domenica 25 febbraio 2018

167 Posate e pistole (di Philip Roth)



Ira Ringold è un simpatizzante comunista nell’America degli anni Quaranta-Cinquanta; dopo aver fatto diversi umili lavori, diventa la star di un programma radiofonico, col nome di Iron Rinn e il soprannome di “Uomo di Ferro”. Divenuto amico di Nathan Zuckermann, più giovane di lui di vent’anni, un giorno lo porta con sé, quand’è ancora adolescente, a casa di un suo ex commilitone che, durante la guerra, aveva come lui idee di sinistra. Troverà però un uomo profondamente cambiato e la visita si risolverà in un drammatico litigio.
Il brano (tratto da “Ho sposato un comunista”, pubblicato da Einaudi con la traduzione di Vincenzo Mantovani) descrive molto bene, secondo me, non solo le differenze tra comunisti e capitalisti negli anni in cui è ambientato il romanzo, ma anche quelle attuali, tra chi negli Usa vota Trump e in Europa la destra più conservatrice, e coloro che credono ancora nella favola della fratellanza umana (con l’unica differenza che oggi quasi nessuno si definisce ancora comunista).

Sulle pagine dei notes marrone che Ira aveva portato dalla guerra, sparsi tra le sue osservazioni e le professioni di fede, c’erano i nomi e gli indirizzi di quasi tutti i militari che la pensavano come lui incontrati sotto le armi. Aveva cominciato a cercare questi uomini, spedendo lettere in tutto il paese e visitando quelli che abitavano a New York e nel New Jersey. Un giorno facemmo una puntata nei sobborghi di Maplewood, a ovest di Newark, per andare a trovare l’ex sergente Erwin Goldstine, che in Iran era stato di sinistra come Johnny O’Day, - «un marxista ottimamente sviluppato», lo definiva Ira - ma che, tornato a casa, scoprimmo, aveva sposato la figlia del proprietario di una fabbrica di materassi di Newark e ora, padre di tre bambini, era diventato un aderente a tutto ciò che un tempo aveva contrastato. Della Taft-Hartley, delle relazioni razziali, dei controlli dei prezzi, Goldstine non volle neanche discutere con Ira. Rideva e basta.
Moglie e figli erano via per il pomeriggio, dai parenti della donna, e noi ci sedemmo in cucina a bere acqua di selz mentre Goldstine, un ometto ben piantato con l’aria altezzosa e saccente di un imbroglione da marciapiede, rideva e si burlava di tutto ciò che Ira diceva. La sua spiegazione per il voltafaccia? - Ero un povero ignorante. Non sapevo quello che dicevo -. A me Goldstine raccomandò: - Ragazzo, non ascoltarlo. Tu vivi in America. È il più grande paese del mondo ed è il più grande sistema del mondo. Certo, c’è chi fa una vita di merda. Perché, credi che nell’Unione Sovietica non facciano una vita di merda? Lui ti dice che il capitalismo è un sistema dove cane mangia cane. Cos’è la vita se non un sistema dove cane mangia cane? È un sistema in sintonia con la vita. Ed è proprio per questo che funziona. Guarda, tutto quello che i comunisti dicono del capitalismo è vero, e tutto quello che i capitalisti dicono del comunismo è vero. La differenza è che il nostro sistema funziona perché si basa su quella verità che è l’egoismo della gente, e il loro non funziona perché si basa su quella favola che è la fratellanza. È una favola così fantastica che, per costringere la gente a crederci, hanno dovuto prenderla e spedirla in Siberia. Per costringere la gente a credere alla loro fratellanza, hanno dovuto controllarne ogni pensiero o fucilarli. E intanto in America, in Europa, i comunisti continuano a raccontare questa favola anche quando sanno qual è la verità. Certo, per qualche tempo tu non la conosci. Ma cos’è che non conosci? Conosci gli esseri umani. E allora sai tutto. Sai che questa favola è impossibile. Se sei molto giovane, immagino sia okay. Venti, ventuno, ventidue anni, okay. Ma dopo? Non c’è ragione per cui una persona d’intelligenza media possa ascoltare questa storia, questa favola del comunismo, e crederci. «Faremo cose meravigliose…» Ma noi sappiamo cos’è nostro fratello, no? È una merda. E sappiamo cos’è il nostro amico, no? È una mezza merda. E anche noi siamo mezze merde. Dunque, come possiamo fare cose meravigliose? Non si tratta nemmeno di cinismo, né di scettiscismo, sono i semplici poteri di osservazione che ha l’uomo a dirci che non è possibile.
- Vuoi venire nella mia fabbrica capitalista a veder produrre un materasso nel modo in cui un capitalista produce un materasso? Vieni, e ti faccio parlare con dei veri lavoratori, il tuo amico, qui, è un divo della radio. Tu non stai parlando con un lavoratore, stai parlando con un divo della radio. Su, Ira, tu sei una star come Jack Benny: cosa diavolo sai, tu, del lavoro? Questo ragazzo venga nella mia fabbrica e vedrà come produciamo un materasso, vedrà la cura che ci mettiamo, vedrà come mi tocca di sorvegliare passo passo l’intera operazione se voglio che non me lo mandino in malora, il mio materasso. Vedrà cosa significa essere il malvagio proprietario dei mezzi di produzione. Significa farsi un culo così ventiquattr’ore al giorno. Gli operai vanno a casa alle cinque, io no. Io sono lì ogni sera fino a mezzanotte. Torno a casa e non dormo perché mentalmente faccio i conti e poi sono ancora lì alle sei del mattino per aprire lo stabilimento. Non farti riempire di idee comuniste da lui, ragazzo. Sono tutte balle. Fa’ soldi. I soldi non sono una balla. I soldi sono il modo democratico di segnare punti. Fa’ soldi; poi, se proprio non puoi farne a meno, predica pure la fratellanza umana.
Ira si adagiò contro la spalliera, alzò le braccia in modo da intrecciare le dita delle mani sulla nuca e, senza nascondere il suo disprezzo, disse (non al nostro ospite ma, per provocarlo al massimo, a me): - Sai qual è una delle sensazioni più belle della vita? Forse la migliore? Non avere paura. L’idiota mercenario nella casa del quale ci troviamo… Sai qual è la sua storia? Ha paura. Ecco la semplice realtà. Durante la seconda guerra mondiale Erwin Goldstine non aveva paura. Ma ora la guerra è finita, e Erwin Goldstine ha paura di sua moglie, paura di suo suocero, paura che gli scadano le cambiali… Ha paura di tutto. Tu guardi con i tuoi occhioni spalancati nella vetrina del capitalismo, e vuoi sempre più cose, arraffi sempre più cose, prendi sempre più cose, raccogli e possiedi e accumuli, ed ecco la fine delle tue convinzioni e l’inizio delle tue paure. Non c’è nulla di ciò che possiedo alla quale io non possa rinunciare. Capisci? Non c’è nulla sulla mia strada alla quale io sia legato mani e piedi come un mercenario. Come abbia mai fatto, dalla casa miserabile di mio padre in Factory Street, a diventare questo personaggio di Iron Rinn, come Ira Ringold, con un anno e mezzo di ginnasio alle spalle, abbia potuto incontrare le persone che incontro e conoscere la gente che conosco e avere le comodità che ho adesso come iscritto tesserato alla classe privilegiata, è tutto talmente incredibile che perdere ogni cosa da un giorno all’altro non mi sembrerebbe strano. Capisci? Mi capisci? Posso sempre tornare nel Midwest. Posso lavorare in fabbrica. E, se devo farlo, lo farò. Tutto tranne diventare un coniglio come questo signore. Ecco cosa sei, adesso, politicamente, - disse, guardando finalmente Goldstine, - non un uomo ma un coniglio, un coniglio che non conta nulla.
- Stronzo in Iran e stronzo ancor oggi, Uomo di ferro -. Poi, tornando a rivolgersi a me (io ero la cassa armonica, la spalla, la miccia della bomba), Goldstine disse: - Nessuno ha mai potuto ascoltare quello che dice. Nessuno ha mai potuto prenderlo sul serio. Quest’uomo è una barzelletta. Non è capace di usare la testa. Non è mai stato capace. Non sa niente, non vede niente, non impara niente. I comunisti si procurano un pupazzo come Ira e lo usano. Il genere umano al colmo della stupidità non può diventare più stupido di così -. Poi, rivolto a Ira, disse: - Esci dalla mia casa, deficiente d’un rompicoglioni comunista.
Il cuore mi batteva già furiosamente prima ancora che io vedessi la pistola che Goldstine aveva preso dal cassetto di un credenzino della cucina, dal cassetto alle sue spalle dov’era riposta l’argenteria. Non avevo mai visto una pistola da vicino, tranne che, ben chiusa nella fondina, sull’anca di un poliziotto di Newark. Non era perché Goldstine era piccolo che la pistola sembrava grande. Era veramente grande, inverosimilmente grande, nera e ben fatta, ben modellata, ben lavorata: gravida di possibilità.
Sebbene fosse in piedi e puntasse la pistola alla fronte di Ira, anche in piedi Goldstine non era molto più alto di Ira seduto.
- Ho paura di te, Ira, - gli disse Goldstine. - Ho sempre avuto paura di te. Tu sei un selvaggio, Ira. Non aspetterò che tu mi faccia quello che hai fatto a Butts. Ti ricordi di Butts? Ti ricordi del piccolo Butts? Alzati e vattene, Uomo di Ferro. E portati via il Piccolo Leccaculo. Leccaculo, l’Uomo di Ferro non ti ha mai parlato di Butts? - mi disse Goldstine. - Ha cercato di ucciderlo, Butts. Ha cercato di farlo affogare. L’ha trascinato fuori dalla mensa… Non hai parlato al ragazzo, Ira, di te in Iran, delle tue sfuriate e delle tue arrabbiature? Un ragazzo di cinquanta chili attacca l’Uomo di Ferro col coltello del vassoio della mensa, un’arma molto pericolosa, capisci, e l’Uomo di Ferro lo solleva, lo porta fuori della mensa e lo trascina fino al porto, e lo tiene sopra l’acqua a testa in giù, e dice: «Nuota, grullo». Butts piange: «No, no. Non so nuotare», e l’Uomo di Ferro dice: «Non sai nuotare?» e lo molla dentro. A capofitto nello Shaṭṭ-al-‘Arab da una banchina del porto. Un fiume profondo almeno dieci metri. Butts affonda. Allora Ira si volta e ci grida: «Lasciate stare quel bastardo d’un bifolco! Via di qui! Nessuno si avvicini all’acqua!» «Sta affogando, Uomo di Ferro». «Che affoghi, - dice Ira, - state indietro! So quello che faccio! Vada pure a fondo!» Qualcuno si getta in acqua per cercar di raggiungere Butts, e allora Ira si tuffa dopo di lui, gli piomba dritto addosso, e comincia a pestare con i pugni sulla testa di questo tizio e a cercare di cavargli gli occhi e di tenere sotto lui. Non avevi parlato al ragazzo di Butts? Come mai? Non gli hai detto neanche di Garwych? Di Solak? Di Becker? (1) Alzati. Alzati e vattene, pazzo assassino squilibrato del cazzo.
Ma Ira non si mosse. A parte gli occhi. I suoi occhi parevano uccelli che volessero volargli via dalla faccia. Ammiccavano e si contraevano come non avevo mai visto prima, mentre il corpo di Ira, da capo a piedi, pareva ossificato, e mostrava una tensione terrificante come il palpito dei suoi occhi.
- No, Erwin, - disse, - non con una pistola puntata sul viso. Hai solo due modi per farmi uscire: tirare il grilletto o chiamare la polizia.
Non avrei saputo dire quale dei due era più spaventoso. Perché Ira non faceva quello che voleva Goldstine? Perché non ci alzavamo per andarcene, noi due? Chi era più insensato, il fabbricante di materassi con la pistola carica o il gigante che lo sfidava a sparare? Che stava succedendo in quella casa? Eravamo in una cucina soleggiata di Maplewood, New Jersey, a bere Royal Crown dalla bottiglia. Eravamo tutti ebrei. Ira era venuto a salutare un ex commilitone. Cos’aveva questa gente che non andava?
Fu quando io cominciai a tremare che Ira smise di sembrare deformato dai pensieri irrazionali che dovevano passargli per la testa. Seduto davanti a me, notò che i miei denti battevano per conto loro, che le mie mani tremavano incontrollabilmente da sole, e tornò in sé e si alzò lentamente dalla sedia. Mise le mani sopra la testa come fanno i clienti nelle banche quando i rapinatori gridano «Questa è una rapina!»
- Finito tutto, Nathan. Incontro sospeso per sopravvenuta oscurità -. Ma malgrado il tono bonaccione in cui era riuscito a dirlo, malgrado la capitolazione che era implicita nelle braccia beffardamente alzate, mentre uscivamo dalla casa attraverso la porta della cucina e lungo il vialetto ci avviavamo alla macchina di Murray, Goldstine continuò a seguirci, con la pistola ad appena qualche centimetro dal cranio di Ira.
In una specie di trance, Ira guidò la macchina attraverso le strade tranquille di Maplewood, passando davanti a tutte le belle case unifamiliari dove abitavano gli ebrei di Newark che negli ultimi tempi avevano comprato la loro prima casa, il loro primo prato e la loro prima iscrizione a un country club. Non il tipo di persone o il tipo di quartiere dove ti aspetteresti di trovare una pistola nel cassetto delle posate.
Solo quando attraversammo la linea ferroviaria di Irvington, e stavamo per entrare a Newark, Ira si voltò e chiese: - Stai bene?
Ero al colmo dell’infelicità, anche se meno atterrito, adesso, che umiliato e pieno di vergogna. Schiarendomi la gola per avere la certezza di parlare con voce ferma, dissi: - Mi sono pisciato nei calzoni.
- Davvero?
- Credevo che volesse ammazzarti.
- Sei stato coraggioso. Sei stato molto coraggioso. Sei stato in gamba.
- Mentre camminavo lungo il vialetto, mi sono pisciato nei calzoni! – dissi rabbiosamente. – Maledizione! Merda!
- È colpa mia. Tutta questa storia. Non dovevo portarti da quell’idiota. Puntare una pistola! Una pistola!
-Perché l’ha fatto?
- Butts non è affogato, - disse Ira all’improvviso. – Non è affogato nessuno. Non sarebbe affogato nessuno.
- L’avevi buttato dentro tu?
- Certo. Certo che l’avevo buttato dentro io. Era il bifolco che mi aveva dato del giudeo. Te l’ho già raccontata, quella storia.
- Ricordo -. Ma quella che mi aveva raccontata era solo una parte della storia. – Fu la sera in cui ti tesero l’agguato. Quando ti picchiarono.
- Già. Mi picchiarono sì. Dopo aver ripescato quel figlio di puttana.
Mi lasciò davanti a casa mia, dove non c’era nessuno e io potei buttare la roba bagnata nel cesto e fare una doccia e calmarmi. Sotto la doccia mi tornò la tremarella, non tanto perché ricordavo di essere stato là seduto a quel tavolo di cucina con Goldstine che puntava la pistola alla fronte di Ira o perché ricordavo che gli occhi di Ira sembravano volergli volar via dalla testa, ma perché pensavo: una pistola carica con i coltelli e le forchette? A Maplewood, New Jersey? Perché? A causa di Garwych, ecco perché! A causa di Solak! A causa di Becker! (2)
Tutte le domande che non avevo osato porgli in macchina, cominciai a pormele da solo ad alta voce sotto la doccia: - Cosa gli avevi fatto, a quella gente, Ira?
   
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(1) In realtà Ira ha parlato a Nathan di un’aggressione subita da un commilitone, a cui aveva reagito in maniera violenta, ma senza scendere nei particolari. Non ha detto niente, invece, degli altri tre uomini che vengono nominati e di cui neanche il lettore sa qualcosa.
(2) Nathan si sente nuovamente tremare, perché si chiede cosa Ira può aver mai fatto con questi tre uomini.




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