domenica 24 dicembre 2017

145 L'infinito (di Giacomo Leopardi)



“L’infinito” fa parte di un gruppo di poesie scritte tra il 1819 e 1821, che Leopardi pubblicò con il titolo di Idilli. Nella letteratura greca antica il termine idillio significava “piccolo quadro, piccola immagine” e veniva usato per componimenti sulla vita pastorale e sul contatto semplice e immediato con la natura. Per Leopardi il piccolo quadro è tutto interiore, un mezzo per scoprire nella contemplazione solitaria della natura una intuizione personale.
In questa poesia l’intuizione ha a che fare con il senso dell’immensità e dell’eternità che noi percepiamo pur vivendo una vita limitata e circoscritta a poche cose dolorose; però dentro di noi c’è un forte bisogno di ricercare qualcosa di più grande e di più importante e sebbene riusciamo soltanto a immaginare questo qualcosa, provandone come una vertigine del pensiero e del cuore, è estremamente dolce abbandonarsi a tale immaginazione.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.

PARAFRASI:

Mi fu sempre caro questo colle solitario [il monte Tabor]
e questa siepe, che per un gran tratto
mi impedisce di vedere l’orizzonte lontano.
Ma se mi siedo e osservo [come in contemplazione], spazi
senza confini al di là di essa, e sovrumani
silenzi, e una profondissima quiete
io mi raffiguro nel pensiero; tanto che per poco
il cuore non si spaventa. E non appena sento
il vento stormire tra queste piante, io paragono
quel silenzio infinito [che ho immaginato] a questo suono
[che ho appena udito]: e ciò mi porta a pensare all’eternità,
e ai secoli passati, e al tempo presente
e vivo e al suo suono [cioè alla sua inutilità, dato che è soltanto un suono].
Così in questa immensità il mio pensiero annega
e mi è dolce naufragare in questo mare.

Letta la parafrasi [questa o un’altra], bisogna anche dimenticarla e abbandonarsi invece al fascino di questa poesia, fatta di musicalità, suoni, pause e silenzi.
Poi si può leggere qualunque commento; ad esempio questo di Walter Siti, pubblicato su la Repubblica il 16 marzo 2014:

Studiandola a scuola spesso ci si dimentica che è la poesia di un ragazzo appena ventunenne; precoce sì, ma fino a quel momento aveva scritto (da tenere per il futuro) solo due enfatiche canzoni patriottiche e delle terzine d'amore inventate su una parente venuta in visita. Qui di colpo cambia tutto, nasce una musica. Lo chiama "Idillio primo", pensando agli idilli di Mosco (un poeta alessandrino della Magna Grecia) che aveva tradotto; per esempio l'idillio quinto («in selva oscura/ seder m'è grato, mentre canta un pino/ al soffiar di gran vento»). Vuole scrivere una cosa breve, intima, di contatto con la natura; ha il mito degli antichi greci e della loro "ingenuità", come aveva letto in Schiller. In un suo scartafaccio di appunti aveva notato, per lodare i classici rispetto ai romantici, che gli antichi descrivono la natura con spontaneità, semplicemente indicandone gli elementi («quell'albero, quell'edifizio, quella selva, quel monte») e grazie a una specie di stupore infantile «ci rapiscono, ci sublimano e ci immergono in un mare di dolcezza». Anche lui vuol fare come i greci, ma da inesperto esagera: a forza di indicare ci mette otto aggettivi e pronomi dimostrativi («questo», «quello») in quindici versi. Quasi senza volere crea qualcosa di inedito nella poesia italiana: invece di raccontarci un'esperienza già fatta, o abituale, ci racconta un'emozione intellettuale e psichica che lui stesso sta scoprendo in quel momento; qui, adesso, mentre sto seduto e guardo, e immagino, tanto che, e poi succede un'altra cosa, e allora io, e così… Ci porta dentro, nella lirica come istante.
La cornice è chiara, il primo e l'ultimo verso sono endecasillabi cristallini, tant'è vero che tutti li abbiamo nella memoria; ma all'interno del testo il ritmo procede per onde successive, la sintassi segue l'emozione della scoperta e travolge la metrica. Gli endecasillabi sciolti non permettono alla voce di fermarsi, si inarcano gli uni sugli altri; le inarcature più forti (interminati/ spazi; sovrumani/ silenzi; quello/infinito; questa/immensità) si trovano negli snodi-chiave del senso, dove si parla dell'infinito.
Il ventunenne è sul Monte Tabor, una collina "erma", cioè solitaria, non lontano dal suo palazzo di Recanati; forse ciò che gli toglie la visuale non è nemmeno una siepe ma un fittume di sterpi (in una prima versione aveva scritto "questo roveto", poi corretto nobilitandolo in "questo lauro"; "siepe" è un compromesso ragionevole). Scopre che gli ostacoli favoriscono l'immaginazione e che il troppo immaginato fa paura; in un altro appunto dell'epoca racconta che una voce lo chiama a cena mentre fantastica sull'infinito e che di colpo «mi parve un niente la vita nostra… e tutta la storia». Il ragazzo è di nervi fragili, facile agli estremismi; basta uno stormire di foglie e gli salta addosso tutta la sproporzione tra il velleitarismo dei sogni e la pochezza del quotidiano, tra il presente meschino e l'eternità. Ma invece di lottare si abbandona, forse ricorda il quaresimale di Paolo Segneri, un predicatore seicentesco che ha studiato («assorbito nel vasto oceano di una grandezza infinita, il mio spirito amerà di andare eternamente annegandosi in un giocondo naufragio di contentezza»). Solo che il mare in cui il ragazzo si perde non può essere Dio, in cui non crede più – può essere soltanto il mare filosofico dell'assenza di limiti; che è anche, segretamente, il mare dolce della bellezza ottenuta col canto. (Ma "colle" e "mare", che inquadrano il testo, sono anche i principali elementi del paesaggio marchigiano).
L'anno dopo su queste emozioni ingenue comincerà a riflettere; non accontentandosi di annegare nell'infinito, vorrà possederlo. «Sempre adorata mia solinga sponda»: tenta di riciclare l'incipit nell'abbozzo di una poesia su Saffo, ma già la poetessa (fisicamente brutta) si lamenta che la siepe la deruba del panorama che concede ai belli. Il desiderio è il demone che porta all'infelicità. Tra i 22 e i 26 anni Leopardi, in un violento processo di razionalizzazione, mette a punto un sistema di logica spietata: gli uomini desiderano l'infinito ma nell'universo l'infinito non esiste, dunque gli uomini sono destinati a non soddisfare mai il proprio desiderio. Se non auto-imbrogliandosi, contrabbandando l'indefinito per infinito. "Dolci" e "cari" saranno ormai, nella sua poesia adulta, solo gli "inganni". Quando, nel 1835, proverà a ordinare il suo libro di poesie come se fosse un romanzo, dovrebbe mettere cronologicamente L'infinito al primo posto tra gli idilli, subito dopo le canzoni; invece si inventa un falso d'autore – finge che il Passero solitario, un testo del 1832 o 1833, sia invece stato scritto a vent'anni. La situazione è più o meno la stessa, anche lì il ragazzo si apparta «romito e strano» verso la campagna; ma non ignora gli altri ragazzi che intanto si guardano a vicenda. L'infinito non regge alla prova, lo sguardo solitario perso all'orizzonte sarà solo fonte di rimpianto nella vecchiaia. Decidendo di farlo precedere dal Passero nella raccolta, è come se Leopardi si vergognasse un po' della sua poesia più famosa, dello "spaurarsi" e del naufragare. È come se ci dicesse "così ingenuo lo sono rimasto per poco, il canto già funzionava ma il pensiero no".

Manoscritto originale (non  è però l’unico) della poesia




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