venerdì 28 aprile 2017

71 La locandiera - atto primo (di Carlo Goldoni)



Andata in scena la prima volta al Teatro Sant’Angelo di Venezia nel gennaio del 1753, questa commedia (concepita nell’autunno del 1752) è tra le più note del Goldoni; essa non ebbe però grande fortuna nel Settecento, forse perché, pur in maniera semplice e divertente, mette in ridicolo i tre personaggi nobiliari ed esalta invece il personaggio della locandiera, borghese, attiva e determinata a raggiungere ciò che vuole. I tre nobili rappresentano la classe aristocratica in tre maniere differenti: il Marchese di Forlipopoli è squattrinato e decaduto (ha dovuto vendere il suo titolo per sopravvivere), il Conte d’Albafiorita è un mercante che si è arricchito e che ha così potuto comperare il titolo di conte, e il Cavaliere di Ripafratta è un aristocratico altezzoso abituato a dare ordini a chiunque e in più è misogino: ma proprio da una donna (e per di più popolana) riceverà una significativa lezione.
Le note al testo sono le stesse poste dall’autore nella sua commedia.
Posto nel blog solo l’atto primo, perché gli altri due, francamente, non mi piacciono.

PERSONAGGI
Il Cavaliere di Ripafratta
Il Marchese di Forlipopoli
Il Conte d'Albafiorita
Mirandolina, locandiera
Ortensia, comica
Dejanira, comica
Fabrizio, cameriere di locanda
Servitore del Cavaliere
Servitore del Conte
La scena si rappresenta in Firenze, nella locanda di Mirandolina.

L’AUTORE A CHI LEGGE

Fra tutte le Commedie da me sinora composte, starei per dire essere questa la più morale, la più utile, la più istruttiva. Sembrerà ciò essere un paradosso a chi soltanto vorrà fermarsi a considerare il carattere della Locandiera, e dirà anzi non aver io dipinto altrove una donna più lusinghiera, più pericolosa di questa. Ma chi rifletterà al carattere e agli avvenimenti del Cavaliere, troverà un esempio vivissimo della presunzione avvilita, ed una scuola che insegna a fuggire i pericoli, per non soccombere alle cadute.
Mirandolina fa altrui vedere come s'innamorano gli uomini. Principia a entrar in grazia del disprezzator delle donne, secondandolo nel modo suo di pensare, lodandolo in quelle cose che lo compiacciono, ed eccitandolo perfino a biasimare le donne istesse. Superata con ciò l'avversione che aveva il Cavaliere per essa, principia a usargli delle attenzioni, gli fa delle finezze studiate, mostrandosi lontana dal volerlo obbligare alla gratitudine. Lo visita, lo serve in tavola, gli parla con umiltà e con rispetto, e in lui vedendo scemare la ruvidezza, in lei s'aumenta l'ardire. Dice delle tronche parole, avanza degli sguardi, e senza ch'ei se ne avveda, gli dà delle ferite mortali. Il pover'uomo conosce il pericolo, e lo vorrebbe fuggire, ma la femmina accorta con due lagrimette l'arresta, e con uno svenimento l'atterra, lo precipita, l'avvilisce. Pare impossibile, che in poche ore un uomo possa innamorarsi a tal segno: un uomo, aggiungasi, disprezzator delle donne, che mai ha seco loro trattato; ma appunto per questo più facilmente egli cade, perché sprezzandole senza conoscerle, e non sapendo quali sieno le arti loro, e dove fondino la speranza de' loro trionfi, ha creduto che bastar gli dovesse a difendersi la sua avversione, ed ha offerto il petto ignudo ai colpi dell'inimico.
Io medesimo diffidava quasi a principio di vederlo innamorato ragionevolmente sul fine della Commedia, e pure, condotto dalla natura, di passo in passo, come nella Commedia si vede, mi è riuscito di darlo vinto alla fine dell'Atto secondo.
Io non sapeva quasi cosa mi fare nel terzo, ma venutomi in mente, che sogliono coteste lusinghiere donne, quando vedono ne' loro lacci gli amanti, aspramente trattarli, ho voluto dar un esempio di questa barbara crudeltà, di questo ingiurioso disprezzo con cui si burlano dei miserabili che hanno vinti, per mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati, e rendere odioso il carattere delle incantatrici Sirene. La Scena dello stirare allora quando la Locandiera si burla del Cavaliere che languisce, non muove gli animi a sdegno contro colei, che dopo averlo innamorato l'insulta? Oh bello specchio agli occhi della gioventù! Dio volesse che io medesimo cotale specchio avessi avuto per tempo, che non avrei veduto ridere del mio pianto qualche barbara Locandiera. Oh di quante Scene mi hanno provveduto le mie vicende medesime!... Ma non è il luogo questo né di vantarmi delle mie follie, né di pentirmi delle mie debolezze. Bastami che alcun mi sia grato della lezione che gli offerisco. Le donne che oneste sono, giubileranno anch'esse che si smentiscano codeste simulatrici, che disonorano il loro sesso, ed esse femmine lusinghiere arrossiranno in guardarmi, e non importa che mi dicano nell'incontrarmi: che tu sia maledetto!
Deggio avvisarvi, Lettor carissimo, di una picciola mutazione, che alla presente Commedia ho fatto. Fabrizio, il cameriere della Locanda, parlava in veneziano, quando si recitò la prima volta; l'ho fatto allora per comodo del personaggio, solito a favellar da Brighella; ove l'ho convertito in toscano, sendo disdicevole cosa introdurre senza necessità in una Commedia un linguaggio straniero.
Ciò ho voluto avvertire, perché non so come la stamperà il Bettinelli; può essere ch'ei si serva di questo mio originale, e Dio lo voglia, perché almeno sarà a dover penneggiato. Ma lo scrupolo ch'ei si è fatto di stampare le cose mie come io le ho abbozzate, lo farà trascurare anche questa comodità.

ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Sala di locanda.
Il Marchese di Forlipopoli ed il Conte d'Albafiorita
MARCHESE: Fra voi e me vi è qualche differenza.
CONTE: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESE: Ma se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE: Per qual ragione?
MARCHESE: Io sono il Marchese di Forlipopoli.
CONTE: Ed io sono il Conte d'Albafiorita.
MARCHESE: Sì, Conte! Contea comprata.
CONTE: Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.
CONTE: Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando...
MARCHESE: Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me.
CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch'io amassi Mirandolina? Perché credete ch'io sia in Firenze? Perché credete ch'io sia in questa locanda?
MARCHESE: Oh bene. Voi non farete niente.
CONTE: Io no, e voi sì?
MARCHESE: Io sì, e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE: Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione.
MARCHESE: Denari?... non ne mancano.
CONTE: Io spendo uno zecchino il giorno, signor Marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE: Ed io quel che fo non lo dico.
CONTE: Voi non lo dite, ma già si sa.
MARCHESE: Non si sa tutto.
CONTE: Sì! caro signor Marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno.
MARCHESE: A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE: Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi.
MARCHESE: Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io... E so io quello che farò.
CONTE: Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE: Quel ch'io faccio, lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. Chi è di là? (chiama)
CONTE: (Spiantato! Povero e superbo!). (da sé)

SCENA SECONDA
Fabrizio e detti.
FABRIZIO: Mi comandi, signore. (al Marchese)
MARCHESE: Signore? Chi ti ha insegnato la creanza?
FABRIZIO: La perdoni.
CONTE: Ditemi: come sta la padroncina? (a Fabrizio)
FABRIZIO: Sta bene, illustrissimo.
MARCHESE: È alzata dal letto?
FABRIZIO: Illustrissimo sì.
MARCHESE: Asino.
FABRIZIO: Perché, illustrissimo signore?
MARCHESE: Che cos'è questo illustrissimo?
FABRIZIO: È il titolo che ho dato anche a quell'altro Cavaliere.
MARCHESE: Tra lui e me vi è qualche differenza.
CONTE: Sentite? (a Fabrizio)
FABRIZIO: (Dice la verità. Ci è differenza: me ne accorgo nei conti). (piano al Conte)
MARCHESE: Di' alla padrona che venga da me, che le ho da parlare.
FABRIZIO: Eccellenza sì. Ho fallato questa volta?
MARCHESE: Va bene. Sono tre mesi che lo sai; ma sei un impertinente.
FABRIZIO: Come comanda, Eccellenza.
CONTE: Vuoi vedere la differenza che passa fra il Marchese e me?
MARCHESE: Che vorreste dire?
CONTE: Tieni. Ti dono uno zecchino. Fa che anch'egli te ne doni un altro.
FABRIZIO: Grazie, illustrissimo. (al Conte) Eccellenza... (al Marchese)
MARCHESE: Non getto il mio, come i pazzi. Vattene.
FABRIZIO: Illustrissimo signore, il cielo la benedica. (al Conte) Eccellenza. (Rifinito. Fuor del suo paese non vogliono esser titoli per farsi stimare, vogliono esser quattrini). (da sé, parte)

SCENA TERZA
Il Marchese ed il Conte.
MARCHESE: Voi credete di soverchiarmi con i regali, ma non farete niente. Il mio grado val più di tutte le vostre monete.
CONTE: Io non apprezzo quel che vale, ma quello che si può spendere.
MARCHESE: Spendete pure a rotta di collo. Mirandolina non fa stima di voi.
CONTE: Con tutta la vostra gran nobiltà, credete voi di essere da lei stimato? Vogliono esser denari.
MARCHESE: Che denari? Vuol esser protezione. Esser buono in un incontro di far un piacere.
CONTE: Sì, esser buono in un incontro di prestar cento doppie.
MARCHESE: Farsi portar rispetto bisogna.
CONTE: Quando non mancano denari, tutti rispettano.
MARCHESE: Voi non sapete quel che vi dite.
CONTE: L'intendo meglio di voi.

SCENA QUARTA
Il Cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, e detti.
CAVALIERE: Amici, che cos'è questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri?
CONTE: Si disputava sopra un bellissimo punto.
MARCHESE: II Conte disputa meco sul merito della nobiltà. (ironico)
CONTE: Io non levo il merito alla nobiltà: ma sostengo, che per cavarsi dei capricci, vogliono esser denari.
CAVALIERE: Veramente, Marchese mio...
MARCHESE: Orsù, parliamo d'altro.
CAVALIERE: Perché siete venuti a simil contesa?
CONTE: Per un motivo il più ridicolo della terra.
MARCHESE: Sì, bravo! il Conte mette tutto in ridicolo.
CONTE: Il signor Marchese ama la nostra locandiera. Io l'amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola?
MARCHESE: Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo.
CONTE: Egli la protegge, ed io spendo. (al Cavaliere)
CAVALIERE: In verità non si può contendere per ragione alcuna che io meriti meno. Una donna vi altera? Vi scompone? Una donna? che cosa mai mi convien sentire? Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l'uomo una infermità insopportabile.
MARCHESE: In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario.
CONTE: Sin qua il signor Marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile.
MARCHESE: Quando l'amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande.
CAVALIERE: In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune all'altre donne?
MARCHESE: Ha un tratto nobile, che incatena.
CONTE: È bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto.
CAVALIERE: Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch'io sono in questa locanda, e non mi ha fatto specie veruna.
CONTE: Guardatela, e forse ci troverete del buono.
CAVALIERE: Eh, pazzia! L'ho veduta benissimo. È una donna come l'altre.
MARCHESE: Non è come l'altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro.
CONTE: Cospetto di bacco! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole. Pure con costei, non ostante il mio lungo corteggio e le tante spese per essa fatte, non ho potuto toccarle un dito.
CAVALIERE: Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono.
CONTE: Non siete mai stato innamorato?
CAVALIERE: Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l'ho voluta.
MARCHESE: Ma siete unico della vostra casa: non volete pensare alla successione?
CAVALIERE: Ci ho pensato più volte ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire una donna, mi passa subito la volontà.
CONTE: Che volete voi fare delle vostre ricchezze?
CAVALIERE: Godermi quel poco che ho con i miei amici.
MARCHESE: Bravo, Cavaliere, bravo; ci goderemo.
CONTE: E alle donne non volete dar nulla?
CAVALIERE: Niente affatto. A me non ne mangiano sicuramente.
CONTE: Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile.
CAVALIERE: Oh la bella cosa! Per me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia.
MARCHESE: Se non la stimate voi, la stimo io.
CAVALIERE: Ve la lascio, se fosse più bella di Venere.

SCENA QUINTA
Mirandolina e detti.
MIRANDOLINA: M'inchino a questi cavalieri. Chi mi domanda di lor signori?
MARCHESE: Io vi domando, ma non qui.
MIRANDOLINA: Dove mi vuole, Eccellenza?
MARCHESE: Nella mia camera.
MIRANDOLINA: Nella sua camera? Se ha bisogno di qualche cosa verrà il cameriere a servirla.
MARCHESE: (Che dite di quel contegno?). (al Cavaliere)
CAVALIERE: (Quello che voi chiamate contegno, io lo chiamerei temerità, impertinenza). (al Marchese)
CONTE: Cara Mirandolina, io vi parlerò in pubblico, non vi darò l'incomodo di venire nella mia camera. Osservate questi orecchini. Vi piacciono?
MIRANDOLINA: Belli.
CONTE: Sono diamanti, sapete?
MIRANDOLINA: Oh, gli conosco. Me ne intendo anch'io dei diamanti.
CONTE: E sono al vostro comando.
CAVALIERE: (Caro amico, voi li buttate via). (piano al Conte)
MIRANDOLINA: Perché mi vuol ella donare quegli orecchini?
MARCHESE: Veramente sarebbe un gran regalo! Ella ne ha de' più belli al doppio.
CONTE: Questi sono legati alla moda. Vi prego riceverli per amor mio.
CAVALIERE: (Oh che pazzo!). (da sé)
MIRANDOLINA: No, davvero, signore...
CONTE: Se non li prendete, mi disgustate.
MIRANDOLINA: Non so che dire... mi preme tenermi amici gli avventori della mia locanda. Per non disgustare il signor Conte, li prenderò.
CAVALIERE: (Oh che forca!). (da sé)
CONTE: (Che dite di quella prontezza di spirito?). (al Cavaliere)
CAVALIERE: (Bella prontezza! Ve li mangia, e non vi ringrazia nemmeno). (al Conte)
MARCHESE: Veramente, signor Conte, vi siete acquistato gran merito. Regalare una donna in pubblico, per vanità! Mirandolina, vi ho da parlare a quattr'occhi, fra voi e me: son Cavaliere.
MIRANDOLINA: (Che arsura! Non gliene cascano). (da sé) Se altro non mi comandano, io me n'anderò.
CAVALIERE: Ehi! padrona. La biancheria che mi avete dato, non mi gusta. Se non ne avete di meglio, mi provvederò. (con disprezzo)
MIRANDOLINA: Signore, ve ne sarà di meglio. Sarà servita, ma mi pare che la potrebbe chiedere con un poco di gentilezza.
CAVALIERE: Dove spendo il mio denaro, non ho bisogno di far complimenti.
CONTE: Compatitelo. Egli è nemico capitale delle donne. (a Mirandolina)
CAVALIERE: Eh, che non ho bisogno d'essere da lei compatito.
MIRANDOLINA: Povere donne! che cosa le hanno fatto? Perché così crudele con noi, signor Cavaliere?
CAVALIERE: Basta così. Con me non vi prendete maggior confidenza. Cambiatemi la biancheria. La manderò a prender pel servitore. Amici, vi sono schiavo. (parte)

SCENA SESTA
Il Marchese, il Conte e Mirandolina.
MIRANDOLINA: Che uomo salvatico! Non ho veduto il compagno.
CONTE: Cara Mirandolina, tutti non conoscono il vostro merito.
MIRANDOLINA: In verità, son così stomacata del suo mal procedere, che or ora lo licenzio a dirittura.
MARCHESE: Sì; e se non vuol andarsene, ditelo a me, che lo farò partire immediatamente. Fate pur uso della mia protezione.
CONTE: E per il denaro che aveste a perdere, io supplirò e pagherò tutto. (Sentite, mandate via anche il Marchese, che pagherò io). (piano a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Grazie, signori miei, grazie. Ho tanto spirito che basta, per dire ad un forestiere ch'io non lo voglio, e circa all'utile, la mia locanda non ha mai camere in ozio.

SCENA SETTIMA
Fabrizio e detti.
FABRIZIO: Illustrissimo, c'è uno che la domanda. (al Conte)
CONTE: Sai chi sia?
FABRIZIO: Credo ch'egli sia un legatore di gioje. (Mirandolina, giudizio; qui non istate bene). (piano a Mirandolina, e parte)
CONTE: Oh sì, mi ha da mostrare un gioiello. Mirandolina, quegli orecchini, voglio che li accompagniamo.
MIRANDOLINA: Eh no, signor Conte...
CONTE: Voi meritate molto, ed io i denari non li stimo niente. Vado a vedere questo gioiello. Addio, Mirandolina; signor Marchese, la riverisco! (parte)

SCENA OTTAVA
Il Marchese e Mirandolina.
MARCHESE: (Maledetto Conte! Con questi suoi denari mi ammazza). (da sé)
MIRANDOLINA: In verità il signor Conte s'incomoda troppo.
MARCHESE: Costoro hanno quattro soldi, e li spendono per vanità, per albagia. Io li conosco, so il viver del mondo.
MIRANDOLINA: Eh, il viver del mondo lo so ancor io.
MARCHESE: Pensano che le donne della vostra sorta si vincano con i regali.
MIRANDOLINA: I regali non fanno male allo stomaco.
MARCHESE: Io crederei di farvi un'ingiuria, cercando di obbligarvi con i donativi.
MIRANDOLINA: Oh, certamente il signor Marchese non mi ha ingiuriato mai.
MARCHESE: E tali ingiurie non ve le farò.
MIRANDOLINA: Lo credo sicurissimamente.
MARCHESE: Ma dove posso, comandatemi.
MIRANDOLINA: Bisognerebbe ch'io sapessi, in che cosa può Vostra Eccellenza.
MARCHESE: In tutto. Provatemi.
MIRANDOLINA: Ma verbigrazia, in che?
MARCHESE: Per bacco! Avete un merito che sorprende.
MIRANDOLINA: Troppe grazie, Eccellenza.
MARCHESE: Ah! direi quasi uno sproposito. Maledirei quasi la mia Eccellenza.
MIRANDOLINA: Perché, signore?
MARCHESE: Qualche volta mi auguro di essere nello stato del Conte.
MIRANDOLINA: Per ragione forse de' suoi denari?
MARCHESE: Eh! Che denari! Non li stimo un fico. Se fossi un Conte ridicolo come lui...
MIRANDOLINA: Che cosa farebbe?
MARCHESE: Cospetto del diavolo... vi sposerei. (parte)

SCENA NONA
MIRANDOLINA (sola)
Uh, che mai ha detto! L'eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l'arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s'innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta sì bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere di trattare con me. Non dico che tutti in un salto s'abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? è una cosa che mi muove la bile terribilmente. È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l'abbia trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m'innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature di amanti spasimati; e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

SCENA DECIMA
Fabrizio e detta.
FABRIZIO: Ehi, padrona.
MIRANDOLINA: Che cosa c'è?
FABRIZIO: Quel forestiere che è alloggiato nella camera di mezzo, grida della biancheria; dice che è ordinaria, e che non la vuole.
MIRANDOLINA: Lo so, lo so. Lo ha detto anche a me, e lo voglio servire.
FABRIZIO: Benissimo. Venitemi dunque a metter fuori la roba, che gliela possa portare.
MIRANDOLINA: Andate, andate, gliela porterò io.
FABRIZIO: Voi gliela volete portare?
MIRANDOLINA: Sì, io.
FABRIZIO: Bisogna che vi prema molto questo forestiere.
MIRANDOLINA: Tutti mi premono. Badate a voi.
FABRIZIO: (Già me n'avvedo. Non faremo niente. Ella mi lusinga; ma non faremo niente). (da sé)
MIRANDOLINA: (Povero sciocco! Ha delle pretensioni. Voglio tenerlo in isperanza, perché mi serva con fedeltà). (da sé)
FABRIZIO: Si è sempre costumato, che i forestieri li serva io.
MIRANDOLINA: Voi con i forestieri siete un poco troppo ruvido.
FABRIZIO: E voi siete un poco troppo gentile.
MIRANDOLINA: So quel che fo, non ho bisogno di correttori.
FABRIZIO: Bene, bene. Provvedetevi di cameriere.
MIRANDOLINA: Perché, signor Fabrizio? è disgustato di me?
FABRIZIO: Vi ricordate voi che cosa ha detto a noi due vostro padre, prima ch'egli morisse?
MIRANDOLINA: Sì; quando mi vorrò maritare, mi ricorderò di quel che ha detto mio padre.
FABRIZIO: Ma io son delicato di pelle, certe cose non le posso soffrire.
MIRANDOLINA: Ma che credi tu ch'io mi sia? Una frasca? Una civetta? Una pazza? Mi maraviglio di te. Che voglio fare io dei forestieri che vanno e vengono? Se il tratto bene, lo fo per mio interesse, per tener in credito la mia locanda. De' regali non ne ho bisogno. Per far all'amore? Uno mi basta: e questo non mi manca; e so chi merita, e so quello che mi conviene. E quando vorrò maritarmi... mi ricorderò di mio padre. E chi mi averà servito bene, non potrà lagnarsi di me. Son grata. Conosco il merito... Ma io non son conosciuta. Basta, Fabrizio, intendetemi, se potete. (parte.)
FABRIZIO: Chi può intenderla, è bravo davvero. Ora pare che la mi voglia, ora che la non mi voglia. Dice che non è una frasca, ma vuol far a suo modo. Non so che dire. Staremo a vedere. Ella mi piace, le voglio bene, accomoderei con essa i miei interessi per tutto il tempo di vita mia. Ah! bisognerà chiuder un occhio, e lasciar correre qualche cosa. Finalmente i forestieri vanno e vengono. Io resto sempre. Il meglio sarà sempre per me. (parte.)

SCENA UNDICESIMA
Camera del Cavaliere.
Il Cavaliere ed un Servitore.
SERVITORE: Illustrissimo, hanno portato questa lettera.
CAVALIERE: Portami la cioccolata. (il Servitore parte)
(Il Cavaliere apre la lettera)
Siena, primo Gennaio 1753. (Chi scrive?) Orazio Taccagni. Amico carissimo. La tenera amicizia che a voi mi lega, mi rende sollecito ad avvisarvi essere necessario il vostro ritorno in patria. È morto il Conte Manna... (Povero Cavaliere! Me ne dispiace). Ha lasciato la sua unica figlia nubile erede di centocinquanta mila scudi. Tutti gli amici vostri vorrebbero che toccasse a voi una tal fortuna, e vanno maneggiando... Non s'affatichino per me, che non voglio saper nulla. Lo sanno pure ch'io non voglio donne per i piedi. E questo mio caro amico, che lo sa più d'ogni altro, mi secca peggio di tutti. (straccia la lettera) Che importa a me di centocinquanta mila scudi? Finché son solo, mi basta meno. Se fossi accompagnato, non mi basterebbe assai più. Moglie a me! Piuttosto una febbre quartana.

SCENA DODICESIMA
Il Marchese e detto.
MARCHESE: Amico, vi contentate ch'io venga a stare un poco con voi?
CAVALIERE: Mi fate onore.
MARCHESE: Almeno fra me e voi possiamo trattarci con confidenza; ma quel somaro del Conte non è degno di stare in conversazione con noi.
CAVALIERE: Caro Marchese, compatitemi; rispettate gli altri, se volete essere rispettato voi pure.
MARCHESE: Sapete il mio naturale. Io fo le cortesie a tutti, ma colui non lo posso soffrire.
CAVALIERE: Non lo potete soffrire, perché vi è rivale in amore! Vergogna! Un cavaliere della vostra sorta innamorarsi d'una locandiera! Un uomo savio, come siete voi, correr dietro a una donna!
MARCHESE: Cavaliere mio, costei mi ha stregato.
CAVALIERE: Oh! pazzie! debolezze! Che stregamenti! Che vuol dire che le donne non mi stregheranno? Le loro fattucchierie consistono nei loro vezzi, nelle loro lusinghe, e chi ne sta lontano, come fo io, non ci è pericolo che si lasci ammaliare.
MARCHESE: Basta! ci penso e non ci penso: quel che mi dà fastidio e che m'inquieta, è il mio fattor di campagna.
CAVALIERE: Vi ha fatto qualche porcheria?
MARCHESE: Mi ha mancato di parola.

SCENA TREDICESIMA
Il Servitore con una cioccolata e detti.
CAVALIERE: Oh mi dispiace... Fanne subito un'altra. (al Servitore)
SERVITORE: In casa per oggi non ce n'è altra, illustrissimo.
CAVALIERE: Bisogna che ne provveda. Se vi degnate di questa... (al Marchese)
MARCHESE (prende la cioccolata, e si mette a berla senza complimenti, seguitando poi a discorrere e bere, come segue): Questo mio fattore, come io vi diceva... (beve)
CAVALIERE: (Ed io resterò senza). (da sé)
MARCHESE: Mi aveva promesso mandarmi con l'ordinario... (beve) venti zecchini... (beve)
CAVALIERE: (Ora viene con una seconda stoccata). (da sé)
MARCHESE: E non me li ha mandati... (beve)
CAVALIERE: Li manderà un'altra volta.
MARCHESE: Il punto sta... il punto sta... (finisce di bere) Tenete. (dà la chicchera al Servitore) Il punto sta che sono in un grande impegno, e non so come fare.
CAVALIERE: Otto giorni più, otto giorni meno...
MARCHESE: Ma voi che siete Cavaliere, sapete quel che vuol dire il mantener la parola. Sono in impegno; e... corpo di bacco! Darei della pugna in cielo.
CAVALIERE: Mi dispiace di vedervi scontento. (Se sapessi come uscirne con riputazione!) (da sé)
MARCHESE: Voi avreste difficoltà per otto giorni di farmi il piacere?
CAVALIERE: Caro Marchese, se potessi, vi servirei di cuore; se ne avessi, ve li avrei esibiti a dirittura. Ne aspetto, e non ne ho.
MARCHESE: Non mi darete ad intendere d'esser senza denari.
CAVALIERE: Osservate. Ecco tutta la mia ricchezza. Non arrivano a due zecchini. (mostra uno zecchino e varie monete)
MARCHESE: Quello è uno zecchino d'oro.
CAVALIERE: Sì; l'ultimo, non ne ho più.
MARCHESE: Prestatemi quello, che vedrò intanto...
CAVALIERE: Ma io poi...
MARCHESE: Di che avete paura? Ve lo renderò.
CAVALIERE: Non so che dire; servitevi. (gli dà lo zecchino)
MARCHESE: Ho un affare di premura... amico: obbligato per ora: ci rivedremo a pranzo. (prende lo zecchino, e parte)

SCENA QUATTORDICESIMA
CAVALIERE (solo)
Bravo! Il signor Marchese mi voleva frecciare venti zecchini, e poi si è contentato di uno. Finalmente uno zecchino non mi preme di perderlo, e se non me lo rende, non mi verrà più a seccare. Mi dispiace più, che mi ha bevuto la mia cioccolata. Che indiscretezza! E poi: son chi sono. Son Cavaliere. Oh garbatissimo Cavaliere!

SCENA QUINDICESIMA
Mirandolina colla biancheria, e detto.
MIRANDOLINA: Permette, illustrissimo? (entrando con qualche soggezione)
CAVALIERE: Che cosa volete? (con asprezza)
MIRANDOLINA: Ecco qui della biancheria migliore. (s'avanza un poco)
CAVALIERE: Bene. Mettetela lì. (accenna il tavolino)
MIRANDOLINA: La supplico almeno degnarsi vedere se è di suo genio.
CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: Le lenzuola son di rensa. (s'avanza ancor più)
CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, di dieci paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria l'ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei.
CAVALIERE: Per esser lei! Solito complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola.
CAVALIERE: Oh! Queste tele di Fiandra, quando si lavano, perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me.
MIRANDOLINA: Per un Cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima.
CAVALIERE: (Non si può però negare, che costei non sia una donna obbligante). (da sé)
MIRANDOLINA: (Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne). (da sé)
CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v'incomodiate per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non m'incomodo mai, quando servo Cavaliere di sì alto merito.
CAVALIERE: Bene, bene, non occorr'altro. (Costei vorrebbe adularmi. Donne! Tutte così). (da sé)
MIRANDOLINA: La metterò nell'arcova.
CAVALIERE: Sì, dove volete. (con serietà)
MIRANDOLINA: (Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente). (da sé, va a riporre la biancheria)
CAVALIERE: (I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano). (da sè)
MIRANDOLINA: A pranzo, che cosa comanda? (ritornando senza la biancheria)
CAVALIERE: Mangerò quello che vi sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell'altra, lo dica con libertà.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l'attenzione e la pazienza che abbiamo noi donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col Conte e col Marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e pretendono poi di voler fare all'amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se ho mai dato loro un segno d'affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non sono bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente.
CAVALIERE: So io ben quel che faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore... Basta, a me non tocca a dirne male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch'io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini, che hanno paura del nostro sesso.
CAVALIERE: (È curiosa costei). (da sé)
MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima. (finge voler partire)
CAVALIERE: Avete premura di partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite.
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono... Se la m'intende, e mi fanno i cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera.
MIRANDOLINA: Troppa bontà, illustrissimo. (con una riverenza)
CAVALIERE: Ed essi s'innamorano.
MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna!
CAVALIERE: Questa io non l'ho mai potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor Cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch'io vi porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l'onore d'aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo.
CAVALIERE: Via, basta così. (ritira la mano)
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que' due signori sguaiati, avrebbe tosto creduto ch'io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l'oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi con autorità, e avrò per lei quell'attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per quale motivo avete tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate.
CAVALIERE: (Che diavolo ha costei di stravagante, ch'io non capisco!). (da sé)
MIRANDOLINA: (Il satiro si anderà a poco a poco addomesticando). (da sé)
CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle cose vostre, non restate per me.
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle faccende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere.
CAVALIERE: Bene... Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri.
MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta.
CAVALIERE: Da me... Perché?
MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo.
CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s'innamorano. (Mi caschi il naso, se avanti domani non l'innamoro). (da sé)

SCENA SEDICESIMA
CAVALIERE (solo)
Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un non so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un'altra. Ma per fare all'amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s'innamorano delle donne. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA
Altra camera di locanda.
Ortensia, Dejanira, Fabrizio.
FABRIZIO: Che restino servite qui, illustrissime. Osservino quest'altra camera. Quella per dormire, e questa per mangiare, per ricevere, per servirsene come comandano.
ORTENSIA: Va bene, va bene. Siete voi padrone, o cameriere?
FABRIZIO: Cameriere, ai comandi di V.S. illustrissima.
DEJANIRA: (Ci dà delle illustrissime). (piano a Ortensia, ridendo)
ORTENSIA: (Bisogna secondare il lazzo). Cameriere?
FABRIZIO: Illustrissima.
ORTENSIA: Dite al padrone che venga qui, voglio parlar con lui per il trattamento.
FABRIZIO: Verrà la padrona; la servo subito. (Chi diamine saranno queste due signore così sole? All'aria, all'abito, paiono dame). (da sé, parte)

SCENA DICIOTTESIMA
Dejanira e Ortensia.
DEJANIRA: Ci dà dell'illustrissime. Ci ha creduto due dame.
ORTENSIA: Bene. Così ci tratterà meglio.
DEJANIRA: Ma ci farà pagare di più.
ORTENSIA: Eh, circa i conti, avrà da fare con me. Sono degli anni assai, che cammino il mondo.
DEJANIRA: Non vorrei che con questi titoli entrassimo in qualche impegno.
ORTENSIA: Cara amica, siete di poco spirito. Due commedianti avvezze a far sulla scena da contesse, da marchese e da principesse, avranno difficoltà a sostenere un carattere sopra di una locanda?
DEJANIRA: Verranno i nostri compagni, e subito ci sbianchiranno (1).
ORTENSIA: Per oggi non possono arrivare a Firenze. Da Pisa a qui in navicello vi vogliono almeno tre giorni.
DEJANIRA: Guardate che bestialità! Venire in navicello!
ORTENSIA: Per mancanza di lugagni (2). È assai che siamo venute noi in calesse.
DEJANIRA: È stata buona quella recita di più che abbiamo fatto.
ORTENSIA: Sì, ma se non istavo io alla porta, non si faceva niente.

SCENA DICIANNOVESIMA
Fabrizio e dette.
FABRIZIO: La padrona or ora sarà a servirle.
ORTENSIA: Bene.
FABRIZIO: Ed io le supplico a comandarmi. Ho servito altre dame: mi darò l'onor di servir con tutta l'attenzione anche le signorie loro illustrissime.
ORTENSIA: Occorrendo, mi varrò di voi.
DEJANIRA: (Ortensia queste parti le fa benissimo). (da sé)
FABRIZIO: Intanto le supplico, illustrissime signore, favorirmi il loro riverito nome per la consegna. (tira fuori un calamaio ed un libriccino)
DEJANIRA: (Ora viene il buono).
ORTENSIA: Perché ho da dar il mio nome?
FABRIZIO: Noialtri locandieri siamo obbligati a dar il nome, il casato, la patria e la condizione di tutti i passeggeri che alloggiano alla nostra locanda. E se non lo facessimo, meschini noi.
DEJANIRA: (Amica, i titoli sono finiti). (piano ad Ortensia)
ORTENSIA: Molti daranno anche il nome finto.
FABRIZIO: In quanto a questo poi, noialtri scriviamo il nome che ci dettano, e non cerchiamo di più.
ORTENSIA: Scrivete. La Baronessa Ortensia del Poggio, palermitana.
FABRIZIO: (Siciliana? Sangue caldo). (scrivendo) Ella, illustrissima? (a Dejanira)
DEJANIRA: Ed io... (Non so che mi dire).
ORTENSIA: Via, Contessa Dejanira, dategli il vostro nome.
FABRIZIO: Vi supplico. (a Dejanira)
DEJANIRA: Non l'avete sentito? (a Fabrizio)
FABRIZIO: L'illustrissima signora Contessa Dejanira... (scrivendo) Il cognome?
DEJANIRA: Anche il cognome? (a Fabrizio)
ORTENSIA: Sì, dal Sole, romana. (a Fabrizio)
FABRIZIO: Non occorr'altro. Perdonino l'incomodo. Ora verrà la padrona. (L'ho io detto, che erano due dame? Spero che farò de' buoni negozi. Mancie non ne mancheranno). pParte.)
DEJANIRA: Serva umilissima della signora Baronessa.
ORTENSIA: Contessa, a voi m'inchino. (Si burlano vicendevolmente.)
DEJANIRA: Qual fortuna mi offre la felicissima congiuntura di rassegnarvi il mio profondo rispetto?
ORTENSIA: Dalla fontana del vostro cuore scaturir non possono che torrenti di grazie.

SCENA VENTESIMA
Mirandolina e dette.
DEJANIRA: Madama, voi mi adulate. (ad Ortensia, con caricatura)
ORTENSIA: Contessa, al vostro merito ci converrebbe assai più. (fa lo stesso)
MIRANDOLINA: (Oh che dame cerimoniose). (da sé, in disparte)
DEJANIRA: (Oh quanto mi vien da ridere!). (da sé)
ORTENSIA: Zitto: è qui la padrona. (piano a Dejanira)
MIRANDOLINA: M'inchino a queste dame.
ORTENSIA: Buon giorno, quella giovane.
DEJANIRA: Signora padrona, vi riverisco. (a Mirandolina)
ORTENSIA: Ehi! (fa cenno a Dejanira, che si sostenga)
MIRANDOLINA: Permetta ch'io le baci la mano. (ad Ortensia)
ORTENSIA: Siete obbligante. (le dà la mano)
DEJANIRA: (ride da sé)
MIRANDOLINA: Anche ella, illustrissima. (chiede la mano a Dejanira)
DEJANIRA: Eh, non importa...
ORTENSIA: Via, gradite le finezze di questa giovane. Datele la mano.
MIRANDOLINA: La supplico.
DEJANIRA: Tenete. (le dà la mano, si volta, e ride)
MIRANDOLINA: Ride, illustrissima? Di che?
ORTENSIA: Che cara Contessa! Ride ancora di me. Ho detto uno sproposito, che l'ha fatta ridere.
MIRANDOLINA: (Io giuocherei che non sono dame. Se fossero dame, non sarebbero sole). (da sé)
ORTENSIA: Circa il trattamento, converrà poi discorrere. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Ma! Sono sole? Non hanno cavalieri, non hanno servitori, non hanno nessuno?
ORTENSIA: Il Barone mio marito...
DEJANIRA: (ride forte).
MIRANDOLINA: Perché ride, signora? (a Dejanira)
ORTENSIA: Via, perché ridete?
DEJANIRA: Rido del Barone di vostro marito.
ORTENSIA: Sì, è un Cavaliere giocoso: dice sempre delle barzellette; verrà quanto prima col Conte Orazio, marito della Contessina.
DEJANIRA (fa forza per trattenersi dal ridere).
MIRANDOLINA: La fa ridere anche il signor Conte? (a Dejanira)
ORTENSIA: Ma via, Contessina, tenetevi un poco nel vostro decoro.
MIRANDOLINA: Signore mie, favoriscano in grazia. Siamo sole, nessuno ci sente. Questa contea, questa baronia, sarebbe mai...
ORTENSIA: Che cosa vorreste voi dire? Mettereste in dubbio la nostra nobiltà?
MIRANDOLINA: Perdoni, illustrissima, non si riscaldi, perché farà ridere la signora Contessa.
DEJANIRA: Eh via, che serve?
ORTENSIA: Contessa, Contessa! (minacciandola)
MIRANDOLINA: Io so che cosa voleva dire, illustrissima. (a Dejanira)
DEJANIRA: Se l'indovinate, vi stimo assai.
MIRANDOLINA: Volevate dire: Che serve che fingiamo d'esser due dame, se siamo due pedine? Ah! non è vero?
DEJANIRA: E che sì che ci conoscete? (a Mirandolina)
ORTENSIA: Che brava commediante! Non è buona da sostenere un carattere.
DEJANIRA: Fuori di scena io non so fingere.
MIRANDOLINA: Brava, signora Baronessa; mi piace il di lei spirito. Lodo la sua franchezza.
ORTENSIA: Qualche volta mi prendo un poco di spasso.
MIRANDOLINA: Ed io amo infinitamente le persone di spirito. Servitevi pure nella mia locanda, che siete padrone; ma vi prego bene, se mi capitassero persone di rango, cedermi quest'appartamento, ch'io vi darò dei camerini assai comodi.
DEJANIRA: Sì, volentieri.
ORTENSIA: Ma io, quando spendo il mio denaro, intendo volere esser servita come una dama, e in questo appartamento ci sono, e non me ne anderò.
MIRANDOLINA: Via, signora Baronessa, sia buona... Oh! Ecco un cavaliere che è alloggiato in questa locanda. Quando vede donne, sempre si caccia avanti.
ORTENSIA: È ricco?
MIRANDOLINA: Io non so i fatti suoi.

SCENA VENTUNESIMA
Il Marchese e dette.
MARCHESE: È permesso? Si può entrare?
ORTENSIA: Per me è padrone.
MARCHESE: Servo di lor signore.
DEJANIRA: Serva umilissima.
ORTENSIA: La riverisco divotamente.
MARCHESE: Sono forestiere? (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Eccellenza sì. Sono venute ad onorare la mia locanda.
ORTENSIA: (È un'Eccellenza! Capperi!). (da sé)
DEJANIRA: (Già Ortensia lo vorrà per sé). (da sé)
MARCHESE: E chi sono queste signore? (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Questa è la Baronessa Ortensia del Poggio, e questa la Contessa Dejanira dal Sole.
MARCHESE: Oh compitissime dame!
ORTENSIA: E ella chi è, signore?
MARCHESE: Io sono il Marchese di Forlipopoli.
DEJANIRA: (La locandiera vuol seguitare a far la commedia). (da sé)
ORTENSIA: Godo aver l'onore di conoscere un cavaliere così compito.
MARCHESE: Se vi potessi servire, comandatemi. Ho piacere che siate venute ad alloggiare in questa locanda. Troverete una padrona di garbo.
MIRANDOLINA: Questo cavaliere è pieno di bontà. Mi onora della sua protezione.
MARCHESE: Sì, certamente. Io la proteggo, e proteggo tutti quelli che vengono nella sua locanda; e se vi occorre nulla, comandate.
ORTENSIA: Occorrendo, mi prevarrò delle sue finezze.
MARCHESE: Anche voi, signora Contessa, fate capitale di me.
DEJANIRA: Potrò ben chiamarmi felice, se avrò l'alto onore di essere annoverata nel ruolo delle sue umilissime serve.
MIRANDOLINA: (Ha detto un concetto da commedia). (ad Ortensia)
ORTENSIA: (Il titolo di Contessa l'ha posta in soggezione). (a Mirandolina)
(Il Marchese tira fuori di tasca un bel fazzoletto di seta, lo spiega, e finge volersi asciugar la fronte)
MIRANDOLINA: Un gran fazzoletto, signor Marchese!
MARCHESE: Ah! Che ne dite? È bello? Sono di buon gusto io? (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Certamente è di ottimo gusto.
MARCHESE: Ne avete più veduti di così belli? (ad Ortensia)
ORTENSIA: È superbo. Non ho veduto il compagno. (Se me lo donasse, lo prenderei). (da sé)
MARCHESE: Questo viene da Londra. (a Dejanira)
DEJANIRA: È bello, mi piace assai.
MARCHESE: Son di buon gusto io?
DEJANIRA: (E non dice a' vostri comandi). (da sé)
MARCHESE: M'impegno che il Conte non sa spendere.   Getta via il denaro, e non compra mai una galanteria di buon gusto.
MIRANDOLINA: Il signor Marchese conosce, distingue, sa, vede, intende.
MARCHESE (piega il fazzoletto con attenzione) Bisogna piegarlo bene, acciò non si guasti. Questa sorta di roba bisogna custodirla con attenzione. Tenete. (lo presenta a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Vuole ch'io lo faccia mettere nella sua camera?
MARCHESE: No. Mettetelo nella vostra.
MIRANDOLINA: Perché... nella mia?
MARCHESE: Perché... ve lo dono.
MIRANDOLINA: Oh, Eccellenza, perdoni...
MARCHESE: Tant'è. Ve lo dono.
MIRANDOLINA: Ma io non voglio.
MARCHESE: Non mi fate andar in collera.
MIRANDOLINA: Oh, in quanto a questo poi, il signor Marchese lo sa, io non voglio disgustar nessuno. Acciò non vada in collera, lo prenderò.
DEJANIRA: (Oh che bel lazzo!). (ad Ortensia)
ORTENSIA: (E poi dicono delle commedianti). (a Dejanira)
MARCHESE: Ah! Che dite? Un fazzoletto di quella sorta, l'ho donato alla mia padrona di casa. (ad Ortensia)
ORTENSIA: È un cavaliere generoso.
MARCHESE: Sempre così.
MIRANDOLINA: (Questo è il primo regalo che mi ha fatto, e non so come abbia avuto quel fazzoletto). (da sé)
DEJANIRA: Signor Marchese, se ne trovano di quei fazzoletti in Firenze? Avrei volontà d'averne uno compagno.
MARCHESE: Compagno di questo sarà difficile; ma vedremo.
MIRANDOLINA: (Brava la signora Contessina). (da sé)
ORTENSIA: Signor Marchese, voi che siete pratico della città, fatemi il piacere di mandarmi un bravo calzolaro, perché ho bisogno di scarpe.
MARCHESE: Sì, vi manderò il mio.
MIRANDOLINA: (Tutte alla vita; ma non ce n'è uno per la rabbia). (da sé)
ORTENSIA: Caro signor Marchese, favorirà tenerci un poco di compagnia.
DEJANIRA: Favorirà a pranzo con noi.
MARCHESE: Sì, volentieri. (Ehi Mirandolina, non abbiate gelosia, son vostro, già lo sapete).
MIRANDOLINA: (S'accomodi pure: ho piacere che si diverta). (al Marchese)
ORTENSIA: Voi sarete la nostra conversazione.
DEJANIRA: Non conosciamo nessuno. Non abbiamo altri che voi.
MARCHESE: Oh care le mie damine! Vi servirò di cuore.

SCENA VENTIDUESIMA
Il Conte e detti.
CONTE: Mirandolina, io cercava voi.
MIRANDOLINA: Son qui con queste dame.
CONTE: Dame? M'inchino umilmente.
ORTENSIA: Serva divota. (Questo è un guasco più badial (3) di quell'altro). (piano a Dejanira)
DEJANIRA: (Ma io non sono buona per miccheggiare) (4). (piano ad Ortensia)
MARCHESE: (Ehi! Mostrate al Conte il fazzoletto). (piano a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Osservi signor Conte, il bel regalo che mi ha fatto il signor Marchese. (mostra il fazzoletto al Conte)
CONTE: Oh, me ne rallegro! Bravo, signor Marchese.
MARCHESE: Eh niente, niente. Bagattelle. Riponetelo via; non voglio che lo diciate. Quel che fo, non s'ha da sapere.
MIRANDOLINA: (Non s'ha da sapere, e me lo fa mostrare. La superbia contrasta con la povertà). (da sé)
CONTE: Con licenza di queste dame, vorrei dirvi una parola. (a Mirandolina)
ORTENSIA: S'accomodi con libertà.
MARCHESE: Quel fazzoletto in tasca lo manderete a male. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Eh, lo riporrò nella bambagia, perché non si ammacchi!
CONTE: Osservate questo piccolo gioiello di diamanti. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Bello assai.
CONTE: È compagno degli orecchini che vi ho donato. (Ortensia e Dejanira osservano, e parlano piano fra loro)
MIRANDOLINA: Certo è compagno, ma è ancora più bello.
MARCHESE: (Sia maledetto il Conte, i suoi diamanti, i suoi denari, e il suo diavolo che se lo porti). (da sé)
CONTE: Ora, perché abbiate il fornimento compagno, ecco ch'io vi dono il gioiello. (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Non lo prendo assolutamente.
CONTE: Non mi farete questa male creanza.
MIRANDOLINA: Oh! delle male creanze non ne faccio mai. Per non disgustarla, lo prenderò.
(Ortensia e Dejanira parlano come sopra, osservando la generosità del Conte)
MIRANDOLINA: Ah! Che ne dice, signor Marchese? Questo gioiello non è galante?
MARCHESE: Nel suo genere il fazzoletto è più di buon gusto.
CONTE: Sì, ma da genere a genere vi è una bella distanza.
MARCHESE: Bella cosa! Vantarsi in pubblico di una grande spesa.
CONTE: Sì, sì, voi fate i vostri regali in segreto.
MIRANDOLINA: (Posso ben dire con verità questa volta, che fra due litiganti il terzo gode). (da sé)
MARCHESE: E così, damine mie, sarò a pranzo con voi.
ORTENSIA: Quest'altro signore chi è? (al Conte)
CONTE: Sono il Conte d'Albafiorita, per obbedirvi.
DEJANIRA: Capperi! È una famiglia illustre, io la conosco. (anch'ella s'accosta al Conte)
CONTE: Sono a' vostri comandi. (a Dejanira)
ORTENSIA: È qui alloggiato? (al Conte)
CONTE: Sì, signora.
DEJANIRA: Si trattiene molto? (al Conte)
CONTE: Credo di sì.
MARCHESE: Signore mie, sarete stanche di stare in piedi, volete ch'io vi serva nella vostra camera?
ORTENSIA: Obbligatissima. (con disprezzo) Di che paese è, signor Conte?
CONTE: Napolitano.
ORTENSIA: Oh! Siamo mezzi patrioti. Io sono palermitana.
DEJANIRA: Io son romana; ma sono stata a Napoli, e appunto per un mio interesse desiderava parlare con un cavaliere napolitano.
CONTE: Vi servirò, signore. Siete sole? Non avete uomini?
MARCHESE: Ci sono io, signore: e non hanno bisogno di voi.
ORTENSIA: Siamo sole, signor Conte. Poi vi diremo il perché.
CONTE: Mirandolina.
MIRANDOLINA: Signore.
CONTE: Fate preparare nella mia camera per tre. Vi degnerete di favorirmi? (ad Ortensia e Dejanira)
ORTENSIA: Riceveremo le vostre finezze.
MARCHESE: Ma io sono stato invitato da queste dame.
CONTE: Esse sono padrone di servirsi come comandano, ma alla mia piccola tavola in più di tre non ci si sta.
MARCHESE: Vorrei veder anche questa...
ORTENSIA: Andiamo, andiamo, signor Conte. Il signor Marchese ci favorirà un'altra volta. (parte)
DEJANIRA: Signor Marchese, se trova il fazzoletto, mi raccomando. (parte)
MARCHESE: Conte, Conte, voi me la pagherete.
CONTE: Di che vi lagnate?
MARCHESE: Son chi sono, e non si tratta così. Basta... Colei vorrebbe un fazzoletto? Un fazzoletto di quella sorta? Non l'avrà. Mirandolina, tenetelo caro. Fazzoletti di quella sorta non se ne trovano. Dei diamanti se ne trovano, ma dei fazzoletti di quella sorta non se ne trovano. (parte)
MIRANDOLINA: (Oh che bel pazzo!). (da sé)
CONTE: Cara Mirandolina, avrete voi dispiacere ch'io serva queste due dame?
MIRANDOLINA: Niente affatto, signore.
CONTE: Lo faccio per voi. Lo faccio per accrescer utile ed avventori alla vostra locanda; per altro io son vostro, è vostro il mio cuore, e vostre son le mie ricchezze, delle quali disponetene liberamente, che io vi faccio padrona. (parte)

SCENA VENTITREESIMA
MIRANDOLINA (sola)
Con tutte le sue ricchezze, con tutti li suoi regali, non arriverà mai ad innamorarmi; e molto meno lo farà il Marchese colla sua ridicola protezione. Se dovessi attaccarmi ad uno di questi due, certamente lo farei con quello che spende più. Ma non mi preme né dell'uno, né dell'altro. Sono in impegno d'innamorar il Cavaliere di Ripafratta, e non darei un tal piacere per un gioiello il doppio più grande di questo. Mi proverò; non so se avrò l'abilità che hanno quelle due brave comiche, ma mi proverò. Il Conte ed il Marchese, frattanto che con quelle si vanno trattenendo, mi lasceranno in pace; e potrò a mio bell'agio trattar col Cavaliere. Possibile ch'ei non ceda? Chi è quello che possa resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell'arte sua? Chi fugge non può temer d'esser vinto, ma chi si ferma, chi ascolta, e se ne compiace, deve o presto o tardi a suo dispetto cadere. (parte)
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(1) Gergo de’ commedianti, che vuol dire: ci scopriranno
(2) Gergo: danari
(3) Guasco badiale in gergo vuol dire un nobile ricco

(4) Micheggiare in gergo vuol dire domandar regali e cose simili



70 Sior Todero Brontolon - atto terzo (di Carlo Goldoni)



Essendo una commedia, non può che finir bene (almeno dal punto di vista di alcuni dei personaggi, in particolare i giovani, che ottengono quello che vogliono); ma con quali mezzi si è riusciti a ottenere ciò che si voleva? Con l’astuzia, che è un altro modo di intendere la ragione, quella grande componente umana che gli illuministi consideravano il fattore del progresso, della libertà, della giustizia sociale.

ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Todero.
TODERO e DESIDERIO
TOD. Chi èlo sto sior che me vol parlar?
DESID. Mi no saveria. El xe un zovene, proprio, civil.
TOD. Domandeghe cossa che el vol.
DESID. Mo no sarave meggio, che la lo fasse vegnir?..
TOD. Sior no. Volè sempre far el dottor. Domandeghe cossa che el vol.
DESID. Benissimo. (Ghe vol una gran pazenzia). (parte)
TOD. Stago a véder, che el sia qualchedun mandà da mia niora, o per pregarme o per farme qualche bulada.
DESID. Con tutta civiltà, e con un mondo de cerimonie, el m'ha domandà perdon se a mi nol me dise cossa che el vol, perché la xe una cossa che nol la pol dir a altri che a ela.
TOD. Xelo solo?
DESID. El xe solo.
TOD. Gh'alo spada?
DESID. El xe in tabarro. Mi no gh'ho mo osservà, se el gh'abbia anca la spada.
TOD. Orbo, alocco, no savè mai gnente.
DESID. Anderò a véder, se el gh'ha la spada.
TOD. Aspettè, vegnì qua. Xelo foresto, o xelo venezian?
DESID. Al parlar el me par venezian.
TOD. Che muso gh'alo?
DESID. El gh'ha muso da galantomo.
TOD. Diseghe che el vegna.
DESID. Manco mal. (in atto di partire)
TOD. Eh! cossa me vienli a intrigar i bisi? Sentì, vegnì qua.
DESID. La comandi.
TOD. Dove xe vostro fio?
DESID. El sarà in mezzà.
TOD. Arecordeve ben, che doman vôi che se destrighemo; vôi che i se sposa, e vôi esser fora de sto pensier.
DESID. Ben, quel che la comanda.
TOD. Fazzo conto, che ghe daremo la camera dove che dormì vu.
DESID. E mi dove vorla che vaga?
TOD. Ve farè un letto postizzo in mezzà.
DESID. Basta. Vederemo...
TOD. Coss'è sto vederemo?
DESID. Quel sior aspetta.
TOD. Lassè che l'aspetta.
DESID. El se stuferà.
TOD. Se el se stuferà, l'anderà via.
DESID. (Mo che omo! mo che satiro! mo che natural!)
TOD. Che difficoltà gh'aveu de farve un letto in mezzà?
DESID. Gnente. Bisognerà che el letto la lo proveda.
TOD. In tel vostro letto quanti stramazzi gh'aveu?
DESID. Do.
TOD. Ben, tirèghene via uno, doppielo, el servirà per pagiazzo e per stramazzo per vu.
DESID. E la vol che staga i novizzi con un stramazzo solo?
TOD. Vardè che casi! quanti credeu che ghe ne sia in tel mio letto? Uno, e xe quindes'anni che nol se pettena.
DESID. Mo, caro sior Todero...
TOD. Sior diavolo che ve porta.
DESID. Caro sior patron...
TOD. Zitto. No alzè la ose.
DESID. Almanco per sti primi dì...
TOD. Tasè. Andè a spionar a pian pian dalla portiera, se quel sior xe andà via.
DESID. (In fatti bisognerave che el fusse andà). (va alla porta)
TOD. Ghe xelo?
DESID. El ghe xe.
TOD. (Gh'ho capio. Bisogna che el gh'abbia una gran premura. Col sta tanto, so che ora che xe; el sarà qua per bezzi, el gh'averà bisogno de bezzi. Sì, sì, se el xe un bon negozio, l'ascolterò; se el xe una canna sbusa, lo mando via). Diseghe che el vegna.
DESID. (Poverazzo! l'ha avù una gran pazenzia. De là no ghe xe gnanca careghe da sentarse). (parte)

SCENA SECONDA
TODERO, e poi MENEGHETTO
TOD. Eh! al dì d'ancuo no gh'è più da far ben. No se sa de chi fidarse. Bisogna andar cauti; contentarse de vadagnar poco; ma far i so negozietti seguri.
MENEG. (Per verità, el primo recevimento xe qualcossa de particolar. No se pol trattar pezo con un villan. Vôi soffrir tutto. Dal canto mio no vôi che ste signore abbia motivo de lamentarse).
TOD. (Sì, el xe ben all'ordene; ma pol esser che tutto quel che el gh'ha a sto mondo, el lo gh'abbia a torno, e chi sa gnanca se el l'ha pagà).
MENEG. Patron mio riverito.
TOD. Servitor suo.
MENEG. La perdona l'incomodo.
TOD. Gh'ho un mondo de daffari. Gh'ho cento cosse da destrigar. La me diga in cossa che la posso servir.
MENEG. Me despiase de desturbarla; ma la supplico de tollerarme.
TOD. Xelo negozio longo?
MENEG. El pol esser curto, e el poderave esser longhetto.
TOD. Se fusse per bezzi, ghel digo avanti: no ghe n'ho.
MENEG. No signor; per grazia del cielo no ho bisogno de incomodarla per questo.
TOD. Ben: la diga donca quel che la vol.
MENEG. (Stimo che nol me dise gnanca se me vôi sentar). La perdoni: no gh'ala ela una nezza da maridar?
TOD. Sior no.
MENEG. No?
TOD. Sior no.
MENEG. La favorissa. Sior Pellegrin no gh'alo una fia?
TOD. Sior sì.
MENEG. No xela da maridar?
TOD. Sior no.
MENEG. Mo perché no xela da maridar?
TOD. Perché la xe maridada.
MENEG. Ghe domando mille perdoni. So sior pare e so siora mare no i lo sa che la sia maridada.
TOD. Ghe domando domila scuse. Se no i lo sa lori, lo so mi.
MENEG. Per amor del cielo, la compatissa l'ardir. E la putta lo sala?
TOD. Se no la lo sa, la lo saverà.
MENEG. Donca no la xe maridada.
TOD. Donca mi intendo che la sia maridada. (con sdegno)
MENEG. La prego, la prego; no la se altera, per carità. Son un galantomo, son un omo d'onor; no permetterave mai, che per causa mia l'avesse da soffrir el minimo despiaser. Intendo adesso quel che la vol dir. El l'ha promessa, e i omeni d'onor, i omeni che fa conto della so parola, co i ha promesso una cossa, i la considera come fatta. Bravissimo; son persuaso, lodo el so bon costume, e me ne consolo con ela infinitamente.
TOD. (Sì ben, sì ben, el gh'ha bona chiaccola. A véderlo, no credeva tanto).
MENEG. (Xe un'ora che stago in piè. Debotto no posso più).
TOD. Orsù, gh'ala altro da comandarme?
MENEG. Se la me permettesse, gh'averia qualche altra cossa da dirghe.
TOD. La prego de destrigarse.
MENEG. Me despiase de véderlo a star incomodo.
TOD. Me despiase anca a mi.
MENEG. La se senta.
TOD. No gh'ho tempo da perder.
MENEG. (Pazenzia. Sopporterò). Me onoreràvela de dir a mi, chi sia la persona alla qual l'ha promesso e, segondo ela, l'ha maridà sta so nezza?
TOD. Cossa, che importa a ela a saverlo? Cossa gh'ìntrela in ti fatti mi?
MENEG. Per amor del cielo, no la se scalda, la me tollera con bontà. No son qua né per turbar la so pase, né per arrogarme quell'autorità che no gh'ho. Son qua per ben, e la resterà persuasa della mia onestà, e della mia bona intenzion. Vorla favorirme de dir chi sia sto novizzo?
TOD. Sior no.
MENEG. La me permetterà donca, che mi ghe diga che el so.
TOD. La lo sa? (con maraviglia)
MENEG. Per obbedirla.
TOD. La diga mo, chi el xe.
MENEG. Sì, signor, subito. El fio del so fattor.
TOD. Da chi l'aveu savesto, sior? (con sdegno)
MENEG. No xe necessario che ghe diga de più.
TOD. Vôi che me disè, chi ve l'ha ditto.
MENEG. Ghe lo dirò, ma prima la favorissa ela de dirme, per che causa ste nozze che xe per farse, e che segondo ela xe fatte, la le ha tegnue sconte per el passà, e la seguita a volerle sconder presentemente?
TOD. Ve torno a dir, che non ho da render conto né a vu, né a chi che sia, de quel che fasso, e de quel che voggio, e de quel che penso.
MENEG. Perméttela che ghe diga, che no solo mi so quel che la fa, ma anca quel che la pensa?
TOD. Come? Seu qualche strigon?
MENEG. No, signor, no son un strigon; ma son un zovene che, per grazia del cielo, gh'ha tanto lume che basta per conosser i omeni, e arguir dalle operazion i pensieri e i sentimenti interni che le ha prodotte. La soffra, sior Todero, la soffra con bontà che ghe diga, che un omo della so sorte, in concetto de omo ricco, de omo d'onor, gh'ha rason se el se vergogna de far saver al mondo una debolezza de sta natura, che no merita de esser approvada da chi che sia.
TOD. Coss'è, sior? Chi ve manda? Chi v'ha imboccà? Per chi me vegnìu a parlar?
MENEG. Nissun me manda. Vegno mi da mia posta. Parlo per ela, e se ho da confessarghe la verità, parlo anca per mi.
TOD. Oh! adesso intendo. Seu quello che ha domandà mia nezza a so mare, e che so mare ve l'aveva accordada senza de mi?
MENEG. La perdoni. Una mia zermana ha parlà. Qualcossa xe stà discorso; ma l'assicuro in via d'onor, in via de pontualità, che senza el so assenso no se averave concluso mai. So el mio dover, so el respetto che se convien a un pare de fameggia, a un capo de casa, a un omo respettabile della so qualità.
TOD. (No se pol negar, che nol gh'abbia delle massime da omo civil).
MENEG. No so se la cognossa la mia fameggia.
TOD. Chi seu?
MENEG. Meneghetto Ramponzoli per obbedirla.
TOD. I Ramponzoli li cognosso.
MENEG. Me lusingo che nissun possa intaccar in gnente né el mio costume, né la mia civiltà.
TOD. Mi no digo che cussì no sia.
MENEG. E no poderia lusingarme, che la me concedesse so nezza?
TOD. Mia nezza xe maridada.
MENEG. No la xe maridada. (flemmaticamente)
TOD. Sior sì, che la xe maridada. (con caricatura)
MENEG. Ghe domando perdon: no la xe maridada. (come sopra )
TOD. Son in parola de maridarla, ho promesso de maridarla, e posso dir: la xe maridada. (con isdegno)
MENEG. Col fio del so fattor?
TOD. Con chi me par e me piase a mi.
MENEG. Za che da mi l'ha sofferto tanto, la supplico de soffrir anca questo. Se dise che la la vol maridar al fio del so fattor, gnente per altro che per el sparagno miserabile della dota.
TOD. Chi dise sta baronada? Chi dise sta falsità? No xe vero gnente. Ghe dago siemile ducati. E se no credè, vardè, e disèghelo a chi nol crede; e disèghe a ste lengue indegne che me crede un avaro, che son galantomo, e che ghe dago a mia nezza siemile ducati, siemile ducati, siemile ducati. (colla carta alla mano)
MENEG. Come! la ghe dà so nezza al fio del so fattor con siemile ducati de dota, e no la se degnerà de darmela a mi?...
TOD. La xe maridada. (con forza)
MENEG. No la se degnerà de darmela a mi, che la torria senza dota? (caricando la voce)
TOD. Senza dota? (con maraviglia)
MENEG. Sull'onor mio, senza dota. (caricando, come sopra)
TOD. E un omo della vostra sorte se marideria senza dota?
MENEG. Anzi; siccome per grazia del cielo no son in stato d'aver bisogno, mi no vago in cerca de dota.
TOD. Caro sior, se vorla sentar?
MENEG. Grazie alla so bontà; (prende una sedia, e siede) e ela no la se senta?
TOD. No son stracco. (resta pensoso)
MENEG. (Pol esser che l'avarizia lo persuada). E cussì, che risposta me dala?
TOD. Caro sior... L'ho promessa.. El contratto xe sottoscritto... Lassè che torna a lezer sta carta. (finge di legger piano)
MENEG. (Voggia el cielo, che la vaga ben).
TOD. (Senza dota! El saria el mio caso. Ma in sostanza, che dota ghe daghio a Desiderio e a so fio? Gnanca un bezzo. Xe vero che maridando mia nezza co sto sior, in fazza del mondo parerave più bon... Ma chi farà i mi interessi? Se desgusto Desiderio e so fio, chi me servirà? Bisognerà che paga un fattor, che paga un zovene...) (da sé, cogli occhi sulla carta, fingendo sempre di leggere)
MENEG. Ala letto? Ala visto? Possio sperar? (alzandosi)
TOD. Ho letto, ho visto, ho pensà. Ghe torno a dir mia nezza xe maridada.
MENEG. Come? (mortificato)
TOD. Come! Come! La xe cussì.
MENEG. Ma la favorissa...
TOD. La perdoni. Gh'ho troppo da far. No me posso più trattegnir.
MENEG. Ma la me diga almanco...
TOD. Gh'è nissun de là? Oe, Desiderio, dove seu?

SCENA TERZA
DESIDERIO e detti.
DESID. La comandi.
TOD. Compagné sto signor. (a Desiderio) La scusa. Ho da far. A bon reverirla. (parte)
MENEG. (Che maniera impropria, incivil!)
DESID. (Manco mal, che ho tutto sentìo).
MENEG. (No gh'è remedio. Anderò da siora Marcolina anderò a licenziarme). (va per sortire dalla porta per dove è entrato)
DESID. Per de qua, la veda, per de qua se va fora più presto. (mostrandogli l'altra porta)
MENEG. Avanti d'andar via, vorave riverir siora Marcolina.
DESID. No la ghe xe, la veda.
MENEG. No la ghe xe?
DESID. La xe andada fora de casa.
MENEG. La xe andada fora de casa? Bravo. Ho capio. (Costù sa qualcossa. Eh, no me degno de vegnir a parole con lu. Anderò via, e tornerò). (parte per dove Desiderio ha accennato)
DESID. Patron reverito. El va via senza saludarme. Poverazzo! Se cognosse el so bruseghin. In fatti... Co ghe penso anca mi... Cossa dirà siora Marcolina? La sbrufferà un poco. E po? E po bisognerà che la sbassa le ale, e che la se contenta anca ela. (parte)

SCENA QUARTA
Altra camera.
CECILIA e NICOLETTO
CEC. Vegnì mo qua, sior, cossa diavolo me diseu?
NICOL. Zitto, che no i senta.
CEC. Eh! no ghe xe nissun. Disè, disè; cossa v'insunieu?
NICOL. Mi no m'insonio gnente. Ve digo cussì, che sior Todero me vol dar so nezza.
CEC. A chi?
NICOL. A mi.
CEC. Con quel muso?
NICOL. Co sto muso.
CEC. Eh! via, andèghela a contar ai morti.
NICOL. Sangue de diana, che me faressi dir! Cossa songio? Un pampalugo? Non ho da saver quel che i dise? Doman m'ho da maridar, e non ho da saver chi ha da esser mia muggier?
CEC. Doman v'avè da maridar?
NICOL. Siora sì, doman.
CEC. Chi ve l'ha ditto?
NICOL. Sior pare me l'ha ditto. E el m'ha ditto, che gnancora no diga gnente a nissun.
CEC. (Per diana! scomenzo a aver paura che el diga la verità. Se fusse mi, i m'averave ditto qualcossa).
NICOL. E no dormirò più co sior pare, e mi gh'averò la camera tutta per mi, e lu l'anderà a dormir in mezzà, e mi gh'averò la novizza, e i me vestirà pulito, e anderò fora de casa quando che vorrò mi. (gloriandosi di tutto questo)
CEC. (La xe una cossa che me farave strassecolar). Come diavolo se pol dar, che el paron ve voggia dar a vu una so nezza?
NICOL. Varè, vedè. Cossa sóngio mi?
CEC. Ve par che vu v'abbiè da metter con quella putta?
NICOL. Co i me mette lori, bisogna che i me possa metter.
CEC. Schiavo sior novizzo, donca. (con ironia)
NICOL. Ah? Cossa diseu? (allegro)
CEC. E de mi no ghe pensè più gnente? (mortificata)
NICOL. No ghe penso? Siora sì che ghe penso.
CEC. Co sposè la parona, per mi no gh'è più speranza.
NICOL. Perché no gh'è più speranza? Co la morirà ela ve sposerò vu.
CEC. Eh! povero mamalucco. Ma mi mamalucca, che no doveva tender alle parole de un frasca.
NICOL. Oe, no me strapazzè, savè, che ghel dirò a sior pare.
CEC. Cossa m'importa a mi? Disèghelo a chi volè vu. Sior sì, sè un frasca, un cabala, una carogna.
NICOL. Voleu zogar che debotto... (con isdegno)
CEC. Coss'è sto debotto? (alzando la voce)
NICOL. Son paron anca mi. (si riscaldano tutti due)
CEC. Mi no ve cognosso per gnente.
NICOL. E ve farò mandar via.
CEC. Vu me farè andar via?

SCENA QUINTA
MARCOLINA, FORTUNATA e detti.
MARC. Oe, oe. Cossa xe sto sussuro?
FORT. Siora Marcolina, xelo questo quel bel novizzo?
MARC. Siora sì. Cossa dìsela?
FORT. Mo caro! Mo che bella zoggia! Mo che fortunazza che ghe toccheria a quella putta! (ironico)
CEC. (Me par anca impussibile, che la parona ghe la voggia dar).
NICOL. Le diga, lo sale anca ele che son novizzo? Siora Zanetta lo sala?
MARC. Tocco de temerario, ti averessi tanto ardir de pretender de sposar la mia putta? No ti te vergogni, sporco, ignorantazzo, pezzente, de metterte con una mia fia? Cossa credistu, perché ti gh'ha dalla toa quel vecchio sordido de mio messier, che gh'averò paura de farte dar un fracco de bastonae? Se ti gh'averà ardir gnanca de vardarla mia fia, gnanca de minzonarla, no ti sarà mai più omo in tempo de vita toa.
NICOL. (Aseo!)
CEC. (Oh che gusto che gh'ho!)
FORT. Vedeu, sior novizzo? Questa sarà la dota che gh'averè.
NICOL. Mo per cossa mo? Cossa gh'oggio fatto?
MARC. Cossa che ti m'ha fatto?
FORT. No, siora Marcolina, la me compatissa, no la gh'ha rason de andar in collera co sto putto. Elo no ghe n'ha colpa. Nevvero, fio mio? Vu no ghe n'avè colpa. (fingendo dolcezza)
NICOL. Mi no ghe n'ho colpa.
FORT. Cossa gh'importa a elo de sposar so fia? Disè la verità, a vu v'importa gnente? (a Nicoletto)
NICOL. Mi no, gnente.
FORT. Figurarse, se in sta età gh'importa de maridarse! No ghe pensè nevvero de maridarve? (a Nicoletto)
NICOL. (Non risponde e guarda in terra)
FORT. Coss'è, no respondè? Gh'averessi voggia de maridarve?
NICOL. Mi sì, che me marideria.
FORT. Oh caro! e pretenderessi siora Zanetta?
NICOL. Mi no pretendo gnente, mi no pretendo.
MARC. Via, via, siora Fortunata, ho capio: da una banda lo compatisso. Poverazzo, el se vorria maridar, ma no gh'importa miga d'aver mia fia. Ghe scometto mi, che el gh'averia più a caro d'aver Cecilia. (finge anch'ella dolcezza)
FORT. Cossa diseu? La sposeressi Cecilia? (a Nicoletto)
NICOL. Mi sì che la sposeria.
CEC. Bisognerave véder, se mi lo volesse.
MARC. La varda, cara ela! che casi! Stamattina cossa m'ala ditto?
CEC. Mo no védela che no gh'importa gnente de mi? Che el me lassa mi per un'altra?
MARC. Per un'altra? Coss'è sto dir per un'altra? Ve metteressi dal pari con una mia fia?
FORT. Creature, queste xe tutte chiaccole che no serve gnente. Se vede che sti do se vol ben; ma el putto i l'ha fatto zo, e Cecilia se n'ha avù un pochetto per mal. Siora Marcolina, se la se contenta, mi voggio che la giustemo. Co l'è fatta, l'è fatta. Sto povero putto me fa peccà. Cecilia gh'ha del merito, e bisogna procurar de farghe sto ben. Maridémoli, e co i sarà maridai, la sarà fenia. Cossa diseu, sior Nicoletto?
NICOL. Certo! acciò che i me daga delle bastonae?
MARC. Mo no, caro fio, no ghe sarà sto pericolo. Diseva cussì, se pretendevi Zanetta, no miga per no darvela a vu, che sè un putto de garbo; ma perché l'ho promessa a un altro, e perché son desgustada co mio misier. Da resto ve voggio ben, ve assisterò, ve defenderò, no ve lasserò mancar el vostro bisogno. Se sior Todero ve manderà via, ve farò trovar un impiego.
FORT. Sì, sior Meneghetto ghe lo troverà.
MARC. Via, Nicoletto, cossa respondeu?
NICOL. Cossa vorla che diga? Mi farò tutto quel che la vol.
MARC. E vu, Cecilia, cossa diseu?
CEC. Cara ela, co la s'impegna che no ne mancherà pan...
MARC. Credo che me cognossè, credo che de mi ve possiè fidar.
FORT. Sentì, fioi: quel che s'ha da far, bisogna farlo presto, perché se i lo vien a saver...
NICOL. Se mio pare lo sa, poveretto mi.
FORT. Oe, voleu che chiamemo do testimoni, e che se destrighemo qua su do piè?
CEC. Vorla che chiama Gregorio? (a Marcolina)
FORT. Uno solo no basta.
CEC. Anderò al balcon, e farò vegnir de suso un de quei zoveni dal caffè.
MARC. Sì, via, destrigheve.
CEC. Vago subito. (Eh! come che nasse i casi, quando che manco i s'aspetta). (parte)
FORT. La ghe n'ha una voggia, che la s'inspirita. (a Marcolina)
NICOL. Lo saveralo mio pare?
MARC. Lassè far a mi.
FORT. Ve defenderemo nu. Cossa gh'aveu paura?

SCENA SESTA
CECILIA, GREGORIO, un FACCHINO e detti.
CEC. Oh! son qua: ghe giera giusto el facchin che ha portà le legne, e se serviremo de elo.
MARC. Vegnì qua mo, Gregorio; vegnì qua, quel zovene. Siè testimoni de sto matrimonio tra ste do creature. Via, deve la man.
NICOL. Oe, Gregorio, no ghe disè gnente a sior pare.
GREG. No saveu? Mi no parlo.
FORT. Via, destrigheve.
NICOL. Me trema le gambe.
CEC. Anemo, dè qua. (prende la mano a Nicoletto) Questo xe mio mario.
FORT. Via, disè anca vu. (a Nicoletto)
NICOL. Coss'oggio da dir? (a Fortunata)
FORT. Questa xe mia muggier. (a Nicoletto)
NICOL. Questa xe mia muggier.
FORT. La xe fatta.
CEC. Ve ringrazio, savè, sior Pasqual. (al Facchino)
PASQ. Patrona, magneremo sti confetti.
GREG. Sì, sì, andemo, vegnì con mi, che marenderemo. (parte con Pasquale)
FORT. Novizzi, me ne consolo.
CEC. Grazie.
NICOL. Songio novizzo adesso?
FORT. Sior sì.
MARC. Vien zente. Andè de là; per adesso no ve lassè véder.
CEC. Andemo. (a Nicoletto)
NICOL. Dove?
CEC. De là, con mi.
NICOL. A cossa far?
CEC. Via, mamalucco, andemo. (lo prende per mano, e parte)

SCENA SETTIMA
MARCOLINA, FORTUNATA, poi MENEGHETTO
FORT. Mo no la podeva andar meggio!
MARC. Tegniralo sto matrimonio?
FORT. Oe; i novizzi xe in camera; che i lo desfa, se i pol.
MARC. Per la condizion no ghe xe gnente da dir.
FORT. Siora Zanetta, co l'al saverà, la salterà tant'alta.
MARC. Mio mario ha da restar.
FORT. E el vecchio?
MARC. E sior Desiderio?
FORT. Oh! che rider!
MENEG. Eh! sior Desiderio no riderà.
FORT. Oe, sior Meneghetto. (accennando ch'egli viene)
MARC. Oh! bravo.
MENEG. Le perdoni. Ho trovà la porta averta. Me son tolto la libertà de entrar. (mortificato)
FORT. Cossa gh'è, sior Meneghetto?
MARC. Sior Meneghetto, cossa xe stà?
MENEG. Ho parlà, ho fatto quel che ho podesto, e no gh'è remedio. (con afflizione)
MARC. No? (ridendo)
FORT. No dasseno? (ridendo)
MENEG. Le ride? (con ammirazione)
FORT. Anca sì, che ghe xe remedio.
MENEG. Mo come?
FORT. Oe, alle curte...
MARC. Levemolo de pena (a Fortunata)
FORT. Nicoletto l'ha fatta... (tutte due parlano sì presto che Meneghetto, ch'è in mezzo di loro, rimane quasi stordito)
MARC. El s'ha maridà...
FORT. L'ha sposà Cecilia...
MARC. E so pare no sa gnente...
FORT. No gh'avemo più paura de lu...
MARC. La mia putta xe in libertà...
FORT. E la sarà vostra de vu...
MARC. Co el se contenta de aspettar la dota...
FORT. Siora sì, l'ha promesso, e l'aspetterà.
MARC. Ma destrighemose...
FORT. Cossa diseu? (a Meneghetto)
MENEG. Oimei! per carità. La me lassa chiappar un pochetto de fià. Tutte ste cosse xe nate in cussì poco tempo?
MARC. Sior sì, la xe cussì. Gh'alo paura che lo voggiemo burlar?
MENEG. (Son fora de mi. No so in che mondo che sia).
MARC. El par incantà. (a Fortunata)
FORT. L'amor, fia mia, l'amor, la consolazion.
MARC. Anca mi me sento sbalzar el cuor.
FORT. E mi? In sta cossa no gh'intro più che tanto; ma gh'ho una sodisfazion, come se fusse per mi.
MARC. Oe, vardè: Desiderio. (a Fortunata, accennando ch'ei viene)
FORT. Retireve, retireve, zerman. (a Meneghetto)
MENEG. Me par un insonio. Ho paura de desmissiarme. (si ritira)

SCENA OTTAVA
MARCOLINA, FORTUNATA e DESIDERIO
DESID. (Son intrigà. Vorave dirghelo a siora Marcolina, e no so come far).
MARC. (Ancora, col vedo, se me move el sangue). (a Fortunata)
DESID. (Figurarse! la sarà inviperia. Ma se mio fio ha da sposar so fia, bisogna ben che ghe parla). Patrona, siora Marcolina.
MARC. Patron. (con indifferenza)
FORT. Sior Desiderio, patron. (cortesemente)
DESID. Patrona. No so se la sappia l'onor che sior Todero m'ha volesto far. (a Marcolina)
MARC. Oh! sior sì, el so. (dolcemente)
FORT. Me consolo, sior Desiderio.
DESID. Grazie. Mi certo non averave mai avudo sto ardir...
MARC. Oh, cossa che el dise! Me maraveggio. (con ironia)
FORT. Le cosse, co le xe destinae... (urtandosi con Marcolina)
DESID. (Vardè, vardè, mi no credeva mai che la se quietasse cussì facilmente).
MARC. (Oe: el vecchio). (a Fortunata)
FORT. (Adesso vien el bon). (a Marcolina)
MARC. (Xe tre dì che nol vedo). (a Fortunata)
FORT. (Tasemo, no ghe disemo gnente). (a Marcolina)

SCENA NONA
TODERO e detti.
TOD. Cossa feu qua? Perché no tendeu al mezzà? (a Desiderio)
DESID. Caro sior, son vegnù a far le mie parte co siora Marcolina.
FORT. Sior Todero, patron.
TOD. Patrona. (a Fortunata, rusticamente)
MARC. Patron, sior missier. (dolcemente)
TOD. Patrona. (con ammirazione) Andè a far quel che avè da far. (a Desiderio)
DESID. La lassa almanco che fazza el mio dover co siora Marcolina; la lassa che la ringrazia.
TOD. De cossa?
DESID. De la bontà che la gh'ha, de accordar anca ela che la so putta sia muggier de mio fio.
TOD. E vu, siora, cossa diseu? (a Marcolina)
MARC. Mi no digo gnente.
TOD. Ah? (a Marcolina)
MARC. Mi no digo gnente.
DESID. No séntelo? La ghe la dà volentiera. (a Todero)
TOD. (Manco mal. No credeva che la se la passasse co sta pachea).
FORT. (Mi stimo assae che la tegna duro. Me vien da dar un sbroccon da rider, che debotto non posso più).
DESID. Se la se contenta, xe meggio che chiama mio fio, e che se concluda. I m'ha ditto che el giera qua. Sala gnente ela dove che el sia? (a Marcolina)
MARC. Mi no so gnente.
FORT. Eh! so mi dove che el xe: el xe de là co la so novizza. (ridendo)
DESID. Co la so novizza? (ridendo)
FORT. Sior sì, co la so novizza.
DESID. Védela, sior Todero? (con allegria)
TOD. Sior corno. (con ironia)
DESID. Védela, sior paron? El xe co la so novizza. (ridendo)
TOD. Che i vegna qua.
DESID. Subito, li vago a chiamar. (parte)

SCENA DECIMA
MARCOLINA, TODERO e FORTUNATA
FORT. (Oe, ghe semo). (a Marcolina)
MARC. (No vedo l'ora de sentirli a sbruffar).
TOD. Dove xe Pellegrin? (a Marcolina)
MARC. Mi no so dasseno.
TOD. Che alocco! che pampalugo! Nol se vede mai.
MARC. Poverazzo! El gh'ha un pare che lo fa tremar.
TOD. Anemo. Scomenzémio? (con collera)
FORT. Zitto, zitto, che vien el novizzo.

SCENA UNDICESIMA
DESIDERIO tirando per un orecchia NICOLETTO, e detti.
NICOL. Ahi, ahi! ahi! (dolendosi dell'orecchia)
FORT. Oh bello! (ridendo)
NICOL. Ahi! ahi! (come sopra)
TOD. Cossa feu? Seu matto? Seu inspirità? (a Desiderio, con isdegno)
DESlD. Tocco de furbazzo! Tocco de desgrazià! (a Nicoletto)
TOD. Cossa v'alo fatto? (a Desiderio, come sopra)
DESID. Cossa che el m'ha fatto? El m'ha tradìo, el m'ha sassinà, el s'ha maridà.
TOD. Sior bestia, sior strambazzo, no seu stà vu che l'ha maridà?
DESID. Sior diavolo, sior satanasso, l'ha sposà la massera. (a Todero, forte)
TOD. L'ha sposà la massera? (a Fortunata, con maraviglia)
FORT. Oh, mi non me n'impazzo.

SCENA DODICESIMA
CECILIA e detti, poi GREGORIO
CEC. Sior sì, cossa voràvelo dir? El m'ha sposà mi. No l'ha sposà una massera, l'ha sposà una cameriera civil, una putta da ben e onorata.
TOD. Pare e fio, fora subito de casa mia (a Desiderio)
CEC. Ah! sior patron, se raccomandemo alla so carità.
TOD. No gh'è carità che tegna. Baroni, canaggia. Fora subito de casa mia. (strillando)
DESID. Coss'è sto scazzarne? Coss'è sto strapazzar? Son qua; vôi star qua, e no voggio andar via. (con forza)
FORT. Olà, olà, patroni. (alzando la voce)
MARC. Oe, Gregorio, andè presto a chiamar mio mario. (con affanno, e forte. Gregorio si fa vedere, e corre via)

SCENA TREDICESIMA
MENEGHETTO e detti.
MENEG. Le scusi, le perdoni, coss'è sto strepito? Per amor del cielo, no le fazza sussurar la contrada.
TOD. Coss'è, sior? Cossa feu qua? Cossa gh'intreu? (a Meneghetto)
MENEG. Son passà a caso. S'ha sentìo strepito, s'ha sentìo criar. La zente ha fatto bozzolo davanti la so porta. El capo de contrada voleva vegnir. Tutti voleva intrar. Ho credesto ben d'impedir, e son vegnù mi a offerirghe umilmente e de buon cuor el mio agiuto e la mia mediazion.
TOD. Andè via de qua. Pare e fio, fora subito de casa mia. (a Desiderio)
DESID. Ghe torno a dir, sangue de mi, che no voggio andar.
MENEG. Zitto, sior Desiderio. No fe strepito, no ve fe nasar. Ve conseggio andar via co le bone: se no mi, vedeu? Mi, per la stima e per el respetto che gh'ho per sior Todero, mi trovarò la maniera de farve andar.
DESID. Dove oi d'andar? Cossa oi da far co sto aseno maridà?
MENEG. A Nicoletto ghe penserò mi, ghe provederò mi.
FORT. E Cecilia, se sior Todero no la vol in casa, la vegnirà a star con mi.
CEC. Oh sìeli benedetti! Andemo, andemo, el mio caro mario. (lo prende per mano)
NICOL. Andemo, andemo. Oh che gusto! oh che bella cossa! Son maridà. (parte con Cecilia)

SCENA QUATTORDICESIMA
TODERO, MARCOLINA, FORTUNATA, MENEGHETTO e DESIDERIO
DESID. E mi? Cossa ha da esser de mi?
TOD. E vu tornerè a Bergamo a arar i campi.
DESID. Oh! sior patron, la sa con quanta attenzion, con quanta fedeltà l'ho servia. La servirò ancora per gnente, senza salario, per gnente.
TOD. Me servirè per gnente? (con più dolcezza)
DESID. Sior sì, ghe lo prometto.
FORT. Sior sì, sior sì, el ve servirà per gnente. Ma de aria no se vive. El ve servirà per gnente, e el se pagherà da so posta. (a Todero, forte)
DESID. Cossa gh'ìntrela ela? Me vorla veder precipità?
TOD. Tasè là. (a Desiderio) Son poveromo; mi no posso pagar un fattor. (a Fortunata)
MARC. Caro sior missier, no gh'avè vostro fio?
TOD. Nol xe bon da gnente. (a Marcolina)
FORT. Sior Meneghetto lo assisterà. (a Todero)
TOD. Cossa gh'ìntrelo elo in ti fatti mii? (a Fortunata)
FORT. El gh'intreria, sel volesse. (a Todero, dolcemente)
MARC. Intèndelo, sior missier? (a Todero, dolcemente)
TOD. Coss'è, coss'è stà? Cossa voleu che intenda? Che zente seu? No savè gnanca parlar.
FORT. Parlè vu, sior zerman. (a Meneghetto)
MENEG. Sior Todero, la vede che quella scrittura sì fatta xe revocada dal fatto.
TOD. Ben; e cussì?
MENEG. Se la se degna de accordarme so siora nezza...
TOD. Via; gh'è altro?
MENEG. Son pronto a darghe la man.
TOD. E no disè altro più de cussì?
MENEG. La comandi.
TOD. No m'aveu ditto che la torrè senza dota?
MENEG. Sior sì, senza dota.
TOD. Mo vedeu? No savè parlar. Sior sì, son galantomo: quel che ho promesso, mantegno: ve la darò.
MARC. Bravo, sior missier, son contenta anca mi.
TOD. No ghe xe bisogno che siè contenta, o che no siè contenta; co son contento mi, basta.
MARC. (Mo el xe ben un omazzo!)
TOD. E vu, sior, cossa feu qua? (a Desiderio)
DESID. Stago a veder sta bella scena: vedo tutto, capisso tutto. Che i se comoda, che i se sodisfa; ma mi non anderò via de qua. Ho servio, semo parenti. Faremo lite.
MENEG. Avanti de far lite, che sior Desiderio renda conto della so amministrazion.
DESID. El diavolo che ve porta. Vago via per no precipitar. (parte)

SCENA QUINDICESIMA
TODERO, MARCOLINA, FORTUNATA, MENEGHETTO, poi ZANETTA
TOD. Credeu che el m'abbia robà?
FORT. Anemo, anemo: ve sè liberà, no ghe pensè più. La vegna, la vegna, siora Zanetta. (alla porta)
ZANET. Cossa comàndela?
FORT. (Ala savesto?) (a Zanetta)
ZANET. (Ho sentìo tutto). (a Fortunata, con allegria)
MENEG. Finalmente, siora Zanetta, spero che el cielo seconderà le mie brame e me concederà l'onor de conseguirla per mia consorte.
ZANET. Sior sì... la fortuna... per consolarme... El compatissa, che no so cossa dir.
MARC. Via, deve la man.
TOD. Tasè là, siora: tocca a mi a dirghelo. (a Marcolina)
ZANET. (Oh poveretta mi!)
TOD. Sposeve. (a Zanetta e Meneghetto)
MENEG. Questa xe mia muggier.
ZANET. Questo xe mio mario. (forte con spirito, e presto)
FORT. Brava, brava. La l'ha ditto pulito.

SCENA ULTIMA
PELLEGRINO e detti.
PELL. Coss'è? Cossa xe stà? Ghe xe strepiti, ghe xe sussuri? Me maraveggio; son qua mi; son paron anca mi. (in aria di voler far il bravo)
TOD. Martuffo!
MARC. Saveu che strepiti, saveu che sussuri che ghe xe? Che vostra fia xe novizza.
PELL. Con chi?
MARC. Co sior Meneghetto.
PELL. No ve l'oggio ditto, che sarave andà tutto ben?
MARC. Sior sì, xe andà tutto ben; ma no per vu, no per la vostra direzion. Muè sistema, sior Pellegrin; za che sior missier ha mandà via de casa sior Desiderio, preghelo che el ve fazza operar, che el ve prova, che el se prevala de vu. In quel che no savè, sior Meneghetto ve assisterà. Mi pregherò sior missier de compatirme, de averme un poco de carità, de non esser con mi cussì aspro, de non esser in casa cussì suttilo. Ringraziemo el cielo de tutto, e ringraziemo de cuor chi n'ha sofferto con tanta bontà; pregandoli, che avendo osservà che brutto carattere che xe l'indiscreto, che xe el brontolon, no i voggia esser contra de mi né indiscreti, né brontoloni.

FINE DELLA COMMEDIA

Trascrizione in italiano, con alcuni ammodernamenti espressivi; la bellezza di certi termini veneziani, alcuni già “antichi” al tempo di Goldoni, rimane assoluta e rende difficile qualsiasi traduzione in lingua italiana.

ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Camera di Todero.
TODERO e DESIDERIO
TOD. Chi è questo signore che mi vuole parlare?
DESID. Non saprei. È un giovane, pulito, civile.
TOD. Domandategli cosa vuole.
DESID. Ma non sarebbe meglio, se lo facesse venir?..
TOD. Signor no. Volete sempre far il sapientone. Domandategli cosa vuole.
DESID. Benissimo. (Ci vuole una gran pazienza). (parte)
TOD. Vediamo, può essere qualcuno mandato da mia nuora, o per pregarmi o per farmi qualche bravata.
DESID. Con tutta civiltà, e con un mondo di cerimonie, mi ha domandato perdono se a me non dice cosa vuole, perché è una cosa che non può dire ad altri che a lei.
TOD. È solo?
DESID. È solo.
TOD. Ha la spada?
DESID. È in tabarro. Non ho osservato, se ha anche la spada.
TOD. Orbo, allocco, non sapete mai niente.
DESID. Andrò a vedere, se ha la spada.
TOD. Aspettate, venite qua. È foresto, o è veneziano?
DESID. Al parlare mi pare veneziano.
TOD. Che muso ha?
DESID. Ha muso da galantuomo.
TOD. Ditegli che venga.
DESID. Meno male. (in atto di partire)
TOD. Eh! cosa me vengono a disturbare? Sentite, venite qua.
DESID. Comandi.
TOD. Dov’è vostro figlio?
DESID. Sarà in mezzanino.
TOD. Ricordatevi bene, che domani voglio che ci sbrighiamo; voglio che si sposino, e voglio esser fuori da questo pensiero.
DESID. Bene, quel che comanda.
TOD. Penso, che gli daremo la camera dove dormite voi.
DESID. E io dove vuole che vada?
TOD. Vi farete un letto posticcio nel mezzanino.
DESID. Basta. Vedremo...
TOD. Cos'è questo vedremo?
DESID. Quel signore aspetta.
TOD. Lasciate che aspetti.
DESID. Si stancherà.
TOD. Se si stancherà, andrà via.
DESID. (Ma che uomo! ma che satiro! ma che carattere!)
TOD. Che difficoltà avete a farvi un letto in mezzanino?
DESID. Niente. Bisognerà che provveda al letto.
TOD. Nel vostro letto quanti materassi avete?
DESID. Due.
TOD. Bene, tiratene via uno, fatelo doppio, vi servirà per pagliereccio e per materasso.
DESID. E vuole che gli sposi stiano con un solo materasso?
TOD. Senti che casi! quanti credete che ce ne siano nel mio letto? Uno, e sono quindici anni che non lo pettino.
DESID. Ma, caro signor Todero...
TOD. Signor diavolo che vi porta.
DESID. Caro signor padrone...
TOD. Zitto. Non alzate la voce.
DESID. Almeno per questi primi dì...
TOD. Tacete. Andate a spiare pian piano alla porta, se quel signore è andato via.
DESID. (Infatti sarebbe bene che fosse andato). (va alla porta)
TOD. C’è?
DESID. C’è.
TOD. (Ho capito. Bisogna che abbia una grande urgenza. Se sta tanto, prevedo cosa vorrà; sarà qua per soldi, avrà bisogno di soldi. Sì, sì, se è un buon affare, l'ascolterò; se è una canna bucata (1), lo mando via). Ditegli che venga.
DESID. (Poveraccio! ha avuto una gran pazienza. Di là non ci sono nemmeno sedie per sedersi). (parte)

SCENA SECONDA
TODERO, e poi MENEGHETTO
TOD. Eh! al giorno d’oggi non c’è più da far bene. Non si sa di chi fidarsi. Bisogna andar cauti; contentarsi di guadagnar poco; ma fare i propri affaretti sicuri.
MENEG. (Per verità, il primo ricevimento è qualcosa di particolare. Non si può trattar peggio con un villano. Voglio sopportare tutto. Dal canto mio non voglio che queste signore abbiano motivo di lamentarsi).
TOD. (Sì, è ben vestito; ma può esser che tutto quel che ha a questo mondo, ce l’abbia indosso, e chissà se almeno l’ha pagato).
MENEG. Padrone mio riverito.
TOD. Servitor suo.
MENEG. Mi perdona l'incomodo.
TOD. Ho un mondo di impegni. Ho cento cose da sbrigare. Mi dica in cosa posso servirla.
MENEG. Mi dispiace di disturbarla; ma la supplico di sopportarmi.
TOD. È una faccenda lunga?
MENEG. Può essere breve, e potrebbe essere lunga.
TOD. Se è per soldi, glielo dico subito: non ne ho.
MENEG. No signore; per grazia del cielo non ho bisogno di disturbarla per questo.
TOD. Bene: diga dunque quel che vuole.
MENEG. (Penso che non mi dica nemmeno se voglio sedermi). Mi perdoni: non ha lei una nipote da maritare?
TOD. Signor no.
MENEG. No?
TOD. Signor no.
MENEG. Mi permetta. Signor Pellegrin non ha una figlia?
TOD. Signor sì.
MENEG. Non è da maritare?
TOD. Signor no.
MENEG. Ma perché non è da maritare?
TOD. Perché è maritata.
MENEG. Le domando mille volte perdono. Suo signor padre e sua signora madre non lo sanno che sia maritata.
TOD. Le domando duemila scuse. Se non lo sanno loro, lo so io.
MENEG. Per amor del cielo, mi permetta l'ardire. E la ragazza lo sa?
TOD. Se non lo sa, lo saprà.
MENEG. Dunque non è maritata.
TOD. Dunque io intendo che sia maritata. (con sdegno)
MENEG. La prego, la prego; non si alteri, per carità. Sono un galantuomo, sono un uomo d'onore; non permetterei mai, che per causa mia avesse da soffrire il minimo dispiacere. Intendo adesso quel che vuol dire. Lei l'ha promessa, e gli uomini d'onore, gli uomini che tengono in conto la propria parola, quando hanno promesso una cosa, la considerano come fatta. Bravissimo; ho capito, lodo il suo buon costume, e me ne consolo con lei infinitamente.
TOD. (Be’ sì, be’ sì, ha buona chiacchiera. A vederlo, non credevo tanto).
MENEG. (È un'ora che sto in piedi. Tra poco non ne posso più).
TOD. Orsù, ha altro da comandarmi?
MENEG. Se me lo permettesse, avrei qualche altra cosa da dirle.
TOD. La prego di spicciarsi.
MENEG. Mi dispiace di vederla star scomodo.
TOD. Dispiace anche a me.
MENEG. Si sieda.
TOD. Non ho tempo da perdere.
MENEG. (Pazienza. Sopporterò). Mi farebbe l’onore di dirmi, chi sia la persona alla quale ha promesso e, secondo lei, ha maritato questa sua nipote?
TOD. Cosa importa a lei di saperlo? Cosa c’entra lei nei fatti miei?
MENEG. Per amor del cielo, non si scaldi, mi tolleri con bontà. Non sono qua né per turbare la sua pace, né per arrogarmi quell’autorità che non ho. Son qua per bene, e resterà persuaso della mia onestà, e della mia buona intenzione. Vuole favorirmi di dir chi sia questo sposo?
TOD. Signor no.
MENEG. Mi permetterà dunque, che le dica che io lo so.
TOD. Lei lo sa? (con meraviglia)
MENEG. Per obbedirla.
TOD. Mi dica allora chi è.
MENEG. Sì, signor, subito. Il figlio del suo fattore.
TOD. Da chi l’avete saputo, signore? (con sdegno)
MENEG. Non è necessario che le dica di più.
TOD. Voglia che mi diciate, chi ve l’ha detto.
MENEG. Glielo dirò, ma prima favorisca lei di dire, per quale causa queste nozze che stanno per farsi, e che secondo lei sono già fatte, lei le ha tenute nascoste per il passato, e seguita a volerle nascondere presentemente?
TOD. Vi torno a dire, che non ho da render conto né a voi, né a chicchessia, di quel che faccio, e di quel che voglio, e di quel che penso.
MENEG. Mi permette di dirle, che non solo io so quel che lei fa, ma anche quel che lei pensa?
TOD. Come? Siete un qualche stregone?
MENEG. No, signore, non sono uno stregone; ma sono un giovane che, per grazia del cielo, ha tanto lume che gli basta per conoscere gli uomini, e arguire dai fatti i pensieri e i sentimenti interni che li hanno prodotti. Accetti, signor Todero, accetti con bontà che le dica, che un uomo della sua sorte, in concetto di uomo ricco, di uomo d’onore, ha ragione a vergognarsi di far sapere al mondo una debolezza di questa natura, che non merita di essere approvata da chicchessia.
TOD. Cos'è, signore? Chi vi manda? Chi v’ha istruito? Da parte di chi venite a parlarmi?
MENEG. Nessuno mi manda. Vengo di mia volontà. Parlo per lei, e se devo confessarle la verità, parlo anche per me.
TOD. Oh! adesso intendo. Siete quello che ha domandato mia nipote a sua madre, e che sua madre vi aveva accordato senza parlarne con me?
MENEG. Mi perdoni. Una mia cugina ha parlato. Qualcosa è stato discorso; ma le assicuro in via d’onore, in fede, che senza il suo assenso non si avrebbe concluso mai. So il mio dovere, so quale rispetto si conviene a un padre di famiglia, a un capo di casa, a un uomo rispettabile della sua qualità.
TOD. (Non si può negare, che non abbia delle massime da uomo civile).
MENEG. Non so se conosce la mia famiglia.
TOD. Chi siete?
MENEG. Meneghetto Ramponzoli per obbedirle.
TOD. I Ramponzoli li conosco.
MENEG. Mi lusingo che nessuno possa intaccar in niente né il mio costume, né la mia civiltà.
TOD. Io non dico che così non sia.
MENEG. E non potrebbe lusingarmi, di concedermi sua nipote?
TOD. Mia nipote è maritata.
MENEG. Non è maritata. (flemmaticamente)
TOD. Signor sì, che è maritata. (con caricatura)
MENEG. Le domando perdono: non è maritata. (come sopra )
TOD. Sono in parola di maritarla, ho promesso di maritarla, e posso dire: è maritata. (con isdegno)
MENEG. Col figlio del suo fattore?
TOD. Con chi pare e piace a me.
MENEG. Già che da me ha sopportato tanto, la supplico di sopportare anche questo. Si dice che la vuole maritare al figlio del suo fattore, per nient’altro che per il risparmio miserabile della dote.
TOD. Chi dice questo sproposito? Chi dice questa falsità? Non è vero niente. Le do seimila ducati. E se non credete, guardate, e ditelo a chi non ci crede; e dite a queste lingue indegne che mi credono un avaro, che son galantuomo, e che do a mia nipote seimila ducati, seimila ducati, seimila ducati. (colla carta alla mano)
MENEG. Come! dà sua nipote al figlio del suo fattore con seimila ducati di dote, e non si degna di darla a me?...
TOD. È maritata. (con forza)
MENEG. Non si degna di darla a me, che la prenderei senza dote? (caricando la voce)
TOD. Senza dote? (con meraviglia)
MENEG. Sull’onor mio, senza dote. (caricando, come sopra)
TOD. E un uomo della vostra sorte si mariterebbe senza dote?
MENEG. Anzi; siccome per grazia del cielo non sono in stato d’aver bisogno, io non vado in cerca di dote.
TOD. Caro signore, se vuole sedere?
MENEG. Grazie della sua bontà; (prende una sedia, e siede) e lei non si siede?
TOD. Non sono stanco. (resta pensoso)
MENEG. (Può essere che l’avarizia lo persuada). E così, che risposta mi dà?
TOD. Caro signore... L’ho promessa… Il contratto è sottoscritto... Lasciatemi tornare a leggere questa carta. (finge di legger piano)
MENEG. (Voglia il cielo, che vada a buon fine).
TOD. (Senza dote! Farebbe al caso mio. Ma in sostanza, che dote darò a Desiderio e a suo figlio? Neanche un soldo. È vero che maritando mia nipote con questo signore, in faccia al mondo farei più bella figura... Ma chi farà i miei interessi? Se disgusto Desiderio e suo figlio, chi mi servirà? Bisognerà che paghi un fattore, che paghi un giovane...) (da sé, cogli occhi sulla carta, fingendo sempre di leggere)
MENEG. Ha letto? Ha visto? Posso sperare? (alzandosi)
TOD. Ho letto, ho visto, ho pensato. Le torno a dire che mia nipote è maritata.
MENEG. Come? (mortificato)
TOD. Come! Come! È così.
MENEG. Ma mi favorisca...
TOD. Mi perdoni. Ho troppo da fare. Non posso trattenermi di più.
MENEG. Ma mi dica almeno...
TOD. C’è nessun di là? Oè, Desiderio, dove siete?

SCENA TERZA
DESIDERIO e detti.
DESID. Comandi.
TOD. Accompagnate questo signore. (a Desiderio) Scusa. Ho da fare. A buon riverirla. (parte)
MENEG. (Che maniera impropria, incivile!)
DESID. (Meno male, che ho tutto sentito).
MENEG. (Non c’è rimedio. Andrò dalla signora Marcolina andrò a licenziarmi). (va per sortire dalla porta per dove è entrato)
DESID. Per di qua, veda, per di qua si va fuori più presto. (mostrandogli l'altra porta)
MENEG. Avanti d’andar via, vorrei riverire la signora Marcolina.
DESID. Non c’è, veda.
MENEG. Non c’è?
DESID. È andata fuori casa.
MENEG. È andata fuori casa? Bravo. Ho capito. (Costui sa qualcosa. Eh, non mi degno di parlare con lui. Andrò via, e tornerò). (parte per dove Desiderio ha accennato)
DESID. Padron riverito. Va via senza salutarmi. Poveraccio! Si conosce il suo dispiacere. Infatti... Se ci penso anch’io... Cosa dirà la signora Marcolina? La sbufferà un poco. E poi? E poi bisognerà che abbassi le ali, e che si accontenti anche lei. (parte)

SCENA QUARTA
Altra camera.
CECILIA e NICOLETTO
CEC. Venite qua dunque, signore, cosa diavolo mi dite?
NICOL. Zitta, che non sentano.
CEC. Eh! non c’è nessuno. Dite, dite; cosa vi sognate?
NICOL. Io non mi sogno niente. Vi dico così, che il signore Todero mi vuole dare sua nipote.
CEC. A chi?
NICOL. A me.
CEC. Con quel muso?
NICOL. Con questo muso.
CEC. Eh! via, andatela a raccontar ai morti.
NICOL. Sangue di diana, non fatemi dire! Cosa sono? Uno sciocco (2)? Non devo sapere quello che dicono? Domani mi devo maritare, e non devo sapere chi sarà mia moglie?
CEC. Domani dovete maritarvi?
NICOL. Signora sì, domani.
CEC. Chi ve l'ha detto?
NICOL. Mio signor padre me l'ha detto. E mi ha anche detto, che ancora non dica niente a nessuno.
CEC. (Per diana! comincio ad aver paura che dica la verità. Se fossi io, mi avrebbero detto qualcosa).
NICOL. E non dormirò più con il signor padre, e avrò la camera tutta per me, e lui andrà a dormire nel mezzanino, e io avrò la sposa, e mi vestiranno pulito, e andrò fuori casa quando vorrò. (gloriandosi di tutto questo)
CEC. (È una cosa che mi fa trasecolare). Come diavolo può essere, che il padrone vi voglia dare a voi una sua nipote?
NICOL. Ma guarda, guarda. Cosa sono io?
CEC. Vi pare che voi abbiate da mettervi con quella ragazza?
NICOL. Se mi ci mettono loro, bisogna che mi ci possano mettere.
CEC. Serva vostra signor sposo, dunque. (con ironia)
NICOL. Ah? Cosa dite? (allegro)
CEC. E a me non ci pensate più per niente? (mortificata)
NICOL. Non ci penso? Signora sì che ci penso.
CEC. Se sposate la padrona, per me non c’è più speranza.
NICOL. Perché non c’è più speranza? Quando morirà, sposerò voi.
CEC. Eh! povero mammalucco. Io mammalucca, che non dovevo credere alle parole di un giovinastro (3).
NICOL. Oè, non strapazzatemi, sapete, che lo dirò al signor padre.
CEC. Cosa m’importa? Ditelo a chi volete. Signor sì, siete un giovinastro, un bugiardo, una carogna.
NICOL. Volete scommettere che in breve... (con isdegno)
CEC. Cos’è questo in breve? (alzando la voce)
NICOL. Son padron anch’io. (si riscaldano tutti due)
CEC. Io non vi conosco per niente.
NICOL. E vi farò mandar via.
CEC. Voi mi farete andar via?

SCENA QUINTA
MARCOLINA, FORTUNATA e detti.
MARC. Oè, oè. Cos’è questo strepito?
FORT. Signora Marcolina, è questo quel bello sposo?
MARC. Signora sì. Cosa ne pensa?
FORT. Che caro! Ma che bella gioia! Ma che fortuna che toccherebbe a quella ragazza! (ironico)
CEC. (Mi pare impossibile, che la padrona gliela voglia dare).
NICOL. Dicano, lo sanno anche loro che sono promesso? Signora Zanetta lo sa?
MARC. Pezzo di temerario, avresti tanto ardire da pretendere di sposare mia figlia? Non ti vergogni, sporco, ignorante, pezzente, di metterti con una mia figlia? Cosa credi, perché hai dalla tua quel vecchio sordido di mio suocero, che avrò paura di farti dare un sacco di bastonate? Se avrai solo l’ardire di guardarla mia figlia, nonché di nominarla, non sarai mai più uomo per il resto della tua vita.
NICOL. (Aceto!) (4)
CEC. (Oh che gusto che c’ho!)
FORT. Vedete, signor promesso? Questa sarà la dote che avrete.
NICOL. Ma perché ora? Cosa le ho fatto?
MARC. Cosa mi hai fatto?
FORT. No, signora Marcolina, mi compatisca, non ha motivo di andar in collera con questo giovane. Lui non ne ha colpa. Nevvero, figlio mio? Voi non ne avete colpa. (fingendo dolcezza)
NICOL. Io non ne ho colpa.
FORT. Cosa importa a lui di sposar sua figlia? Dite la verità, a voi v’importa niente? (a Nicoletto)
NICOL. A me no, niente.
FORT. Figurarsi, se a questa età gl’importa di maritarsi! Non ci pensate nemmeno a maritarvi, vero? (a Nicoletto)
NICOL. (Non risponde e guarda in terra)
FORT. Cos'è, non rispondete? Avreste voglia di sposarvi?
NICOL. Io sì, che mi sposerei.
FORT. Oh caro! e pretenderesti la signora Zanetta?
NICOL. Io non pretendo niente, non pretendo.
MARC. Via, via, signora Fortunata, ho capito: da una parte lo compatisco. Poveraccio, vorrebbe sposarsi, ma non gli importa mica di avere mia figlia. Scommetto, che avrebbe più piacere di avere Cecilia. (finge anch'ella dolcezza)
FORT. Cosa dite? La sposeresti Cecilia? (a Nicoletto)
NICOL. Io sì che la sposerei.
CEC. Bisognerebbe vedere, se lo voglio io.
MARC. Ma guarda, cara lei! che casi! Stamattina cosa m’ha detto?
CEC. Ma non vede che non gli importa niente di me? Che lascia me per un’altra?
MARC. Per un’altra? Cos’è questo per un’altra? Vi mettereste al pari con una mia figlia?
FORT. Creature, queste sono tutte chiacchiere che non servono a niente. Si vede che questi due si vogliono bene; ma il ragazzo l’hanno tirato giù, e Cecilia l’ha presa un pochetto male. Signora Marcolina, se è d’accordo, io voglio che la aggiustiamo. Quand’è fatta, è fatta. Questo povero ragazzo mi fa pena. Cecilia ha del merito, e bisogna procurare di farle questo bene. Maritiamoli, e quando saranno maritati, sarà finita. Cosa dite, signor Nicoletto?
NICOL. Certo! perché mi diate delle bastonate?
MARC. Ma no, caro figlio, non ci sarà questo pericolo. Dicevo così, se pretendevate Zanetta, non mica per non darla a voi, che siete un ragazzo di garbo; ma perché l’ho promessa a un altro, e perché sono disgustata con mio suocero. Per il resto vi voglio bene, vi assisterò, vi difenderò, non vi lascerò mancare il vostro bisogno. Se il signor Todero vi manderà via, vi farò trovare un impiego.
FORT. Sì, signor Meneghetto glielo troverà.
MARC. Via, Nicoletto, cosa rispondete?
NICOL. Cosa vuole che dica? Farò tutto quel che vuole lei.
MARC. E voi, Cecilia, cosa dite?
CEC. Cara lei, se s’impegna affinché non ci manchi il pane...
MARC. Credo che mi conosciate, credo che di me vi possiate fidare.
FORT. Sentite, figli: quel che si deve fare, bisogna farlo presto, perché se lo vengono a sapere...
NICOL. Se mio padre lo sa, poveretto me.
FORT. Ehi, volete che chiamiamo due testimoni, e che ci sbrighiamo qua su due piedi?
CEC. Vuole che chiami Gregorio? (a Marcolina)
FORT. Uno solo non basta.
CEC. Andrò al balcone, e farò venir su uno di quei giovani dal caffè.
MARC. Sì, via, spicciatevi.
CEC. Vado subito. (Eh! come che nascono i casi, quando meno uno se li aspetta). (parte)
FORT. Ha una voglia, che è tutta un fuoco. (a Marcolina)
NICOL. Lo saprà mio padre?
MARC. Lasciate fare a me.
FORT. Vi difenderemo noi. Di cosa avete paura?

SCENA SESTA
CECILIA, GREGORIO, un FACCHINO e detti.
CEC. Oh! sono qua: c’era giusto il facchino che ha portato la legna, e ci serviremo di lui.
MARC. Venite qua ora, Gregorio; venite qua, giovane. Siete testimoni di questo matrimonio tra queste due creature. Via, datevi la mano.
NICOL. Oè, Gregorio, non dite niente a mio padre.
GREG. Non lo sapete? Io non parlo.
FORT. Via, sbrigatevi.
NICOL. Mi tremano le gambe.
CEC. Animo, date qua. (prende la mano a Nicoletto) Questo è mio marito.
FORT. Via, ditelo anche voi. (a Nicoletto)
NICOL. Cosa devo dire? (a Fortunata)
FORT. Questa è mia moglie. (a Nicoletto)
NICOL. Questa è mia moglie.
FORT. È fatta.
CEC. Vi ringrazio, sapete, signor Pasquale. (al Facchino)
PASQ. Padrona, mangeremo i confetti.
GREG. Sì, sì, andiamo, venite con me, che faremo merenda. (parte con Pasquale)
FORT. Sposi, me ne consolo.
CEC. Grazie.
NICOL. Sono promesso adesso?
FORT. Signor sì.
MARC. Vien gente. Andate di là; per adesso non fatevi vedere.
CEC. Andiamo. (a Nicoletto)
NICOL. Dove?
CEC. Di là, con me.
NICOL. A far cosa?
CEC. Via, mammalucco, andiamo. (lo prende per mano, e parte)

SCENA SETTIMA
MARCOLINA, FORTUNATA, poi MENEGHETTO
FORT. Non poteva andar meglio di così!
MARC. Sarà valido questo matrimonio?
FORT. Oè; gli sposi sono in camera; che lo disfino, se possono.
MARC. Per le formalità non c’è niente da dire.
FORT. La signora Zanetta, quando lo saprà, farà i salti di gioia.
MARC. Mio marito c’ha da restar secco.
FORT. E il vecchio?
MARC. E signor Desiderio?
FORT. Oh! che ridere!
MENEG. Eh! signor Desiderio non riderà.
FORT. Oè, signor Meneghetto. (accennando ch'egli viene)
MARC. Oh! bravo.
MENEG. Perdonino. Ho trovato la porta aperta. Mi son preso la libertà di entrare. (mortificato)
FORT. Cosa c’è, signor Meneghetto?
MARC. Signor Meneghetto, cosa è stato?
MENEG. Ho parlato, ho fatto quel che ho potuto, e non c’è rimedio. (con afflizione)
MARC. No? (ridendo)
FORT. No davvero? (ridendo)
MENEG. Ridete? (con ammirazione)
FORT. Invece sì, che c’è rimedio.
MENEG. E come?
FORT. Oè, facciamola breve...
MARC. Togliamogli la pena (a Fortunata)
FORT. Nicoletto l’ha fatta... (tutte due parlano sì presto che Meneghetto, ch'è in mezzo di loro, rimane quasi stordito)
MARC. Si è maritato...
FORT. Ha sposato Cecilia...
MARC. E suo padre non sa niente...
FORT. Non abbiamo più paura di lui...
MARC. Mia figlia è libera...
FORT. E sarà vostra...
MARC. Se si accontenta di aspettar la dote...
FORT. Signora sì, l’ha promesso, e l’aspetterà.
MARC. Ma sbrighiamoci...
FORT. Cosa dite? (a Meneghetto)
MENEG. Oimè! per carità. Mi lasci riprender fiato. Tutte queste cose nate in così poco tempo?
MARC. Signor sì, è così. Ha paura che lo vogliamo burlare?
MENEG. (Son fuori di me. Non so in che mondo sono).
MARC. Pare incantato. (a Fortunata)
FORT. L’amor, figlia mia, l’amor, la consolazione.
MARC. Anch’io mi sento sbalzare il cuore.
FORT. E io? In questa cosa non c’entro più di tanto; ma c’ho una soddisfazione, come se fosse per me.
MARC. Oè, guardate: Desiderio. (a Fortunata, accennando ch'egli viene)
FORT. Ritiratevi, ritiratevi, cugino. (a Meneghetto)
MENEG. Mi pare un sogno. Ho paura di scombussolarmi. (si ritira)

SCENA OTTAVA
MARCOLINA, FORTUNATA e DESIDERIO
DESID. (Son confuso. Vorrei dirlo alla signora Marcolina, e non so come fare).
MARC. (Ancora, quando lo vedo, mi si rimescola il sangue). (a Fortunata)
DESID. (Figurarsi! sarà inviperita. Ma se mio figlio ha da sposare sua figlia, bisogna ben che le parli). Padrona, signora Marcolina.
MARC. Padrone. (con indifferenza)
FORT. Signor Desiderio, padrone. (cortesemente)
DESID. Padrona. Non so se sappia l’onore che il signor Todero ha voluto farmi. (a Marcolina)
MARC. Oh! signor sì, lo so. (dolcemente)
FORT. Mi congratulo, signor Desiderio.
DESID. Grazie. Io certo non avrei mai avuto questo ardire...
MARC. Oh, cosa dice! Mi meraviglio. (con ironia)
FORT. Le cose, quando sono destinate... (urtandosi con Marcolina)
DESID. (Ma guarda, ma guarda, io non avrei creduto che si calmasse così facilmente).
MARC. (Oè: il vecchio). (a Fortunata)
FORT. (Adesso viene il bello). (a Marcolina)
MARC. (Son tre dì che non lo vedo). (a Fortunata)
FORT. (Tacciamo, non diciamogli niente). (a Marcolina)

SCENA NONA
TODERO e detti.
TOD. Cosa fate qua? Perché non siete nel mezzanino? (a Desiderio)
DESID. Caro signore, son venuto a far la mia parte con la signora Marcolina.
FORT. Signor Todero, padrone.
TOD. Padrona. (a Fortunata, rusticamente)
MARC. Padrone, signor suocero. (dolcemente)
TOD. Padrona. (con ammirazione) Andate a fare quello che avete da fare. (a Desiderio)
DESID. Lasci almeno che faccia il mio dovere con la signora Marcolina; mi lasci ringraziarla.
TOD. Di cosa?
DESID. Della bontà che ha, di accordare anche lei che sua figlia sia moglie di mio figlio.
TOD. E voi, signora, cosa dite? (a Marcolina)
MARC. Io non dico niente.
TOD. Ah? (a Marcolina)
MARC. Io non dico niente.
DESID. Lo sente? Gliela dà volentieri. (a Todero)
TOD. (Meno male. Non credevo che la prendesse con questa flemma).
FORT. (Spero proprio di farcela. Mi viene da scoppiar dal ridere, che quasi non ne posso più).
DESID. Se acconsente, è meglio che chiami mio figlio, e che si concluda. M’hanno detto che era qua. Sa niente dove sia? (a Marcolina)
MARC. Io non so niente.
FORT. Eh! so io dov’è: è di là con la sua sposa. (ridendo)
DESID. Con la sua sposa? (ridendo)
FORT. Signor sì, con la sua sposa.
DESID. Vede, signor Todero? (con allegria)
TOD. Signor corno. (con ironia)
DESID. Vede, signor padrone? È con la sua sposa. (ridendo)
TOD. Che vengano qua.
DESID. Subito, li vado a chiamare. (parte)

SCENA DECIMA
MARCOLINA, TODERO e FORTUNATA
FORT. (Oè, ci siamo). (a Marcolina)
MARC. (Non vedo l’ora di sentirli sbruffare).
TOD. Dov’è Pellegrin? (a Marcolina)
MARC. Non lo so proprio.
TOD. Che allocco! che pampalugo! Non si vede mai.
MARC. Poveraccio! Ha un padre che lo fa tremare.
TOD. Animo. Cominciamo? (con collera)
FORT. Zitto, zitto, che viene lo sposo.

SCENA UNDICESIMA
DESIDERIO tirando per un orecchia NICOLETTO, e detti.
NICOL. Ahi, ahi! ahi! (dolendosi dell'orecchia)
FORT. Oh bella! (ridendo)
NICOL. Ahi! ahi! (come sopra)
TOD. Cosa fate? Siete matto? Siete spiritato? (a Desiderio, con isdegno)
DESlD. Pezzo di furbastro! Pezzo di disgraziato! (a Nicoletto)
TOD. Cos’ha fatto? (a Desiderio, come sopra)
DESID. Cosa mi ha fatto? Mi ha tradito, mi ha assassinato, si è maritato.
TOD. Signor bestia, signor strambo, non siete stato voi che l’avete maritato?
DESID. Signor diavolo, signor satanasso, ha sposato la serva. (a Todero, forte)
TOD. Ha sposato la serva? (a Fortunata, con maraviglia)
FORT. Oh, io non me ne impiccio.

SCENA DODICESIMA
CECILIA e detti, poi GREGORIO
CEC. Signor sì, cosa vorrebbe dire? Ha sposato me. Non ha sposato una serva, ha sposato una cameriera civile, una ragazza dabbene e onorata.
TOD. Padre e figlio, fuori subito da casa mia (a Desiderio)
CEC. Ah! signor padrone, ci raccomandiamo alla sua carità.
TOD. Non c’è carità che tenga. Bricconi, canaglia. Fuori subito da casa mia. (strillando)
DESID. Cos’è questo scacciarci? Cos’è questo strapazzarci? Son qua; voglio star qua, e non voglio andar via. (con forza)
FORT. Olà, olà, padroni. (alzando la voce)
MARC. Oè, Gregorio, andate presto a chiamar mio marito. (con affanno, e forte. Gregorio si fa vedere, e corre via)

SCENA TREDICESIMA
MENEGHETTO e detti.
MENEG. Mi scusino, mi perdonino, cos’è questo strepito? Per amor del cielo, non fate sussurrar la contrada.
TOD. Che c’è, signore? Cosa ci fate qua? Che c’entrate voi? (a Meneghetto)
MENEG. Sono passato per caso. Ho sentito strepito, ha sentito gridare. La gente ha fatto capannello davanti alla sua porta. Il capo della contrada voleva venire. Tutti volevano entrare. Ho creduto ben d’impedire, e son venuto io a offrirle umilmente e di buon cuor il mio aiuto e la mia mediazione.
TOD. Andate via di qua. Padre e figlio, fuori subito da casa mia. (a Desiderio)
DESID. Le torno a ripetere, per il mio sangue, che non voglio andare.
MENEG. Zitto, signor Desiderio. Non fate strepito, non vi fate scorgere. Vi consiglio di andar via con le buone: se no io, vedete? Io, per la stima e per il rispetto che ho per il signor Todero, troverò io la maniera di farvi andare.
DESID. Dove devo andare? Cosa devo fare con questo asino maritato?
MENEG. A Nicoletto ci penserò io, provvederò io.
FORT. E Cecilia, se il signor Todero non la vuole in casa, verrà a stare con me.
CEC. Oh siate benedetti! Andiamo, andiamo, mio caro marito. (lo prende per mano)
NICOL. Andiamo, andiamo. Oh che gusto! oh che bella cosa! Son maritato. (parte con Cecilia)

SCENA QUATTORDICESIMA
TODERO, MARCOLINA, FORTUNATA, MENEGHETTO e DESIDERIO
DESID. E io? Cosa sarà di me?
TOD. E voi tornerete a Bergamo ad arare i campi.
DESID. Oh! signor patron, lei sa con quanta attenzione, con quanta fedeltà l’ho servita. La servirò ancora per niente, senza salario, per niente.
TOD. Mi servirete per niente? (con più dolcezza)
DESID. Signor sì, glielo prometto.
FORT. Signor sì, signor sì, vi servirà per niente. Ma di aria non si vive. Vi servirà per niente, e si pagherà da sé. (a Todero, forte)
DESID. Cosa c’entra lei? Mi vuole vedere rovinato?
TOD. Tacete là. (a Desiderio) Son poveruomo; io non posso pagare un fattore. (a Fortunata)
MARC. Caro signor suocero, non avete vostro figlio?
TOD. Non è capace di niente. (a Marcolina)
FORT. Signor Meneghetto lo assisterà. (a Todero)
TOD. Cosa c’entra lui con i fatti miei? (a Fortunata)
FORT. Ci potrebbe entrare, se volesse. (a Todero, dolcemente)
MARC. Intende, signor suocero? (a Todero, dolcemente)
TOD. Cos’è, cos’è stato? Cosa volete che intenda? Che gente siete? Non sapete neanche parlare.
FORT. Parlate voi, signor cugino. (a Meneghetto)
MENEG. Signor Todero, vede anche lei che quella scrittura sì fatta è revocata dai fatti.
TOD. Bene; e così?
MENEG. Se si degna di accordarmi sua nipote...
TOD. Via; c’è altro?
MENEG. Son pronto a darle la mano.
TOD. E non dite altro più di così?
MENEG. Comandi.
TOD. No m’avete detto che la prendereste senza dote?
MENEG. Signor sì, senza dote.
TOD. Vedete? Non sapete parlare. Signor sì, son galantuomo: quel che ho promesso, mantengo: ve la darò.
MARC. Bravo, signor suocero, son contenta anch’io.
TOD. Non c’è bisogno che siate contenta, o che non siate contenta; quando son contento io, basta.
MARC. (Ma che razza di uomo!)
TOD. E voi, signore, cosa fate qua? (a Desiderio)
DESID. Sto a vedere questa bella scena: vedo tutto, capisco tutto. Accomodatevi, soddisfatevi; ma io non andrò via di qua. Ho servito, siamo parenti. Faremo lite.
MENEG. Avanti di far lite, che il signor Desiderio renda conto della sua amministrazione.
DESID. Il diavolo vi porti. Vado via per non far peggio. (parte)

SCENA QUINDICESIMA
TODERO, MARCOLINA, FORTUNATA, MENEGHETTO, poi ZANETTA
TOD. Credete che mi abbia rubato?
FORT. Animo, animo: ve ne siete liberato, non pensateci più. Venga, venga, signora Zanetta. (alla porta)
ZANET. Cosa comanda?
FORT. (Ha saputo?) (a Zanetta)
ZANET. (Ho sentito tutto). (a Fortunata, con allegria)
MENEG. Finalmente, signora Zanetta, spero che il cielo asseconderà le mie brame e mi concederà l’onore de conseguirla per mia consorte.
ZANET. Signor sì... la fortuna... per consolarmi... Mi compatisca, se non so cosa dire.
MARC. Via, datevi la mano.
TOD. Tacete, signora: tocca a me dirlo. (a Marcolina)
ZANET. (Oh poveretta me!)
TOD. Sposatevi. (a Zanetta e Meneghetto)
MENEG. Questa è mia moglie.
ZANET. Questo è mio marito. (forte con spirito, e presto)
FORT. Brava, brava. L’ha detto bene.

SCENA ULTIMA
PELLEGRINO e detti.
PELL. Cos’è? Cos’è stato? Ci sono strepiti, ci sono sussurri? Mi meraviglio; son qua io; son padrone anch’io. (in aria di voler far il bravo)
TOD. Sciocco!
MARC. Sapete che strepiti, sapete che sussurri ci sono? Che vostra figlia è sposa.
PELL. Con chi?
MARC. Col signor Meneghetto.
PELL. Non ve l’ho detto, che sarebbe andato tutto bene?
MARC. Signor sì, è andato tutto bene; ma non per merito vostro, non per la vostra direzione. Mutate sistema, signor Pellegrin; già che il signor suocero ha mandato via da casa il signor Desiderio, pregatelo che vi faccia operare, che vi metta alla prova, che si valga di voi. In quello che non sapete, il signor Meneghetto vi assisterà. Io pregherò il signor suocero di compatirmi, di mostrarmi un poco di carità, di non essere con me così aspro, di non essere in casa così pignolo. Ringraziamo il cielo di tutto, e ringraziamo di cuore chi ci ha sopportato con tanta bontà; pregandoli, che avendo osservato che brutto carattere è quello dell’indiscreto, quello del brontolone, non vogliano essere verso me né indiscreti, né brontoloni.

FINE DELLA COMMEDIA
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(1) Cioè un cattivo soggetto
(2) L’originale veneto “pampalugo” ha la stessa origine di “fanfaluca”
(3) Nell’originale di Goldoni “frasca”, nel senso di “persona che cambia in fretta opinione, o intendimento”, appunto come una frasca, o una foglia al vento; l’espressione è presente nella lingua italiana, ma oggi è poco usata
(4) Come ha annotato lo stesso Goldoni, è “un modo basso, con cui spiegasi la maraviglia e la paura


IL TERZO ATTO PER IMMAGINI:

Dalla versione televisiva di “Sior Todero Brontolon” prodotta dalla Rai nel 1969, ho scelto un fotogramma per ciascuna delle scene del terzo atto.

Scena prima: Desiderio (Mario Bardella) informa Todero (Cesco Baseggio) che un signore ha chiesto di lui

Scena seconda: Todero riceve dopo lunga attesa Meneghetto (Dario Mazzoli)

Scena terza: Todero licenzia Meneghetto e non cede alla sua richiesta di sposare la nipote anche senza dote

Scena quarta: Nicoletto (Willi Moser) informa Cecilia (Maria Grazia Spina) che Todero vuole fargli sposare la nipote Zanetta

Scena quinta: la signora Marcolina (Elsa Vazzoler) picchia Nicoletto che vorrebbe sposare Zanetta

Scena sesta: le signore Marcolina e Fortunata (Lina Volonghi) combinano il matrimonio tra Cecilia e Nicoletto alla presenza di Gregorio (Gino Cavalieri) e Pasqual (Mario Stegher) come testimoni

Scena settima: le due signore informano Meneghetto del matrimonio tra Cecilia e Nicoletto

Scena ottava: Desiderio vuole ringraziare la signora Marcolina per aver accettato che Zanetta sposi Nicoletto

Scena nona: interviene Todero

Scena decima: le due signore aspettano che la verità venga a galla

Scena undicesima: Desiderio maltratta il figlio che ha sposato Cecilia

Scena dodicesima: Todero caccia di casa tutti i suoi servitori ed essi chiedono grazia

Scena tredicesima: interviene Meneghetto e Todero gli chiede di cacciare di casa Desiderio

Scena quattordicesima: le signore assistono alla conclusione della commedia

Scena ultima: Todero sposa la nipote (Gianna Raffaelli) con Meneghetto