venerdì 8 dicembre 2017

142 Politici e giornalisti in difesa del Mata Gato (di Jorge Amado)




Le prime baracche costruite sulla collina del Mata Gato sono state abbattute dalla polizia; Negro Massu ha reagito ed è stato picchiato. Su consiglio del saggio Jesuíno Gallo Pazzo, gli abusivi hanno cominciato a ricostruire tutte le loro misere casupole. Ma ora l’intera vicenda si fa appetitosa per una lunga serie di personaggi senza tanti scrupoli.
Il giornalista Jacó Galub, capo redattore di un giornale dell’opposizione, si butta a capofitto sulla vicenda, nella speranza di far successo. Il direttore del giornale, amico del malavitoso che gestisce il gioco del bicho, ha tentato senza successo la carriera politica, ma ora può incastrare l’odioso Capo della Polizia. Anche i politici dell’opposizione sfruttano l’invasione per dare addosso al governo. E intanto la gente della favela diventa sempre più numerosa…

Il martedì seguente, il servizio dell’anno scoppiava con titoli su otto colonne sulla «Gazeta de Salvador», giornale d’opposizione, al momento bisognoso, e con urgenza, di denaro e di lettori. Sentiva il contraccolpo della sconfitta elettorale. Il direttore del giornale, Airton Melo, si era candidato a deputato federale, aveva investito nella campagna elettorale un sacco di soldi, principalmente denaro degli altri, ma anche le riserve del giornale. Non era stato eletto, era rimasto a piedi in una disonorevole posizione di quarto vice, e ancora non poteva decentemente passare alla maggioranza. Guardando le foto scattate al Mata Gato (dove, con un fotografo, era tornato Jacó il lunedì) e facendo una smorfia di disgusto alla vista della bocca sdentata di dona Filó aperta verso l’obiettivo in un ampio sorriso, un grappolo di figli appesi alle braccia e alle anche, Airton Melo, il probo giornalista, il «guardiano di notte del denaro pubblico» (come durante la campagna elettorale l’aveva definito il suo stesso giornale) spiegò a Jacó:
«Un po’ di bastonate alla colonia spagnola non fanno alcun danno. Questi galegos (1) si fanno sempre più avari, non mollano un centesimo manco morti. Metta un po’ con le spalle al muro questo mascalzone del Perez, e generalizzi quella storia degli ottocento grammi, così facendo il giornale non ne calunnierà poi un gran numero. Naturalmente, non dimentichi di far allusione alle onorevoli eccezioni. Vedrà che ci scuciono subito qualcosa, e Dio sa se ne abbiamo bisogno. Siamo in un momento duro, sor Jacó…»
«E il governo?»
Airton de Melo sorrise, si considerava un uomo politico di alta classe, sottilissimo, erede di tutte le astuzie dei vecchi bonzi (2) baiani:
«Botte da orbi al governo, caro mio. Botte da lasciare il segno. Ma,» abbassò la voce in tono confidenziale «cerchi di risparmiare il Governatore. Per lui, solo un appello alla sua coscienza di uomo pubblico e al suo buon cuore. Certamente lui è all’oscuro di ciò che accade, ecc. ecc., conosce la litania. Invece, legnate senza misericordia al Capo della Polizia. È lui il tipo della campagna contro il gioco, ha detto che intende farla finita col gioco del bicho. Il giornale, purtroppo, non si può mettere a difendere il gioco né i bicheiros (3)… Ma con questa storia dell’invasione della collina, si può dare addosso ad Albuquerque» il nome del Capo della Polizia era Nestor Albuquerque «e magari riusciremo a farlo cadere. E avremo un bel finanziamento per la campagna elettorale… La gente del bicho…»
Accese un sigaro, ne espirò il fumo. Guardò Jacó con affetto:
«Se la cosa riesce, mio caro, non mi dimenticherò di lei. Sa bene che non sono un ingrato…»
Si sentiva generoso, intravvedendo la possibilità di una bella mazzetta. Il suo tenore di vita era dispendioso: due famiglie, la civile e la militare, quella emulazione fra sua moglie, Rita, e la sua amante, Rosa, per vedere chi spendeva di più. La coppia RR, i ratti roditori, come diceva lui stesso con un certo cinismo, gli rosicchiavano le finanze.
Jacó Galub considerò il suo direttore, sparpagliato nella poltrona. A modo suo un grand’uomo. Ma se lui, Galub, si fosse lasciato incantare dalle sue promesse e avesse contato sulla sua generosità, sarebbe morto di fame. Ora morir di fame non era nei piani di Galub. Era un uomo ambizioso, le sue giocate le faceva per proprio conto, e se non protestava per il salario di miseria che gli passava Airton Melo, era perché si serviva delle colonne del giornale per i propri scavi personali. Era attivo e intelligente, buon giornalista, sprovvisto di ogni scrupolo e di ogni forma di sentimentalismo. Freddo benché apparentemente passionale, aveva come unico desiderio quello di farsi un nome, andare a Rio, aver successo nella stampa importante, guadagnar molto denaro, ottenere uno di quei posti favolosi… Ce l’avrebbe fatta, ne era certo. Anche lui sorrise al «probo giornalista»:
«Stia tranquillo, avremo una campagna spettacolosa. Il prestigio del giornale crescerà a dismisura. Anche le copie vendute. Intendo mettermi a capo dell’invasione.»
«Servizi commoventi, mi raccomando, cuore; strappi lacrime a tutti con la storia di quella povera gente che non ha un buco dove abitare… Cuore!»
«Lasci fare a me…»
Appena uscito il corrispondente, Airton Melo prese il telefono, attese con impazienza il segnale per fare il numero. Quando finalmente ebbe la linea, compose un numero, avuta risposta chiese:
«Otávio c’è? Sono il dottor Airton Melo…»
E quando Otávio Lima, signore del gioco del bicho della capitale e città circonvicine prese la comunicazione lo informò:
«Sei tu, Otávio? Dobbiamo incontrarci, mio caro. Ho finalmente in mano gli assi per buttar giù Albuquerque…»
Una pausa d’ascolto:
«Stavolta ce li ho davvero… Una campagna sensazionale. Ti spiegherò personalmente…»
Sorrise alla proposta dell’altro:
«Nel tuo ufficio? Sei matto? Se mi vedono lì da te, diranno subito che stai comprando il mio giornale… No, a casa mia…»
Altra pausa, il re del bicho domandava qualcosa.
«Quale delle due?» il giornalista ripeté la domanda, riflettendo. «In casa di Rosa, staremo più a nostro agio…»
Così, in quel martedì in cui un servizio con titoloni in prima pagina occupava tutta l’ottava pagina del giornale – vi brillava, senza denti ma con numerosissimi figli, dona Filó, le cui dichiarazioni al corrispondente erano da spezzare il cuore – tutto materiale a firma di Jacó Galub, la «Gazeta de Salvador» dava inizio a una campagna «in difesa della gente povera, senza casa, spinta dal bisogno a occupare terreni abbandonati», campagna che fece epoca nella stampa baiana.
In quella prima settimana, Jacó si fece in quattro. Passò buona parte del suo tempo al Mata Gato, ascoltando le dichiarazioni di alcuni, incoraggiando altri, asserendo che, con l’appoggio della «Gazeta de Salvador», potevano costruire tutto quel che volevano, erano protetti. E in effetti i servizi furono un vero e proprio segnale di richiamo. Se la prima invasione della collina era stata un’azione concertata fra amici, attuata da Massu, Jesus, Curió, Bei Capelli, tutti conoscenti, compari, parenti, compagni di cachaça e chiacchiere, dopo i falò della polizia e l’inizio dei servizi della «Gazeta» cominciò ad apparire gente da tutte le parti, gente che trasportava tavole di legno, cassette, tutto quanto si può usare come materiale da costruzione. E dieci giorni dopo le case erano più di cinquanta, e il numero tendeva ad aumentare.
I servizi di Jacó obbedivano fedelmente alle istruzioni di Airton Melo: dare addosso al governo, al Capo della Polizia violento e incapace, al soldo dei magnati della colonia spagnola. Nel primo servizio, Jacó riferiva le informazioni ricevute da Jesuíno e dagli altri abitanti, come tutta la faccenda aveva avuto inizio: gente senza tetto che si dirigeva a quei terreni abbandonati per ivi costruirsi una casupola. Poi, la denuncia di Pepe Ottocento – il milionario José Perez anni addietro noto col pittoresco soprannome di Pepe Ottocento Grammi – e l’azione violenta comandata dallo Chico Pinóia, l’abituale torturatore di arrestati, per ordine diretto di Albuquerque, «il tenebroso Capo della Polizia, l’intollerante dottorino, di scarse lettere e molta presunzione». La ripassata subita da Massu era descritta nei particolari: il negro che difendeva la sua casetta, la vita di sua nonna e quella del suo bimbo in tenera età, i poliziotti lo avevano immobilizzato per poter dar fuoco alla sua casa. In effetti le cose erano andate proprio così, solo che Jacó aveva fatto Massu vittima delle botte della polizia anzitempo, facendo sparire completamente l’aggressione del negro. A Massu la faccenda non andò a genio. Nel servizio ci faceva la figura di un povero diavolo che le busca dalla polizia senza reagire. Gli ci volle del bello e del buono, a Jacó, per spiegargli le sue ragioni e placare il risentimento del negro.
Attaccando il governo, e soprattutto il Capo della Polizia, il giornalista non fece carico di niente al Governatore. Anzi, lasciò andare qualche allusione al suo buon cuore, cui faceva appello. Al suo patriottismo, anche. Era tempo che il governo si ricordasse che ci si trovava in un paese libero, scriveva Jacó, e non in una «colonia spagnola». C’era una fiorente colonia spagnola a Bahia, composta per lo più di brava gente, onesta e lavoratrice, cui molto doveva lo Stato per il suo progresso, ma nel seno della quale esistevano anche alcuni mascalzoni patentati, le cui fortune riposavano su illeciti guadagni, come la «Gazeta de Salvador» si proponeva di provare in una serie di servizi. Ma c’era una certa differenza fra l’avere a Bahia una colonia spagnola, e divenire una «colonia della colonia spagnola». Eppure, il signor Capo della Polizia, dottor Albuquerque, il re degli animali, così soprannominato per le sue lunghe persecuzioni contro i bicheiros (con che secondo fine?), si precipitava di corsa a obbedire a una richiesta di Pepe Ottocento Grammi, espellendo da terre rese al demanio, abbandonate, inutili, dei cittadini brasiliani, onorati e lavoratori, il cui solo crimine era la povertà. Per il Capo della Polizia non poteva esistere crimine peggiore, affermava Jacó, il personaggio era una creatura dei ben dotati di beni di fortuna, e principalmente dei galegos, gente che passava il tempo a fregare sul peso.
Da tempo non si era visto sulla stampa baiana un servizio così sensazionale e virulento, che toccava gente così importante. L’edizione del giornale si esaurì, il giorno seguente fu aumentata la tiratura.
Alcuni degli abitanti le cui foto erano state stampate sul giornale avevano rilasciato dichiarazioni, rimaneggiate da Jacó; Dagmar la bella era stata fotografata in una posa da attrice del cinema, in costume da bagno, il che le valse un certo numero di sberle applicate da Bei Capelli. La sua donna non doveva andare a mostrare cosce e seno dalle pagine dei giornali. Battuta, Dagmar aveva accusato il fotografo di frode, aveva fatto le foto senza che lei se ne accorgesse; affermazione discutibile, per non dire sfacciata menzogna. Ma queste son faccende di famiglia, non ci ficcheremo il naso. Solo constatiamo, per migliorare la nostra conoscenza delle donne in particolare e della vita in generale, che dopo gli schiaffi Dagmar si era fatta, non solo più discreta, ma anche assai più affettuosa.
Stella di prima grandezza brillò Dona Filó. Scarna e spettinata, col suo abituccio nero stracciato, un figlio per anca, uno per seno, gli altri stretti intorno, era l’immagine stessa della miseria. Perfino riviste di Rio, col correre degli eventi, avevano comprato le sue foto per pubblicarle. Le avevano comprate al fotografo, naturalmente. Dona Filó non vide un centesimo dei diritti. Ma in compenso fu orgogliosissima di vedere la sua foto sui giornali. Cominciò a chiedere di più per affittare i bambini: ormai avevano un nome e un ruolo. Jacó le aveva attribuito la frase di Jesuíno: «Loro buttano giù e noi si ricostruisce un’altra volta». Ma col passar del tempo la frase cominciò a essere creduta dello stesso Galub, visto che più volte il giornalista l’aveva ripetuta nei suoi servizi, come affermazione e minaccia, senza ricordarne l’autore, convinto lui stesso, alla fine, di essere il padre della frase celebre. Paternità leggermente disputata dal Deputato Ramos da Cunha, capo dell’opposizione all’Assemblea Costituente, focoso tribuno. In uno dei suoi discorsi, l’uomo politico infilò una perorazione drammatica:
«Può la prepotenza del signor Capo della Polizia, può l’arroganza del milionario Perez, può l’indifferenza del governo, possono le autorità e i loro accoliti, incendiare la case della povera gente. Noi, popolo, le ricostruiremo. Sulle ceneri dell’incendio criminale, noi, il popolo, rifaremo le nostre case. Dieci, venti, mille volte se necessario.»
Era un leader dalla figura carismatica, avvocato, figlio di un colonnello dell’interno. Erede d’immensi latifondi, non possedeva tuttavia terreni nella capitale, gl’interessava dare addosso al governo. Si era laureato di recente, il padre lo aveva fatto eleggere deputato. Purché non si trattasse di riforma agraria, il giovane leader Ramos da Cunha dal verbo facile e sonante, era perfino piuttosto progressista, e con frequenza tale aggettivo era usato dalla stampa come qualificativo parlando di lui. A seguito della campagna in relazione all’invasione della collina del Mata Gato, giunse ad essere accusato di idee comuniste. Pur trattandosi di sospetti senza fondamento, voci calunniose messe in giro da nemici politici, gli davano una certa qual aura popolare.
Tornando a dona Filó, fu forse lei la maggior beneficiaria dei servizi di Jacó Galub. Moralmente parlando. Veniva presentata come una madre amorosissima, che si ammazzava di lavoro per sostentare i sette figli. Vaghe allusioni a un padre sparito le davano la necessaria copertura morale, trasformandola in una moglie abbandonata, vittima della società e del marito. Lungi da noi l’intenzione di negare le virtù di dona Filó: molto meritevole senza dubbio, donna lavoratrice come poche se ne incontrano. Ma quella storia di farla apparire vittima di un marito imbroglione non è proprio secondo giustizia. Mai essa ebbe un marito, né volle legare un uomo alle sue sorti. Un uomo, era opinione sua, solo serviva nel momento di fabbricar bambini. Dopo, non dava che lavoro e complicazioni.
Della gente della collina, Galub non riuscì ad avere la foto solo di Jesuíno Gallo Pazzo. Lo vedeva gironzolare nei paraggi, avvertiva che era lui a orientare gli altri, il consigliere cui si rivolgevano nei momenti difficili; ma quando compariva il fotografo, il diffidente vagabondo spariva…
Gallo Pazzo non era meno vanitoso o più modesto degli altri, diverso da loro. Era solo un vecchio saggio, aveva maggior esperienza, non ne voleva sapere di foto sui giornali. Una volta, in tempi andati, era apparsa una sua fotografia: sdraiato al sole sulla rampa del Mercato, una cicca di sigaro in bocca, un sorriso felice, come illustrazione di un servizio pieno di tenerezza e di poesia di un chiacchierato Odorico Tavares. Ebbene: per mesi e mesi la polizia aveva perseguitato Jesuíno, con ogni pretesto lo sbattevano dentro. I pula avevano in tasca il ritaglio del giornale con la foto di Jesuíno. Non serviva a nulla che il poeta Odorico lo definisse «l’ultimo uomo libero della città», la sua libertà era la gattabuia. Di foto sul giornale gli bastava quella.

___________________________________________________________________

(1) Galegos = galiziani, che non sono spagnoli, bensì portoghesi.
(2) Un bonzo è letteralmente un prete buddista; il termine è portoghese, a sua volta derivato dal giapponese. Qui si può intendere nel significato traslato di personaggio importante, o che si crede tale.
(3) Bicheiros = i mafiosi che gestiscono il gioco del bicho (un gioco d’azzardo illegale).






Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.