiarore della neve, mentre intorno a queste
ampie finestre sibilava il vento,
rimbombarono i divertimenti e le grida
festose [di me bambino], nel tempo in cui l’acerbo, crudele
mistero delle cose si mostra a noi
pieno di dolcezza; illibata, intera
il ragazzo, come un amante inesperto,
vagheggia la sua vita ingannevole,
e fingendo la contempla come se fosse una bellezza divina.

O speranze, speranze; gioiosi inganni
della mia prima età! sempre, parlando,
ritorno a voi; perché nonostante il trascorrere del tempo,
e il mutare degli affetti e dei pensieri,
non so dimenticarvi. Capisco che fantasmi
sono la gloria e l’onore; le gioie e i beni
nient’altro che desiderio; la vita non ha scopo,
inutile miseria. E sebbene vuoti
siano i miei anni, sebbene desolata, oscura
la mia condizione mortale, poco mi toglie
la fortuna, ben vedo. Ahi, ma ogni qual volta
a voi ripenso, o mie speranze antiche,
e a quella mia cara prima immaginazione;
se poi guardo il mio vivere così inutile
e così dolente, e [penso] che la morte è ciò
che oggi mi resta di così tante speranze;
sento serrarmi il cuore, sento che completamente
non so consolarmi del mio destino.
E quando questa morte pur invocata
mi sarà al fianco, e sarà giunto il termine
della mia sventura; quando la terra
mi sarà diventata una valle estranea, e dal mio sguardo
fuggirà l’avvenire; di voi certamente
mi ricorderò; e ancora quell’immagine
mi farà sospirare, mi farà rimpiangere
d’esser vissuto invano, e riempirà d’affanno
la dolcezza del dì fatale.

E già nel primo giovanile tumultuare
di gioia, d’angoscia e di desiderio,
invocai la morte più volte, e a lungo
mi sedetti là sulla fontana
pensando di por fine dentro quelle acque
alla speranza e al mio dolore. Poi, spinto a dubitare
di sopravvivere a causa di un male ignoto,
piansi la bella giovinezza, e il fiore
dei miei poveri giorni, che cadeva così
presto: e spesso a tarda ora, seduto
sul letto consapevole [dei miei mali fisici e spirituali], dolorosamente
poetando al [chiarore della] debole lucerna,
lamentai con il silenzio e con la notte
lo spirito che mi abbandonava, e a me stesso
sul languire [della vita] cantai un canto funebre.

Chi vi può ricordare senza sospiri,
o prima giovinezza, o giorni
felici, inenarrabili, allorché
per la prima volta al giovane estasiato
sorridono le ragazze; intorno quasi in gara
ogni cosa sorride; tace l’invidia,
ancora non destata oppure benigna; e quasi
(meraviglia fuori del consueto) il mondo [ossia gli uomini]
gli porge la destra in soccorso,
scusa i suoi errori, festeggia il nuovo
suo entrare nella vita, ed inchinandosi
gli mostra che lo chiama e l’accoglie come un signore?
Giorni fugaci! Simili a un lampo
si sono dileguati. E quale essere mortale può
ignorare la sua sventura, se per lui è già trascorsa
quella stagione vaga, se il suo tempo felice,
se giovinezza, ahi giovinezza, è spenta?

O Nerina! e non odo forse di te
parlare questi luoghi? forse tu sei caduta
dal mio pensiero? Dove sei andata,
che qui di te soltanto il ricordo
trovo, dolcezza mia? Non ti vede più
questa Terra natale: quella finestra,
da cui eri solita parlarmi, e su cui
risplende debole il raggio delle stelle,
è deserta. Dove sei, che non odo più
risuonare la tua voce, così come un giorno
quando ogni lontano accento della tua bocca,
che giungesse a me, era solito
farmi impallidire? Altro tempo. I tuoi giorni
sono andati, mio dolce amore. Passasti. Ad altri
oggi è dato di passare per la terra,
e di abitare questi colli odorosi.
Ma rapida passasti; e come un sogno
fu la tua vita. Andavi danzando; in viso
ti splendeva la gioia, risplendeva negli occhi
quell’immaginazione fiduciosa, quella luce
della gioventù, quando il destino li ha spenti,
e tu giacevi. Ahi Nerina! Nel cuore mi regna
l’antico amore. Se talvolta ancora a feste,
a riunioni io vado, tra me e me
dico: o Nerina, a riunioni, a feste
tu non ti prepari più, tu più non vai.
Se torna maggio, e gli amanti vanno
recando ramoscelli e serenate alle fanciulle,
dico: Nerina mia, per te non ritorna
più la primavera, non torna l’amore.
Ogni giorno sereno, ogni luogo fiorito
che io veda, ogni piacere che io senta,
dico: Nerina ora non gode più; i campi,
l’aria non vede. Ahi tu passasti, eterno
sospiro mio: passasti: e sarà compagna
di ogni mia vaga immaginazione, di tutti
i miei teneri sensi, i tristi e cari
moti del cuore, il ricordo angoscioso.

La casa di Giacomo Leopardi


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