domenica 4 settembre 2016

4 Ogni giorno, sul sobborgo operaio (di Maksìm Gorkij)



Il romanzo La madre, pubblicato nel 1906, racconta la presa di coscienza di una donna quarantenne nella Russia di fine Ottocento o inizio Novecento; grazie al figlio, anch’essa si accosta al socialismo, sentito come l’unica possibilità di migliorare le condizioni di vita del proletariato. Queste condizioni sono descritte da Gorkij nel primo capitolo del romanzo, il brano qui riportato.

Ogni giorno, sul sobborgo operaio, nell’aria grassa e fumosa, fremeva e urlava la sirena della fabbrica; obbedienti alla chiamata, dalle case grigie uscivano frettolosi sulla strada, simili a scarafaggi spaventati, uomini dall’aspetto cupo che non erano riusciti a riposare con il sonno i loro muscoli. Nella fredda oscurità si dirigevano per la via non lastricata verso le alte gabbie di pietra della fabbrica che li aspettava con impassibile sicurezza, illuminando la strada fangosa con diecine di occhi viscidi, quadrati. I piedi guazzavano nel fango. Risonavano rauche esclamazioni di voci assonnate, rozze bestemmie si alzavano rabbiose nell’aria; incontro agli uomini giungevano altri suoni, il fragore sordo delle macchine, il sibilo del vapore. Cupi e ostili, si profilavano gli alti fumaioli neri che si levavano sopra il sobborgo come grossi bastoni.
A sera, quando il sole tramontava e sui vetri delle case brillavano i suoi raggi stanchi, la fabbrica cacciava fuori gli uomini dalle sue viscere di pietra come scorie inutili, ed essi ripercorrevano le stesse strade, affumicati, con le facce annerite, diffondendo nell’aria l’odore appiccicoso dell’olio di macchina, facendo risplendere i denti affamati. Ma nelle loro voci risonava adesso l’animazione e perfino la gioia: per quel giorno la galera del lavoro era finita, a casa li aspettavano la cena e il riposo.
Un’altra giornata era stata inghiottita dalla fabbrica, le cui macchine avevano succhiato dai muscoli degli uomini tutta la forza che era loro necessaria. Un’altra giornata era stata cancellata dalla vita di ognuno senza lasciare tracce; l’uomo aveva fatto un altro passo verso la tomba, ma egli vedeva dinanzi a sé il godimento del riposo, la gioia dell’osteria fumosa, e si sentiva contento.
Nei giorni di festa gli operai dormivano fin quasi alle dieci; poi quelli più posati e quelli ammogliati, indossati gli abiti migliori, si recavano ad ascoltare la messa e, strada facendo, rimproveravano i giovani per la loro indifferenza verso la religione. Dalla chiesa ritornavano a casa, mangiavano la torta e si rimettevano a dormire fino alla sera.
La stanchezza accumulata negli anni toglieva loro l’appetito e, per stuzzicarlo, bevevano molto, eccitando lo stomaco con sorsate brucianti di vodka.
La sera passeggiavano pigramente per le vie; chi possedeva le calosce le metteva anche se il tempo era asciutto; chi poi, possedeva un ombrello, lo portava anche con il sole.
Incontrandosi fra loro, discorrevano della fabbrica, delle macchine e imprecavano contro i capi; parlavano e pensavano soltanto di cose legate al lavoro. Scintille solitarie di un pensiero fiacco, impotente, balenavano appena nella monotonia uggiosa dei giorni. Tornati a casa, attaccano lite con le mogli e spesso le picchiavano, senza risparmio di pugni. I giovani passavano il tempo nelle osterie od organizzavano serate in casa dell’uno e dell’altro, suonavano la fisarmonica, cantavano canzoni brutte e oscene, ballavano, dicevano volgarità e bevevano. Sfiniti dalla stanchezza, si ubriacavano presto e allora nell’animo di tutti si risvegliava un’incomprensibile, morbosa irritazione che cercava una via d’uscita. Aggrappandosi tenacemente a un pretesto qualunque per sfogare quell’inquieto sentimento, gli uomini, per qualsiasi sciocchezza, si lanciavano gli uni contro gli altri come belve. Avvenivano risse sanguinose, che a volte si concludevano con qualche ferito e talora anche con un morto.
Nei rapporti fra gli uomini dominava, soprattutto, un sentimento di rancore in agguato, un rancore radicato quanto l’inguaribile stanchezza dei muscoli. L’uomo nasceva con questa malattia dell’anima ereditata dai padri, che lo accompagnava come un’ombra nera fino alla tomba, spingendolo a compiere, nel corso della vita, una serie di atti, infami per la loro crudeltà inutile.
La festa, i giovani rientravano a notte tarda con gli abiti strappati, pieni di fango e di polvere, con il viso pesto, vantandosi malignamente dei colpi inferti ai compagni, oppure sconfitti, quasi piangendo di ira e di mortificazione, ubriachi e miserevoli, infelici e disgustosi. Talvolta i ragazzi venivano riportati a casa dai padri e dalle madri. Li trovavano sulla strada, addossati a una palizzata o ubriachi fradici in qualche osteria; inveivano malamente contro di loro, picchiavano con i pugni i corpi dei figli resi flaccidi dalla vodka, poi li cacciavano a letto in maniera più o meno gentile per svegliarli la mattina dopo, di buon’ora, quando nell’aria buia si effondeva, come un rivolo cupo, l’urlo delle sirene che chiamavano al lavoro.
Non risparmiavano ai figli né ingiurie né botte, ma l’ubriachezza e le risse dei giovani parevano ai vecchi fenomeni del tutto naturali giacché anch’essi, quando erano giovani, avevano bevuto e si erano azzuffati e anch’essi le avevano prese dai padri e dalle madri. La vita era sempre stata così; essa scorreva da anni lenta e uniforme come un torbido fiume verso mete sconosciute, basata sulla solida e antica abitudine di pensare e di fare sempre le stesse cose, un giorno dopo l’altro. E nessuno aveva il desiderio di provare a cambiarla.
Talvolta nel sobborgo giungevano di lontano uomini sconosciuti. Dapprima attiravano l’attenzione unicamente perché erano forestieri, poi suscitavano un leggero, tutto esteriore interesse con i loro racconti sui luoghi dove avevano lavorato, ma ben presto la novità si dileguava, ci si abituava a loro, ed essi passavano inosservati. Dai loro racconti era chiaro che la vita dell’operaio si svolgeva allo stesso modo in ogni luogo. E se era così, che scopo c’era a parlarne?
Ma talora qualcuno di essi diceva cose che nel sobborgo non si erano mai sentite. Nessuno discuteva, ma tutti ascoltavano con diffidenza i suoi strani discorsi che in alcuni suscitavano un’irritazione cieca, in altri una torbida inquietudine, in altri ancora una leggera ombra di speranza in un qualcosa di indefinibile, e gli uomini cominciavano a bere di più per scacciare un’agitazione inutile e fastidiosa.
Notando nel forestiero qualcosa di insolito, gli abitanti del sobborgo per un bel pezzo non riuscivano a dimenticarlo e si comportavano con un’inspiegabile apprensione verso un uomo tanto diverso da loro. Quasi temevano che quell’individuo potesse gettare nella loro vita qualcosa che ne avrebbe turbato il corso squallidamente regolare, gravoso, sì. Ma tranquillo. Si erano abituati a una vita che li opprimeva sempre con la stessa forza e, non aspettandosi alcun mutamento verso un’esistenza migliore, ritenevano ogni cambiamento capace soltanto di accrescere quel peso.
Da coloro che dicevano cose nuove gli abitanti del sobborgo si tenevano silenziosamente lontano. Allora gli estranei si eclissavano, tornavano là donde erano venuti, oppure, se rimanevano nella fabbrica, vivevano isolati qualora non sapessero fondersi in un tutto unico con la massa uniforme degli abitanti del sobborgo.
Trascorsi così cinquant’anni di questa vita, l’uomo moriva.

Operai in una fabbrica russa dell’epoca della rivoluzione industriale



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