sabato 2 dicembre 2017

138 La morta (di Guy de Maupassant)



Pubblicato il 31 maggio 1887 sul quotidiano francese Gil Blas (che fu in vendita dal 1879 al 1914 e pubblicava soprattutto testi letterari), questo racconto a carattere decisamente fantastico espone però quella visione della vita e dei rapporti sociali (ancora oggi fortemente anticonformista) per cui lo scrittore francese è noto.

   L’avevo amata alla follia. Perché si ama? È strano non vedere più al mondo che un unico essere, non avere più nell’animo che un pensiero, nel cuore che un desiderio, e nella bocca che un nome: un nome che ritorna in continuazione, che rimonta come l’acqua di una sorgente dal profondo dell’anima, che sale alle labbra e che si dice e si ridice, che si sussurra senza sosta, ovunque, come una preghiera.
   Non starò a raccontare la nostra storia. L’amore ne ha una soltanto, sempre la stessa. L’avevo incontrata e amata. Tutto qui. E per un anno avevo vissuto nella sua tenerezza, nelle sue braccia, nelle sue carezze, nel suo sguardo, nei suoi vestiti, nella sua parola, avviluppato, legato, prigioniero di tutto ciò che era suo, talmente preso che non sapevo più se era giorno o notte, se ero morto o vivo, sulla terra o altrove.
   Ed ecco che muore. Come? Non lo so, non lo so più.
   Una sera di pioggia rientrò bagnata fradicia e l’indomani cominciò a tossire. Tossì per circa una settimana, poi si mise a letto.
   Che cosa successe? Non lo so più.
   I medici venivano, scrivevano, se ne andavano. Arrivavano medicine, una donna gliele faceva prendere. Aveva le mani calde, la fronte bruciava ed era umidiccia, lo sguardo lucido e triste. Le parlavo, mi rispondeva. Che cosa ci siamo detti? Non lo so più. Ho dimenticato tutto, tutto! Morì; mi ricordo perfettamente il piccolo sospiro, un sospiro così flebile, l’ultimo. L’infermiera disse: “Ah!” E io capii, capii.
   Non ho saputo più niente. Niente. Vidi un prete che pronunciò questa parola: “La vostra amante”. Mi parve un insulto. Dal momento che era morta non si aveva più il diritto di dirlo. Lo cacciai. Ne arrivò un altro che fu molto buono, molto dolce. Piansi quando mi parlò di lei.
   Fui consultato sui mille dettagli della sepoltura. Non so più. Eppure mi ricordo benissimo la bara, il rumore dei colpi di martello, quando lei fu rinchiusa dentro. Ah! Mio Dio!
   Fu sepolta! Sepolta! Lei! In quel buco. Erano venute alcune persone, delle amiche. Scappai via. Corsi. Camminai a lungo per le strade. Poi rientrai a casa. L’indomani partii per un viaggio.

   Ieri, sono rientrato a Parigi.
   Quando vidi la mia stanza, la nostra stanza, il nostro letto, i nostri mobili, tutta quella casa dove è rimasto tutto ciò che resta della vita di una persona dopo la sua morte, fui sommerso da un’ondata di dolore tanto violenta che fui sul punto di aprire la finestra e di buttarmi giù. Non potendo più restare in mezzo a quelle cose, a quelle pareti che l’avevano circondata, protetta, e che dovevano conservare nelle impercettibili fessure migliaia di atomi suoi, della sua carne e del suo respiro, presi il cappello per scappare via. A un tratto, nel giungere alla porta, passai davanti alla specchiera dell’ingresso che lei aveva fatto mettere là per vedersi ogni giorno, dalla punta dei piedi alla testa, al momento di uscire, per vedere se l’insieme poteva andare, se era a posto e graziosa, dalle scarpe all’acconciatura.
   Di colpo mi fermai davanti a quella specchiera che l’aveva riflessa tante volte. E così spesso, così tanto che ne doveva aver conservato addirittura l’immagine.
   Fremente, me ne stavo lì in piedi con gli occhi fissi sulla lastra piatta, profonda, vuota, che però l’aveva avuta tutta intera, posseduta come me, come il mio sguardo appassionato. Mi sembrò di amare quello specchio – lo toccai – era freddo! Oh! Il ricordo! Il ricordo! Specchio doloroso, specchio bruciante, specchio vivente, specchio orribile, che fa subire mille torture! Beati quegli uomini con il cuore come uno specchio, dove le immagini riflesse scivolano e si cancellano, che dimentica tutto ciò che ha avuto, tutto ciò che gli è passato davanti, tutto ciò che si è contemplato, rimirato, nel suo affetto, nel suo amore! Quanto soffro!
   Uscii; e, senza saperlo, senza volerlo, presi mio malgrado la strada del cimitero, trovai la sua semplice tomba, una croce di marmo con queste poche parole: “Amò, fu riamata e morì!”
   Era là, là sotto, marcita! Che orrore! Singhiozzavo con la fronte per terra.
   Vi rimasi a lungo, molto a lungo. Poi mi accorsi che stava facendosi buio. Allora un desiderio strano, folle, un desiderio da innamorato disperato si impadronì di me. Volli passare la notte accanto a lei, un’ultima notte, a piangere sulla sua tomba. Però potevo essere visto e cacciato. Come fare? Fui astuto. Mi alzai e cominciai a girovagare in quella città di defunti. Continuavo a camminare. Come era piccola quella città in confronto all’altra, quella dove viviamo! Eppure, quei morti sono di più. Noi abbiamo bisogno di case alte, strade, spazio per le quattro generazioni che guardano assieme il giorno, bevono l’acqua delle sorgenti, il vino delle vigne, e mangiano il pane delle vallate.
   E invece per tutte quelle generazioni di morti, per tutta la discendenza dell’umanità, fino a noi, quasi niente, un campo, quasi niente. La terra li riprende, l’oblio li cancella. Addio!
   Alla fine del cimitero abitato, vidi all’improvviso il cimitero abbandonato, quello dove i vecchi defunti finiscono di confondersi con la terra, dove marciscono persino le croci, dove domani verranno messi gli ultimi arrivati. È pieno di rose selvatiche, di cipressi robusti e neri, un giardino triste e grandioso, nutrito di carne umana.
   Ero solo, assolutamente solo. Mi accucciai al riparo di un albero verde. Mi nascosi, fra i rami frondosi e scuri.
   E rimasi ad aspettare, aggrappato al tronco come un naufrago al relitto.

   Quando la notte fu nera, nerissima, lasciai il mio nascondiglio e mi misi a camminare tranquillamente, a passi lenti e misurati, su quella terra piena di morti.
   Girovagai per ore ed ore. Non la ritrovavo. Con le braccia tese, gli occhi aperti, urtavo le tombe con le mani, i piedi, le ginocchia, il petto, persino con la testa; continuavo a camminare senza trovarla. Toccavo, palpavo come un cieco che cerca la strada, palpavo le pietre, le croci, le grate di ferro, le corone di vetro, le corone di fiori appassiti! Leggevo i nomi con le dita, passandole sulle lettere. Che notte! Che notte! Continuavo a non trovarla!
   Senza luna! Che notte! Avevo paura, una paura terribile in quei sentieri stretti, tra due file di tombe! Tombe! Tombe! Tombe! Sempre tombe! A destra, a sinistra, davanti a me, intorno a me, dappertutto tombe! Su una mi misi a sedere perché non ero più in grado di camminare, tanto mi si piegavano le ginocchia! Mi sentivo battere il cuore! Ma sentivo anche qualcos’altro! Che cosa? Un rumore confuso, indicibile! Ma quel rumore era dentro la mia testa sconvolta, nella notte impenetrabile o sotto la terra misteriosa, sotto la terra seminata di cadaveri umani? Mi guardavo attorno!
   Per quanto tempo sono rimasto là? Non lo so. Ero paralizzato dal terrore, ero ebbro di spavento, pronto a urlare, pronto a morire.
   Poi, tutto a un tratto, ebbi l’impressione che la lastra di marmo sulla quale ero seduto si muovesse. Ma certo, si muoveva come se venisse sollevata. Balzai sulla tomba accanto, e vidi, sì, vidi la pietra che avevo appena lasciato sollevarsi completamente; apparve il morto, uno scheletro nudo che con la schiena curva la scostava. Vedevo, vedevo bene malgrado la notte fosse profonda. Potei leggere sulla croce:
   “Qui giace Jacques Olivant, deceduto all’età di cinquantuno anni. Amava la sua famiglia, fu onesto e buono, e morì nella pace del Signore”.
   Adesso anche il morto leggeva le cose scritte sulla sua tomba. Poi, raccolse una pietra sulla via, una piccola pietra aguzza e cominciò a grattare con cura quelle parole. Le cancellò del tutto, lentamente, guardando con gli occhi cavi lo spazio dove prima erano incise, e con la punta dell’osso che era stato il suo indice, scrisse con lettere fosforescenti simili alle righe che si tracciano sulle pareti con la punta del fiammifero:
   “Qui giace Jacques Olivant, deceduto all’età di cinquantuno anni. Con le sue cattiverie accelerò la morte del padre, dal quale desiderava ereditare, torturò la moglie, tormentò i figli, imbrogliò i vicini, rubò quanto più poté e morì come un miserabile”.
   Quando ebbe finto di scrivere, il morto contemplò immobile la sua opera. Girandomi, mi accorsi che tutte le tombe erano aperte, che tutti i cadaveri ne erano usciti, che tutti avevano cancellato le menzogne scritte dai parenti sulla lapide funeraria al fine di ristabilire la verità.
   E constatavo che tutti erano stati i boia dei loro cari, astiosi, disonesti, ipocriti, bugiardi, furbi, calunniatori, invidiosi, che avevano rubato, imbrogliato, compiuto atti vergognosi, tutti gli atti peggiori, quei buoni padri, quelle spose fedeli, quei figli devoti, quelle fanciulle caste, quei commercianti onesti, quegli uomini e quelle donne irreprensibili.
   Sulla soglia della loro dimora eterna scrivevano tutti assieme la crudele, terribile e santa verità che la gente ignora o finge di ignorare sulla terra.
   Mi venne in mente che anche lei aveva dovuto inciderla sulla sua tomba. E adesso, senza paura, correndo tra le bare socchiuse, in mezzo ai cadaveri, agli scheletri, andai da lei, sicuro che l’avrei trovata subito.
   La riconobbi da lontano, senza vederle il viso avvolto nel sudario.
   E sulla croce di marmo sulla quale avevo appena letto:
   “Amò, fu riamata e morì”.
   Vidi:
   “Era uscita per tradire il suo amante, prese freddo sotto la pioggia e morì”.
   A quanto pare fui trovato svenuto all’alba, vicino a una tomba.






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