giovedì 13 aprile 2017

66 Ser Ciappelletto (di Giovanni Boccaccio)



La novella di ser Ciappelletto è la prima della prima giornata e dunque la prima di tutto il Decameron. Vi si racconta la storia di un uomo malvagio, ser Cepparello da Prato, che in punto di morte riesce a confessarsi con un santo frate, un po’ ingenuo, finendo con l’apparirgli come un santo, degno, dopo la sua morte, di culto religioso. Secondo il noto manuale di letteratura di Mario Pazzaglia è «assurdo ricercare nella novella un proposito antireligioso»; forse è vero che non c’è un proposito antireligioso, però mi sembra marcato un certo sentimento anticlericale. Né il frate, né i fedeli che santificano ser Ciappelletto fanno una bella figura in questa novella.

[1]
Ser Cepparello con una falsa confessione inganna uno santo frate e muorsi; e, essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.

Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso, sentendo egli li fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone e a tutti trovò modo: fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. E la cagione del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepparello da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava; il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo il loro volgare a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.
Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella coscienza che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitore di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.
Venuto adunque questo ser Cepperello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui: e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te. E perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia».
Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo.
E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò. Al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che ’l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui ch’aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.
E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare. «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Non abbiamo de’ fatti suoi pessimo partito alle mani: per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo, che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante n’avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ’l voglia né possa assolvere: per che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto ‘l giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore e griderà: ‘Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si voglion più sostenere’; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male se costui muore».
Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo aver gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi di niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e i miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti».
I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e speziale divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse.
Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch’io infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la infermità m’ha data».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di dimandare».
Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì ch’i’ nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch’io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione dell’anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente: e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse.
Al qual ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria».
Al quale il santo frate disse: «Dí sicuramente, ché il vero dicendo né in confessione né in altro atto si peccò giammai».
Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io usci’ del corpo della mamma mia».
«Oh, benedetto sie tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’albitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola son costretti».
E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto. Al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per ciò che, con ciò fosse cosa che egli, oltre alli digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa, e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli.
Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri, e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la coscienza tua che bisogni. Ad ogni uomo avviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere».
«Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo; e chiunque altramenti fa, pecca».
Il frate contentissimo disse: «E io son contento che così ti cappia nell’animo e piacemi forte la tua pura e buona conscienza in ciò. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato disiderando più che il convenevole o tenendo quello che tu tener non dovesti?»
Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi guardasti perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla, anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Idio non m’avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentar la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie piccole mercatantie, e in quelle ho disiderato di guadagnare. E sempre co’ poveri di Dio, quello che guadagnato ho, ho partito per mezzo, la mia metà convertendo ne’ miei bisogni, l’altra metà dando loro: e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato, che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei».
«Bene hai fatto:» disse il frate «ma come ti se' tu spesso adirato?»
«Oh!» disse ser Ciappelletto «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto; e chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudicii? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andar dietro alle vanità e udendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitar le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre; ma per alcun caso, avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcun’altra ingiuria?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, o voi mi parete uomo di Dio: come dite voi coteste parole? o s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l'una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Idio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: ‘Va, che Idio ti converta’».
Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro alcuno o detto male d'altrui o tolte dell’altrui cose senza piacere di colui di cui sono?»
«Mai messer sì,» rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che batter la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica».
Disse allora il frate: «Or bene, tu mi di' che se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?»
«Gnaffé,» disse ser Ciappelletto «messer sì, ma io non so chi egli si fu: se non che, uno avendomi recati danari che egli mi doveva dare di panno che io gli avea venduto e io messigli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai ch’egli erano quattro piccioli più che esser non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa, e facesti bene a farne quello che ne facesti».
E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo; e volendo egli già procedere all’absoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto».
Il frate il domandò quale; e egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona, spazzare la casa e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea».
«Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa».
«Non,» disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore».
Disse allora il frate: «O, altro hai tu fatto?»
«Messer sì,» rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti; e ultimamente cominciò a sospirare e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?»
Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta ch’io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi essere molto certo che Idio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Va via, figliuol, che è ciò che tu di’? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio, che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente».
Disse allora ser Ciappelletto sempre piagnendo forte: «Ohimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato».
A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Idio per te».
Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire; ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, e egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Idio per me, e io il vi dirò: sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia». E così detto ricominciò a piagner forte.
Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così gran peccato? o gli uomini bestemmiano tutto il giorno Idio, e sì perdona Egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch’io ti veggio, sì ti perdonerebbe Egli».
Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, padre mio, che dite voi? la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Idio per me, egli non mi serà perdonato».
Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’absoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto: e chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così?
E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Idio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, piacevi egli che ’l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?»
Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì, anzi non vorrei io essere altrove, poscia che voi m’avete promesso di pregare Idio per me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro Ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo il qual voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che, come che io degno non ne sia, io intendo colla vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e così fu.
Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso a un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva dividea da un’altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano: e fra sé talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte, alla qual si vede vicino, né ancora di Dio, dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far ch'egli così non voglia morire come egli è vivuto?» Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono.
Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò: e peggiorando senza modo ebbe l’ultima unzione e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito e mandatolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò oportuna disposero.
Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo; e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dovere molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’acordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camisci e co’ pieviali, con li libri in mano e con le croci innanzi cantando andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate, che confessato l’avea, salito in sul pergamo di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piangendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto metter nel capo che Idio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Idio e la Madre e tutta la corte di Paradiso».
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità: e in brieve colle sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano, che, poi che fornito fu l’uficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a basciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella: e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti a andare e a accender lumi e a adorarlo, e per conseguente a botarsi e a appicarvi le imagini della cera secondo la promession fatta.
E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era che in alcuna avversità fosse, che a altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Idio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli poté in su lo stremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Idio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore ma alla purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci essaudisce, come se a uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo.

Miniatura del XV secolo raffigurante due momenti della novella di ser Ciappelletto in una edizione manoscritta del “Decameron”: a sinistra la confessione con il frate, a destra la santificazione del protagonista

PARAFRASI IN ITALIANO MODERNO

Ser Cepparello con una falsa confessione inganna un santo frate prima di morire; così se è stato un pessimo uomo in vita, da morto viene ritenuto santo e chiamato san Ciappelletto.

Si narra che essendo Musciatto Franzesi ricchissimo e grande mercante in Francia divenuto cavaliere e dovendo venire in Toscana con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, richiesto e sollecitato a ritornare da papa Bonifacio, sapendo egli che i suoi affari, come spesso accade ai mercanti, erano piuttosto intralciati qua e là e non si potevano sbrogliare facilmente e rapidamente, pensò di affidarli a più persone e per tutti trovò una soluzione: non riusciva però a trovare qualcuno di capace di riscuotere certi crediti che aveva con alcuni borgognoni. E questo perché sapeva che i borgognoni sono litigiosi e di indole malvagia e sleali; e non ricordava che ci fosse nessuno tanto malvagio di cui fidarsi per contrapporlo alla loro malvagità. E dopo averci pensato a lungo, si ricordò di un ser Cepparello da Prato, il quale aveva albergato spesso nella sua casa di Parigi; costui, essendo piccolo di statura e molto affettato, e non sapendo i francesi che cosa voglia dire Cepparello [diminutivo di Ciapo, deformazione di Jacopo], credendo che significasse ‘cappello’, cioè ‘ghirlanda’ come essi dicono, considerando come abbiamo detto che era basso di statura, non lo chiamavano Ciappello, bensì Ciappelletto, e come Ciappelletto era da tutti conosciuto, ben pochi conoscendolo come ser Cepperello.
Questo Ciappelletto viveva così: essendo notaio, egli provava una grandissima vergogna quando uno dei suoi numerosi atti notarili non fosse trovato falso; ne avrebbe fatti tanti quanti gliene venissero richiesti e quelli li avrebbe fatti anche gratis, piuttosto che altri con grande compenso. Diceva con sommo diletto false testimonianze, richiesto e non richiesto; e poiché in quei tempi in Francia si prestava grandissima fede ai giuramenti, non curandosi di darli falsi, vinceva tante dispute con grande malvagità quante erano quelle sopra cui veniva chiamato a giurare il vero. Provava un enorme piacere, e vi si appassionava fortemente, nell’intessere tra amici e parenti e chiunque altro mali e inimicizie e scandali, tanto che più se ne rallegrava quanto maggiori erano i mali che ne conseguivano. Invitato a un omicidio o a qualunque altra azione malvagia, senza mai negarsi, vi partecipava con somma volontà e più volte si ritrovò volentieri a ferire e uccidere uomini con le proprie mani. Era un grandissimo bestemmiatore di Dio e dei Santi ed era iracondo più di ogni altro, anche per una piccolissima ragione. Non soleva andare mai andare in chiesa e scherniva tutti i sacramenti di quella come cosa vile e con abominevoli parole; al contrario frequentava volentieri le taverne e tutti gli altri posti disonesti. Era così desideroso di femmine, tanto quanto lo sono i cani dei bastoni; si dilettava alquanto del contrario [cioè con i maschi] più di qualunque altro uomo. Avrebbe commesso furti e rapine con la stessa coscienza con cui un sant’uomo avrebbe fatto l’elemosina. Era assai goloso e gran bevitore, tanto da starne male sconciamente qualche volta. Era solenne nel gioco e nell’uso di dadi truccati. Perché mi dilungo in così tante parole? Egli era il peggior uomo che fosse mai nato. La sua malizia aveva salvaguardato a lungo la potenza e la condizione di messer Musciatto, che gli permise di essere risparmiato molte volte sia dai privati, ai quali faceva spesso ingiuria, sia dalla polizia, cui la faceva di continuo.
Ricordandosi dunque di questo ser Cepparello, messer Musciatto, che ne conosceva benissimo la vita, pensò che egli fosse la persona adatta contro la malvagità dei borgognoni; perciò, fattolo chiamare, gli disse così: «Ser Ciappelletto, come sai io sto per ritirarmi; ma poiché ho ancora degli affari in sospeso con dei borgognoni, uomini pieni d’inganni, ho pensato che non ci sia nessuno più capace di te di riscuotere da loro quanto mi spetta. Perciò, dato che al momento non stai facendo niente, se ti vuoi occupare di questo, io ho in mente di farti avere il favore della corte reale e di donarti quella parte che riterrai conveniente da ciò che riscuoterai».
Ser Ciappelletto, che era in quel momento disoccupato e in non buone condizioni economiche e vedeva che stava per andarsene colui che lungamente gli era stato sostegno e protezione, senza alcun indugio e quasi costretto dalla necessità si decise ed accettò volentieri l’incarico. Per cui, messisi d’accordo insieme, ser Ciappelletto ricevette la procura e le lettere del re e, quando Musciatto partì, se n’andò in Borgogna, dove quasi nessuno lo conosceva; e qui, contrariamente alla sua indole, iniziò a occuparsi delle riscossioni per cui era andato lì benignamente, quasi volendo riservare le maniere cattive da ultimo.
Mentre così si comportava, essendo ospite in casa di due fratelli fiorentini, dediti al prestito a usura e che lo onoravano per amor di messer Musciatto, accadde che si ammalò. Subito i due fratelli fecero giungere medici e servi e ogni cosa che fosse necessaria per fargli riacquistare la salute. Ma ogni mezzo era inutile, perché il buon uomo, che era vecchio ed era vissuto disordinatamente, come dicevano i medici, peggiorava di giorno in giorno, come colui che aveva il male della morte; della qual cosa i due fratelli erano assai addolorati.
Un giorno, trovandosi vicini alla camera in cui ser Ciappelletto giaceva infermo, cominciarono a discutere tra loro. «Che cosa faremo», diceva uno all’altro, «di costui? A causa sua ci troviamo a mal partito: perché se lo mandassimo fuori di casa nostra mentre è così infermo ne avremmo gran biasimo e daremmo prova di aver poco senno, poiché la gente ha visto che prima l’abbiamo ricevuto in casa nostra e poi siamo stati solleciti nel servirlo e medicarlo, e ora, senza che lui possa averci fatto alcunché di male, lo cacciamo pur essendo in punto di morte. D’altra parte, egli è stato un uomo talmente malvagio, che non vorrà né confessarsi né prendere alcun sacramento religioso; e, morendo senza essersi confessato, nessuna chiesa vorrà ricevere il suo corpo, anzi, sarà gettato in un fossato a guisa d’un cane. E se anche si confessasse, i suoi peccati sono così tanti e così orribili, che ci accadrà lo stesso, dato che non esiste frate né prete che voglia o possa assolverlo: cosicché, senza assoluzione, sarà ugualmente gettato nei fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, sia perché parla male in continuazione di noi a causa del nostro mestiere che a loro sembra ingiusto, sia perché hanno voglia di derubarci, si leverà in tumulto e griderà: ‘Questi cani di lombardi [come venivano chiamati in Francia tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale, fino alla Toscana] che non si lasciano nemmeno entrare in chiesa, qui non li vogliamo più tollerare’; e ci verranno in casa e ci ruberanno non solo gli averi ma anche la vita; e in ogni caso, se costui muore, noi siamo fritti».
Ser Ciappelletto, che come abbiamo detto giaceva là vicino, poiché aveva l’udito fine, come succede spesso agli infermi, sentì ciò che essi dicevano di lui; li chiamò e disse loro: «Io non voglio che temiate di nulla a causa mia, né che abbiate paura di ricevere un qualche danno. Ho sentito i vostri ragionamenti e sono certissimo che accadrebbe come voi avete detto, se tutto accadesse come pensate; ma la cosa andrà in un altro modo. Vivendo, io ho fatto tante di quelle offese a Dio, che, se gliene faccio un’altra in punto di morte, non ne terrà alcun conto; perciò fate in modo di mandarmi qui un frate santo e capace, il meglio che potete avere, se ce n’è qualcuno; e lasciate fare a me, perché sistemerò gli affari vostri nel giusto modo e in maniera che ne sarete contenti».
I due fratelli, pur senza grande speranza, se n’andarono a un convento di frati e chiesero di un uomo santo e saggio che venisse ad ascoltare la confessione d’un lombardo che era a casa loro ammalato; e fu loro affidato un vecchio frate di vita santa e buona, gran maestro nelle Scritture, uomo molto venerabile, per il quale tutti i cittadini avevano una grandissima e speciale devozione, ed essi lo condussero a casa loro. Il frate, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giaceva, sedutosi al suo fianco, prima cominciò a confortarlo benevolmente, poi gli chiese quanto tempo fosse passato dall’ultima sua confessione.
Ser Ciappelletto, che non si era mai confessato, gli rispose: «Padre mio, sono solito confessarmi almeno una volta alla settimana, ma di solito mi confesso di più; però è vero che da quando mi sono ammalato, sono già passati otto giorni, durante i quali non mi sono mai confessato, tanta è stata la noia che l’infermità mi ha dato».
Disse allora il frate: «Figliolo mio, hai fatto bene e così si deve fare d’ora in poi; e dato che così spesso ti confessi, mi costerà poca fatica ascoltare o chiederti i tuoi peccati».
Disse ser Ciappelletto: «Messere frate, non dite così: io non mi sono confessato mai tante volte né così spesso, che non abbia sempre voluto confessarmi di tutti i miei peccati che ricordassi dal giorno in cui sono nato fino all’ultimo; perciò vi prego, padre mio buono, di chiedermi minutamente ogni cosa, come se non mi fossi mai confessato; e non abbiate riguardi se sono infermo, perché preferisco dispiacere a queste mie carni, piuttosto che, per far loro indulgenza, fare qualcosa che possa essere di perdizione alla mia anima, che il mio Salvatore ricomperò con il suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al sant’uomo e gli parvero indizio di una mente ben disposta: e dopo aver lodato lungamente ser Ciappelletto per questa sua usanza, cominciò col chiedergli se avesse mai peccato di lussuria con qualche femmina.
Sospirando ser Ciappelletto rispose: «Padre mio, su questo mi vergogno a dirvi il vero, perché temo di peccare di vanagloria».
E il santo frate disse: «Di’ sicuramente, perché dicendo il vero mai si è fatto peccato né nella confessione né in altro atto».
Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché mi assicurate di questo, ve lo dirò: io sono così vergine come quando uscii dal corpo della mamma mia».
«Oh, che tu sia benedetto da Dio!» disse il frate «quanto hai fatto bene! e facendolo, hai tanto più meritato, in quanto, volendo, avevi maggior facoltà di fare il contrario di quanta ne abbiamo noi e chiunque altro ne sia costretto da qualche regola monastica».
E dopo questo gli domandò se avesse dispiaciuto a Dio nel peccato della gola. E, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose di sì e molte volte; per il fatto che, quantunque oltre ai digiuni quaresimali che i devoti fanno nel corso dell’anno, egli fosse solito digiunare a pane e acqua almeno tre giorni alla settimana, aveva bevuto quell’acqua con quel diletto e quell’appetito, e specialmente dopo una fatica dovuta alle preghiere o a un pellegrinaggio, che hanno i gran bevitori di vino; e molte volte aveva desiderato  quelle insalatine d’erbette, come fanno le donne quando vanno in campagna, e qualche volta gli era sembrato il mangiare migliore di quanto non gli sembrasse  che dovesse sembrare a chi digiuna per devozione, come digiunava lui.
Al che il frate disse: «Figliolo mio, questi peccati sono naturali e assai leggeri, perciò io non voglio che ti pesino sulla coscienza più di quanto bisogni. Ad ogni uomo accade, per quanto santissimo sia, che gli sembri buono dopo lungo digiuno il mangiare e dopo la fatica il bere».
«Oh!» disse ser Ciappelletto, «padre mio, non ditemi questo per confortarmi: sapete bene che io so che le cose che si fanno al servizio di Dio, si devono fare tutte nettamente e senza alcuna macchia d’animo: e chiunque faccia altrimenti, pecca».
Il frate contentissimo disse: «sono contento che la pensi così e mi piace molto la tua pura e buona coscienza in questo. Ma dimmi: in avarizia hai tu peccato desiderando più di quel che conviene o tenendo ciò che non dovevi tenere?»
Al che ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi abbiate dei sospetti perché mi trovo in casa di questi usurai: io non ci ho nulla a che fare, anzi c’ero venuto per ammonirli e castigarli e toglierli da questo abominevole guadagno; e credo che ci sarei riuscito, se Dio non mi avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò uomo ricco, della cui eredità, appena egli morì, diedi la maggior parte per amor di Dio [cioè in carità]; e poi, per sostentamento della mia vita e per poter aiutare i poveri di Cristo, ho fatto alcuni piccoli affari col desiderio di guadagnarci qualcosa. Ma sempre con i poveri di Dio ho fatto a metà di quello che ho guadagnato, la mia metà convertendola in ciò di cui avevo bisogno, l’altra metà dandola a loro: e di ciò mi ha così aiutato il mio Creatore, che i miei affari sono andati sempre di bene in meglio».
«Hai fatto bene» disse il frate: «ma quante volte ti sei adirato?»
«Oh!» disse ser Ciappelletto «devo dire che questo l’ho fatto molte volte; e chi potrebbe trattenersi, vedendo tutto il giorno gli uomini fare cose sconce, non osservare i comandamenti di Dio, non temere i suoi castighi? Mi è successo più volte al giorno che avrei preferito essere morto anziché vivo, vedendo i giovani andar dietro alle vanità e sentendoli giurare e spergiurare, andare nelle taverne, non frequentare le chiese e seguire piuttosto le vie del mondo che quella di Dio».
Disse allora il frate: «Figliolo mio, codesta è una buona ira, né io saprei importi una penitenza; ma per caso può l’ira averti indotto a fare un omicidio o a dire villania a una persona o a fare qualche altra offesa?»
A ciò ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, eppure mi sembrate uomo di Dio: come potete dire simili parole? Se io avessi avuto solo la più pallida idea di fare una qualunque delle cose che mi avete detto, credete voi che io creda che Dio mi avrebbe tanto sostenuto? Codeste sono cose che possono fare i malandrini e i rei uomini, dei quali ogni volta che ne ho veduto uno ho sempre detto: ‘Va, che Iddio ti converta’».
Allora disse il frate: «Or dimmi, figliolo mio, che tu sia benedetto da Dio: hai mai detto una qualche falsa testimonianza contro qualcuno o parlato male di altri o tolte a qualcuno le sue cose senza curarti di chi fossero?»
«Signorsì», rispose ser Ciappelletto «che ho detto male di altri; infatti io ebbi un vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la moglie, cosicché io una volta dissi male di lui ai parenti della moglie, tale era la pietà che provavo per quella poveretta, che egli, ogni volta che aveva bevuto troppo, conciava come solo Dio sa».
Disse allora il frate: «Orbene, tu mi dici che sei stato mercante: hai mai ingannato qualcuno così come fanno i mercanti?»
«In fede mia», disse ser Ciappelletto «messere sì, ma io non so chi egli fosse: se non che, avendomi uno dato dei denari per un panno che gli avevo venduto e avendogli io messi in una mia cassa senza contarli, dopo un mese buono mi accorsi che c’erano quattro piccioli più di quello che dovevano essere; per cui, non rivedendo colui e dopo averli conservati per un anno con l’intento di renderglieli, gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Codesta fu una cosa da niente e facesti bene a farne quello che ne hai fatto».
E, oltre a questo, il santo frate gli chiese molte altre cose, a tutte le quali rispose in questo modo; e volendo egli già procedere all’assoluzione, ser Ciappelletto disse: «Messere, io ho ancora qualche peccato che non vi ho detto».
Il frate gli domandò quale ed egli disse: «Mi ricordo che obbligai un mio servo, un sabato dopo l’ora nona [cioè l’ora precedente al vespro del sabato, con cui iniziava la celebrazione della domenica], a spazzare la casa e non ebbi quel rispetto che dovevo alla santa domenica».
«Oh!» disse il frate «figliolo mio, codesta è una cosa da poco».
«No», disse ser Ciappelletto «non dite cosa da poco, che la domenica è troppo da onorare, dato che in questo dì nostro Signore resuscitò da morte a vita».
Disse allora il frate: «Hai fatto qualcos’altro?»
«Sì messere», rispose ser Ciappelletto «perché una volta, senza avvedermene, sputai nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliolo mio, codesta non è cosa di cui curarsi: noi, che siamo religiosi, vi sputiamo tutto il giorno».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate una gran villania, perché nessuna cosa conviene tener pulita quanto il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in breve di fatti simili ne disse molti; e alla fine cominciò a sospirare e appresso a pianger forte, come uno che lo sapeva fare fin troppo bene quando voleva.
Disse il santo frate: «Figliolo mio, che hai?»
Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, mi è rimasto un peccato, del quale non mi sono mai confessato, tanta è la vergogna che ho di doverlo dire; e ogni volta che me ne ricordo piango come voi vedete, e mi sembra di essere assolutamente certo che mai Iddio avrà misericordia di me per questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Suvvia, figliolo, cos’è che dici? Se tutti i peccati che sono mai stati commessi da tutti gli uomini, o che si dovranno fare da tutti gli uomini finché il mondo durerà, fossero tutti in un solo uomo, ed egli ne fosse pentito e contrito come io vedo te, è tale la benignità e la misericordia di Dio, che, qualora egli li confessasse, Lui glieli perdonerebbe volentieri: perciò di’ il tuo apertamente».
Disse allora ser Ciappelletto sempre piangendo forte: «Ohimé, padre mio, il mio è un peccato troppo grande e a fatica posso credere, se le vostre preghiere non mi soccorrono, che esso possa essermi perdonato da Dio».
A che il frate disse: «Dillo sicuramente, ché ti prometto di pregare Iddio per te».
Ser Ciappelletto continuava a piangere e non lo diceva, e il frate continuava a confortarlo perché lo dicesse; ma dopo che ser Ciappelletto ebbe per un gran pezzo tenuto il frate così sospeso, ecco che gettò un gran sospiro e disse: «Padre mio, date che mi promettete di pregare Iddio per me, ve lo dirò: sappiate che, quand’ero piccolino, ingiuriai una volta la mamma mia». E così detto ricominciò a pianger forte.
Disse il frate: «O figliolo mio, ti sembra questo un così gran peccato? Gli uomini offendono tutto il giorno Iddio, eppure Egli perdona volentieri chi si pente d’averlo offeso; e tu non credi che Egli perdoni a te questo? Non piangere, confortati, ché davvero, se tu fossi stato uno di quelli che lo misero in croce, avendo la contrizione che io ti vedo, Egli ti perdonerebbe».
Disse allora ser Ciappelletto: «Ohimé, padre mio, che dite voi? la mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e mi portò al collo più di cento volte! troppo feci male a ingiuriarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, esso non mi sarà perdonato».
Vedendo il frate che non era rimasto altro da dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e gli diede la sua benedizione, stimandolo un santissimo uomo, così come colui che credeva pienamente fosse vero ciò che ser Ciappelletto aveva detto: e chi sarebbe colui che non lo credesse, vedendo un uomo in punto di morte dir così?
E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete presto guarito; ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a sé, siete contento che il vostro corpo sia seppellito nel nostro convento?»
Al che ser Ciappelletto rispose: «Sì messere, anzi non vorrei io essere altrove, dato che mi avete promesso di pregare Iddio per me: senza contare che io ho avuto sempre una speciale devozione al vostro Ordine. Perciò vi prego che, come sarete ritornato al vostro convento, facciate che mi giunga quel veracissimo corpo di Cristo che voi la mattina consacrate sull’altare; in quanto, pur non essendone degno, io intendo con il vostro permesso prenderlo, e poi la santa e estrema unzione, affinché io, se sono vissuto come peccatore, almeno muoia come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli piaceva e che egli diceva bene, e che avrebbe fatto in modo che subito gli fosse portato; e così fu.
I due fratelli, che dubitavano fortemente che ser Ciappelletto non li ingannasse, si erano messi appresso a un tavolato, il quale divideva la camera dove ser Ciappelletto giaceva da un’altra, e ascoltando comodamente udivano e comprendevano ciò che ser Ciappelletto diceva al frate; e alcune volte avevano una così gran voglia di ridere, udendo le cose che egli confessava d’aver fatto, che quasi scoppiavano: e fra sé talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiaia né infermità né paura della morte, alla quale si vede vicino, né paura di Dio, davanti al giudizio del quale di qui a poco si aspetta di dover essere, l’hanno potuto rimuovere dalla sua malvagità, né far sì che egli non voglia morire così come è vissuto?». Ma vedendo che aveva detto che egli sarebbe stato ricevuto in chiesa per la sepoltura, non si curarono per niente di tutto il resto.
Ser Ciappelletto poco dopo si comunicò: e peggiorando senza modo ebbe l’ultima unzione e poco dopo il vespro, quel giorno stesso in cui aveva fatto la buona confessione, morì. Per la qual cosa i due fratelli, ordinato adoperando i suoi stessi denari come dovesse essere onorevolmente seppellito e mandato a dire al convento dei frati che vi venissero la sera a far la veglia funebre secondo l’usanza e al mattino per il corpo, disposero ogni cosa opportuna a tutto questo.
Il santo frate che l’aveva confessato, udendo che egli era trapassato, ebbe un colloquio con il priore del luogo; e fatto suonare a capitolo [cioè per convocare una riunione], ai frati radunati dichiarò che ser Ciappelletto era stato un sant’uomo, da quello che aveva arguito dalla sua confessione; e sperando per lui che Domeneddio potesse dar prova di molti miracoli, li persuase che quel corpo si doveva ricevere con grandissima reverenza e devozione. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli si accordarono: e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopra di esso fecero una grande e solenne veglia; e la mattina, tutti vestiti coi camici e coi piviali, con i libri in mano e con le croci davanti andarono cantando in onore di questo corpo e con grandissima festa e solennità lo recarono alla loro chiesa, con un seguito di quasi tutti gli abitanti della città, uomini e donne. E postolo nella chiesa, il santo frate, che l’aveva confessato, salito sul pergamo cominciò a predicare cose meravigliose di lui e della sua vita, dei suoi digiuni, della sua verginità, della sua semplicità e innocenza e santità, tra le altre cose narrando quello che ser Ciappelletto gli aveva confessato piangendo come il suo maggior peccato, e come avesse faticato a fargli capire che Iddio glielo avrebbe perdonato, prendendo occasione da questo per riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi trovate tra i piedi bestemmiate Iddio e la Madre e tutta la corte del Paradiso».
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purezza: e in breve con le sue parole, alle quali la gente della contrada prestava completa fede, talmente le mise nel capo e nella devozione di tutti coloro che erano presenti, che, poi che l’ufficio fu terminato, con la maggior calca del mondo tutti andarono a baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni che indossava gli furono stracciati, ritenendosi beato chi avesse potuto avere anche un solo pezzetto di quelli: e convenne che per tutto il giorno fosse tenuto in quel modo, affinché da tutti potesse essere visto e visitato. Poi, la notte seguente, fu onorevolmente sepolto in un’arca di marmo in una cappella: e subito il dì seguente la gente cominciò ad andar lì e a accendere lumi e a pregarlo, e conseguentemente a far voti e ad appendervi gli ex voto secondo la promessa fatta. E tanto crebbe la fama della sua santità e la devozione nei suoi confronti, che non c’era quasi nessuno che si trovasse in qualche avversità, che si votasse a un altro santo che a lui, e lo chiamarono e chiamano san Ciappelletto; e affermano che Dio ha fatto molti miracoli per mezzo suo e li fa spesso a chi devotamente si raccomanda a lui.
Così dunque visse e morì ser Cepparello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale non voglio negare che lui possa essere beato alla presenza di Dio, dato che, sebbene la sua vita fosse scellerata e malvagia, egli poté in punto di morte essersi talmente contrito, che per ventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno lo abbia ricevuto: ma poiché questo non mi è noto, secondo ciò che se ne può dedurre ragiono e dico che costui deve essere nella perdizione nelle mani del diavolo, piuttosto che in Paradiso. E se così è, si può conoscere quant’è grande la benevolenza di Dio verso di noi, la quale non guardando al nostro errore ma alla purezza della fede, esaudisce le nostre richieste anche se noi usiamo un suo nemico come nostro intercessore, poiché lo crediamo amico, come se ricorressimo a uno veramente santo per intercedere nella sua grazia.

Quattro fotogrammi dal film “Il Decameron” di Pier Paolo Pasolini, del 1971:
1- Ser Ciappelletto a colloquio con Musciatto Franzesi
2- Ser Ciappelletto con i due fratelli toscani
3- Ser Ciappelletto infermo con il santo frate
4- La gente attorno al catafalco di san Ciappelletto











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