mercoledì 27 dicembre 2017

148 A Silvia (di Giacomo Leopardi)




Composta a Pisa nel 1828, dopo sei anni di silenzio poetico pressoché totale (durante i quali aveva scritto le Operette Morali), questa canzone è probabilmente ispirata a una certa Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tisi.  Ma questo dato biografico è del tutto secondario: la ragazza, a cui il poeta dà il nome di Silvia (in ricordo della protagonista della favola Aminta di Torquato Tasso), è il simbolo della giovinezza e delle illusioni che essa crea nei cuori umani, in primo luogo l’attesa trepidante dell’amore. Ma queste illusioni sono destinate a dissolversi di fronte alla realtà della vita, dolorosa e condannata alla morte, come la speranza delusa addita al poeta sul finale del componimento.
In questo, che è il primo dei cosiddetti grandi idilli, lo sconforto del ragionamento cede il passo alla dolcezza e alla bellezza della gioventù, con tutte le sue promesse di felicità.

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d'in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovanezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
i diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

PARAFRASI:

Silvia, ricordi ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando la bellezza risplendeva
negli occhi tuoi sorridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensierosa, salivi
oltre il limite della giovinezza [passavi dall’adolescenza alla giovinezza]?

Risuonavano le quiete
stanze, e le vie adiacenti,
al tuo canto continuo,
allorché intenta nelle faccende femminili
sedevi, assai contenta
di quell’avvenire vago che avevi in mente.
Era il maggio odoroso: e tu eri solita
trascorrere il giorno in questo modo.

Io tralasciando di quando in quando
gli studi piacevoli e i libri difficili [tanto da far sudare],
sopra i quali la mia prima età
e la miglior parte di me si è consumata,
dai balconi della casa paterna
tendevo gli orecchi al suono della tua voce,
e alla mano che rapida
si muoveva sulla tela faticosa.
Contemplavo il cielo sereno,
le vie dorate e gli orti,
e da un lato il mare lontano e dall’altro il monte.
Non c’è lingua mortale che dica
quello che io sentivo nel cuore.

Che pensieri soavi,
che speranze, che sentimenti, o Silvia mia!
Quale allora ci appariva
la vita umana e il destino!
Quando mi sovvengo di così tanta speranza,
un sentimento mi preme
acerbo [doloroso] e inconsolabile,
e torno a dolermi della mia sventura.
O natura, o natura,
perché non mantieni poi
quello che prometti allora? Perché così tanto
inganni i tuoi figli?

Tu prima che l’inverno inaridisse le erbe,
combattuta e vinta da una malattia occulta,
morivi, o tenera creatura. E non vedevi
il fiore dei tuoi anni;
non ti deliziava il cuore
la dolce lode ora dei tuoi capelli neri,
ora dei tuoi occhi innamorati e pudichi;
né con te nei giorni festivi le compagne
hanno ragionato d’amore.

Anche moriva di lì a poco
la speranza mia dolce: alla mia vita
il destino negò anche
la giovinezza. Ahi come,
come sei passata,
cara compagna della mia età novella,
mia speranza su cui ho versato tanto lacrime!
Questo è quel mondo? queste
le gioie, l’amore, le opere, gli eventi
di cui tanto ragionammo insieme?
All’apparire del vero [quando cessarono le illusioni]
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte e una nuda tomba
mostravi di lontano.




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