martedì 26 dicembre 2017

147 La sera del dì di festa (di Giacomo Leopardi)



“È giunta la notte dopo un giorno di festa: la luna rischiara il paesaggio dolce e immoto. Anche tu, donna mia, dormi tranquilla senza alcuna preoccupazione, forse ripensando ai giovanotti che hai incontrato e che ti sono piaciuti: ma non pensi di sicuro a me, a cui hai ferito il cuore, e a cui la natura ha negato anche soltanto la speranza di essere riamato. Ed ecco che nella notte echeggia il canto di un artigiano che torna a casa dopo i divertimenti e un pensiero mi opprime improvviso: il pensiero che tutto a questo mondo passa e non lascia alcuna traccia di sé. Non è rimasto niente del passato glorioso di tanti popoli antichi, nemmeno di quella Roma che con il suo impero ha portato guerre e frastuoni nel mondo. Anche da bambino ho provato la stessa sensazione dell’inutilità delle nostre azioni e della mia esclusione dalla bellezza del mondo, suscitata da un canto solitario nella notte: la festa era finita e a me non restava altro che un dolore profondo nel cuore”.
Scritto probabilmente nel 1820, questo idillio alterna momenti sublimi (l’inizio e la fine) ad altri più convenzionali e artificiosi, come le parole dette dalla Natura al poeta, o la descrizione del passato di Roma.

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, ché t'accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m'affaccio,
e l'antica natura onnipossente,
che mi fece all'affanno. - A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. -
Questo dì fu solenne: or da' trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in così verde etate! Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell'artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov'è il suono
di que' popoli antichi? or dov'è il grido
de' nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
che n'andò per la terra e l'oceàno?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s'udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.

PARAFRASI:

La notte è dolce e chiara e senza vento,
e quieta sopra i tetti e in mezzo agli orti
cala la luna, e in lontananza rivela
serena ogni montagna. O donna mia,
ogni sentiero è già in silenzio, e dai balconi
traluce qualche rara lampada notturna:
tu dormi, poiché un facile sonno ti accolse
nelle tue quiete stanze; e non ti morde
alcun affanno; e proprio non sai né pensi
quale piaga mi apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io mi affaccio a salutare questo cielo,
che a vederlo appare così benigno,
e l’antica natura onnipotente,
che mi creò per soffrire. – A te nego la speranza,
mi disse, persino la speranza; e gli occhi tuoi
non brillino d’altro se non di pianto. –
Questo fu un giorno di festa; adesso dagli svaghi
prendi riposo; e forse ti ricordi
in sogno di coloro a cui oggi piacesti, e di quelli
che piacquero a te: non io, non lo spero nemmeno,
giungo al tuo pensiero. Intanto mi chiedo
quanto tempo mi resta da vivere, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
in un’età così verde! Ahi, per la via
odo non lontano il canto solitario
dell’artigiano, che ritorna a notte tarda,
dopo i divertimenti, alla sua povera casa;
e crudelmente mi si stringe il cuore,
nel pensare a come tutto al mondo passa,
e quasi non lascia traccia [di sé]. Ecco è fuggito
il giorno festivo, e a quello festivo succede
il giorno volgare [cioè lavorativo], e il tempo porta con sé
ogni evento umano. Dov’è ora il suono
di tanti popoli antichi? dov’è ora il grido
dei nostri antenati famosi, e il grande impero
di quella Roma [altrettanto famosa], e le armi e il fragore
che percorse la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto il mondo
riposa, e di loro non si ragiona più.
Nella mia prima età, quando si attende
bramosamente il giorno festivo, allorché poi
esso era trascorso, io dolorosamente, sveglio,
giacevo nel mio letto; e nella tarda notte
un canto che si udiva per i sentieri
morire mentre si allontanava a poco a poco
già mi stringeva il cuore come adesso.

Particolare dal dipinto di Caspar David Friedrich, Due uomini in riva al mare al sorgere della luna (1819)


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