sabato 24 marzo 2018

179 L'abbandonato di Kruger III (di Fredric Brown)



Concludo (almeno per il momento) questa piccola antologia dedicata a Fredric Brown, con un racconto che rientra nei canoni classici della fantascienza; il protagonista è un astronauta che è naufragato su un pianeta lontano e che va alla ricerca di un’astronave approdata anch’essa su quel pianeta per cercarne i pezzi di ricambio; vi sono poi mostri pericolosi, un sole rosso che non tramonta mai, una creatura a cinque zampe che non parla, pistole a radiazione solare… Ma il finale, come in tutta la letteratura fantascientifica, sarà una sorpresa.
Il racconto, il cui titolo originale è “Something Green”, apparve nel 1951.

L’enorme sole aveva un colore scarlatto in un cielo violetto: ai margini della pianura, cosparsa di cespugli bruni, si levava la giungla rossa.
McCarty si mosse a quella volta, per iniziare le sue ricerche anche in quella giungla. Sapeva che l’impresa a cui si accingeva per l’ennesima volta era ardua, spossante, pericolosissima. Ma era necessaria.
«Si va, Dorothy?» disse. «Sei pronta?»
La creaturina dalle cinque membra che gli stava posata sulla spalla non rispose, per la semplice ragione che non poteva parlare. Ma era pur sempre un essere vivo a cui McCarty poteva parlare, una compagnia. Tanto per le dimensioni, quanto per il peso, Dorothy faceva pensare a una mano, una mano di donna posata sulla spalla.
Da quanto tempo ormai, si chiese McCarty, Dorothy gli teneva compagnia su quello sterminato pianeta? Dovevano essere quattro anni, calcolò, perché prima di trovarla era stato solo per più di un anno. E ormai erano passati cinque anni dal giorno in cui aveva fatto naufragio.
Aveva preso l’abitudine di parlarle, e questo lo aiutava a vivere.
«Faremo bene, ad ogni modo» le disse, carezzandosi la spalla dove lei era posata «a stare attenti a non farci cogliere di sorpresa. Possono esserci tigri e leoni, in quella giungla».
Istintivamente l’idea gli fece correre la mano alla cintura. Sentì sotto le dita il calcio della pistola a radiazione solare, l’unica arma che fosse riuscito a salvare dal suo disastroso atterraggio… di fortuna. Era un’arma straordinaria: bastava esporla un’oretta al sole per ricaricarla. Le radiazioni solari – di qualunque sole purché fosse fulgido e vicino – permettevano all’arma di lanciare un raggio mortale che disintegrava all’istante qualsiasi materia o sostanza colpisse. Senza quella pistola, McCarty non avrebbe potuto sopravvivere per cinque anni su Kruger III, ossia il terzo pianeta della stella Kruger.
I suoi timori non erano ingiustificati. Infatti McCarty non era ancora giunto al margine della foresta, quando ne emerse un leone. Non era un vero e proprio leone, ma McCarty chiamava così gli animali di quella specie per nostalgia della Terra. Sulla Terra, naturalmente, mostri come quelli probabilmente non erano mai esistiti o per lo meno nessuno ne aveva mai veduti. Era un animale di colore rosso vivo, con otto fortissime zampe, senza ossa o giunture, simili a una proboscide d’elefante, una testa ricoperta di durissime scaglie, armata di un becco che ricordava vagamente quello di un pellicano gigantesco. Né, sulla Terra, qualcuno aveva mai saputo dell’esistenza di mostri simili, perché nessuno era mai tornato a dare agli uomini ragguagli sulla fauna o la flora di Kruger III. Prima di McCarty, una sola astronave era scesa sul terzo pianeta di Kruger, ma non ne era ripartita mai più. ed erano i suoi resti che McCarty andava cercando, di giungla in giungla, armato della sua pistola solare e con Dorothy sulla spalla. Se avesse potuto ritrovare ancora intatti i tubi elettronici dell’astronave, avrebbe potuto sostituirli a quelli della sua, che s’erano frantumati nell’atterraggio, cosa che gli avrebbe permesso di tornare sulla Terra.
Puntò la pistola solare verso il mostro, che avanzava lento verso di loro, strisciando fra i folti cespugli color cioccolato, e premette il bottone. Un raggio verde, brillante, sottile e diritto come un lungo filo di smeraldo, scaturì dall’arma, e leone e cespugli si dissolsero all’istante, in assoluto silenzio.
«Hai visto, Dorothy?» disse il naufrago dei cieli, accarezzando la creaturina. «Che bel verde, non è vero? È il solo colore che manchi su questo tuo sanguigno, maledettissimo pianeta. Il verde è il più bel colore dell’universo, Dorothy. Sulla Terra, dove sono nato, è il colore dominante, sai? Le foreste, i prati, le montagne, i mari sono verdi. Quando riusciremo ad andarci, vedrai che ti piacerà, il mio meraviglioso pianeta verde, Dorothy!»
Si volse a guardare la pianura bruna e polverosa, il cielo violetto e quel maledetto sole scarlatto, la stella Kruger, che non tramontava mai sull’emisfero diurno del pianeta perché questo gli girava intorno ma non roteava su sé stesso e il giorno era eterno: mai sbalzi di temperatura, mai vento, mai temporali.
In fondo non era un malvagio pianeta: aveva acqua fresca, abbondante, molta eccellente selvaggina, anche se in principio si doveva superare una certa ripugnanza a nutrirsi di animali dall’aspetto mostruoso. Ma McCarty si era abituato a quel mondo, ora che aveva Dorothy con la quale poter parlare. Dorothy lo capiva più di quanto potesse sembrare e senza di lei e senza il verde della Terra, certo, McCarty sarebbe impazzito.
Sospirò e cominciò a addentrarsi nella giungla. «Che cosa hai detto, Dorothy?» chiese dopo un po’ ad alta voce, anche se Dorothy naturalmente non aveva detto nulla. «Che se troviamo i tubi elettronici intatti e torneremo sulla Terra, io mi sposerò? Chissà, Dorothy. C’è sulla Terra infatti una ragazza; ha il tuo nome, Dorothy, la dovevo sposare al mio ritorno, ma sono rimasto impegolato qui, nel tuo mondo e certo lei mi crede morto. Eh, cinque anni sono tanti, Dorothy. Ma se per caso lei mi aspettava? Se mi aspettava, la sposerò di certo, Dorothy!»
Quella striscia di giungla - e dovevano essercene migliaia, milioni su quel pianeta più grande di Giove e forse la sua intera vita non sarebbe bastata a esplorarle tutte – era di un paio di chilometri quadrati, ma così fitta che l’uomo dovette dormire alcune ore e consumare tre pasti, prima di averla attraversata. Quando riapparve dall’altra parte sulla pianura bruniccia e arida, aveva ucciso altri due leoni e una tigre. Si voltò per disintegrare la striscia di giungla con la pistola solare, per non correre il rischio di sbagliarsi ed esplorarla nuovamente in avvenire.
«C’è un’altra striscia di giungla ai piedi delle colline, Dorothy. Forse l’astronave è atterrata laggiù, o forse in quell’altra, all’orizzonte. Bisogna che le esploriamo entrambe. Dobbiamo esplorarle tutte, finché non l’avremo trovata».
Il pensiero di quel compito immane lo avvilì. Ripensò per consolarsi alla Terra. Disse ad alta voce con infinita dolcezza: «Oh le verdi colline della Terra! Non sono come queste. Tu non puoi immaginare quanto sono belle, Dorothy, ma forse un giorno le vedrai».
Sospirò. Intorno la steppa color cioccolata, spezzata dai grumi rossi delle strisce di giungla, si perdeva all’infinito, sotto il cielo eternamente violetto, eternamente sereno.
Chiuse gli occhi, perché quell’immensità da esplorare lo schiacciava. E fu proprio in quel momento che udì uno strano, prolungato ronzio. Un ronzio vago e sonoro che sembrava echeggiasse nelle regioni più elevate del cielo, del cielo violetto deserto di uccelli e di nubi, dove non avveniva mai nulla.
Impossibile!
Ma ora quel ronzio s’accresceva in sonorità, diventava un rombo profondo, regolare come un pulsare di motori. Mentre frugava ansiosamente con lo sguardo l’impassibile cielo violetto, McCarty scorse un punto nero che vi si muoveva. Per un attimo pensò di essere in preda a un’allucinazione. Chiuse gli occhi, li tenne fermi per un istante, li riaprì, guardò. Il punto nero si era spostato, s’ingrossava. Si muoveva! A poco a poco da nero divenne argenteo e scintillante e ora McCarty poteva distinguere il potente getto di fiamma che gli faceva da scia.
Il cuore gli batteva, mentre levava la pistola e la puntava in alto, per attirare l’attenzione. Aveva pensato a come avrebbe fatto quel gesto migliaia di volte, perché per cinque anni, per tante e tante volte ogni giorno, aveva sperato di vedere un giorno comparire un’astronave nel cielo violetto di Kruger III. Ed ecco, ora l’astronave era lì, scintillava argentea nel cielo, aveva un profilo familiare e consolante, come un viso amato!
Un lungo raggio verde scaturì dalla pistola di McCarty, lampeggiò nel cielo una, due volte, risaltò brillante, col suo verde di smeraldo sul calmo cielo violetto, sull’uniforme tristezza rossa del pianeta.
Il pilota dell’astronave lo vide. Emise tre getti di razzi potenti dagli sfiatatoi dell’astronave, in risposta. Era il segnale convenzionale per casi del genere.
Il razzo argenteo cominciò a scendere in calme volute, come un’ape sulla corolla d’un fiore.
McCarty cominciò a tremare. Ora che il suo desiderio si avverava, dopo cinque anni di ostinata speranza, di alternative, di avvilimento e di disperazione, gli pareva impossibile che fosse vero. Si portò la mano alla spalla, per accarezzare la piccola cosa viva che in quei duri anni di solitudine su quell’isola deserta nello spazio infinito era stata la sua unica consolazione e la sua unica compagnia: la piccola, dolce, tenera creatura che sembrava una mano viva di donna!
«Ci siamo, Dorothy» disse con la voce strozzata per l’emozione. E non poté dire altro.
L’astronave stava calando sulla pianura rossiccia, qualche centinaio di metri lontano. I getti esplosivi che ne frenavano la caduta sollevarono nuvole color sangue.
McCarty si mise a correre, dimentico d’essere completamente nudo, a eccezione della cintura che portava alle reni e dalla quale pendevano la pistola solare, un pugnale e qualche altro strumento primitivo che si era fabbricato con le sue mani. Dimentico della sua indicibile sporcizia, del fetore che emanava dal suo corpo; ignaro che il suo corpo si era, in quegli anni, ischeletrito, invecchiato, logorato. Correva, e le lacrime gli scorrevano sulle guance irsute, mentre dalle labbra gli uscivano suoni indistinti che avrebbero voluto essere parole, miste a risate e a singhiozzi.
Quando giunse presso l’astronave, lo sportello si stava aprendo. Sull’apertura comparve un giovanotto alto e sottile che indossava la divisa del Corpo di Polizia dell’Astronautica.
«Mi porti via?» ansimò McCarty.
«Certo!» rise l’altro, saltando a terra. «Da quanto tempo sei qui?»
«Cinque anni» rispose il naufrago. E scoppiò in un pianto irrefrenabile.
«Ripartiamo non appena i tubi di scarico si saranno raffreddati. Ci vorrà al massimo un’ora. Ti porto a Cartagine, su Aldebaran II. Là potrai trovare un’astronave per qualsiasi pianeta del nostro sistema solare. Hai bisogno di qualcosa, intanto? Acqua? Cibo?»
McCarty scosse la testa. Aveva bisogno soltanto delle verdi colline della Terra. E stava per rivederle! La testa incominciò a girargli, gli occhi gli si oscurarono. Quel pensiero era così dolce, così dolce, che spossava. Cadde senza sensi sul terreno rossiccio.
Quando rinvenne il giovane ufficiale stava cercando di fargli inghiottire un liquido ardente e pepato che lui non riconobbe, perché ne aveva dimenticato non solo il nome, ma anche il sapore.
«Fra mezz’ora decolliamo» gli disse il giovane, con un sorriso affettuoso. «E in sei ore sarai a Cartagine, vecchio Robinson Crusoè!»
Sedettero all’ombra di un cespuglio. McCarty raccontò al giovane quale era stata la sua vita di quei cinque terribili anni di esilio su Kruger III, le lunghe, estenuanti ricerche, di giungla in giungla, di pianura in pianura, dell’astronave perdutasi sull’immenso pianeta, prima della sua; gli parlò delle mostruose bestie che egli aveva battezzato tigri e leoni per nostalgia della Terra. E gli parlò di Dorothy, che viveva accoccolata sulla sua spalla… E mentre parlava, alzò con tenerezza la mano, a cercare la piccola, dolce creatura che gli aveva tenuto compagnia in quei terribili cinque anni.
Fu in quel momento che si accorse che l’espressione del giovane era diventata come solenne, compassionevole.
«Dimmi, vecchio Robinson» disse a un tratto il giovane. «Che anno era quando atterrasti su questo pianeta?»
La domanda stessa e il suo tono, più delle parole, fecero intuire a McCarty quale fosse la delusione che lo aspettava in quel momento. Come si fa a tenere un’esatta misura del tempo su un pianeta dove il sole non tramonta e le stagioni non mutano mai?
«Siamo arrivati qui nel 2242» rispose, esitando, lentamente. Ci fu silenzio, poi McCarty chiese, a bassa voce: «Di quanto mi sono sbagliato, Archer?»
«Siamo nel 2272, McCarty…»
Ancora un lungo, penoso silenzio. Poi McCarty disse: «2272… Quanti anni fanno, Archer?»
Gli pareva che la mente gli si smarrisse al punto di non saper neanche fare un calcolo così semplice, ma la verità era che la realtà lo spaventava e lui ne rifuggiva.
«Trent’anni, McCarty. Sei piovuto su Kruger III trent’anni fa… Quanti anni avevi, a quel tempo?»
«Venticinque…»
Un’altra pausa. I silenzi sottolineavano quello scambio di frasi come singhiozzi.
«Ora hai cinquantacinque anni, McCarty…»
«Sono passati trent’anni! Dio mio!»
«Non devi prendertela così. Non hai idea di come la medicina sia progredita in questi ultimi vent’anni. Qualche mese di cure e ritornerai forte e vigoroso come prima: non ci sarà nessuna differenza, tra i tuoi venticinque d’allora e i tuoi cinquantacinque d’adesso».
Ma McCarty ripeté, come trasognato: «Dio mio!»
«Non prendertela così! In fondo non sei né malato, né vecchio. E poiché stiamo per partire, è meglio che ti dica tutto subito, così smaltirai le delusioni durante il viaggio e all’arrivo non ci penserai più, vecchio mio. O vuoi che aspetti?»
«Che c’è ancora? Be’, è meglio che tu lo dica subito, qualunque cosa sia, Archer».
«C’è che è un vero miracolo, vecchio, che tu abbia potuto resistere trent’anni. Ma puoi ringraziare Iddio d’aver creduto che l’astronave di Marley si fosse perduta su questo pianeta. Questo è Kruger III. L’astronave di Marley si è perduta su Kruger IV. Perciò se tu avessi continuato a cercarla anche tutto il resto della tua vita, non l’avresti mai potuta trovare. Ma almeno questa speranza ti è bastata per non farti perdere la ragione…»
Fece una pausa, gli guardò la spalla, la spalla su cui era accoccolata Dorothy.
McCarty non parlò.
«È come per Dorothy, capisci» proseguì allora Archer, con la voce un po’ arrochita, come se forzasse le parole ad uscirgli dalla gola. «È come per Dorothy, sicuro. Non c’è nessun animaletto a cinque gambe e che somiglia a una mano di donna, sulla tua spalla. Non c’è nessun animaletto di nessun genere, vecchio mio. Dorothy è un prodotto della tua fantasia, una creatura immaginaria. Ma ti è servito immaginarla, per tenerti compagnia, per non dimenticare di parlare, per non impazzire, McCarty…»
Lentamente McCarty si riportò la mano sulla spalla. Non c’era più nulla.
«È davvero un miracolo che dopo trent’anni di questa vita tu sia ancora quasi normale, vecchio mio» proseguì Archer. «Comunque, ci sono eccellenti psichiatri, a Cartagine. E se l’allucinazione di Dorothy persiste, in poco tempo, a Cartagine, te ne libereranno…»
«Non persiste. Anzi, dubito che Dorothy sia mai esistita» disse McCarty, tetro. «Certo, mi ha molto aiutato il crederlo. Sì, per me era come… come una mano di donna. Sono stato un po’ pazzo, ma ora è finito. Ora che si torna sulla Terra…»
Archer lo guardò in silenzio e scosse la testa.
«Non ho ancora finito… Vedi, non si torna più sulla Terra, McCarty. Su Marte, se credi, o tra i giardini tropicali di Venere. La Terra non è più che un globo calcinato, deserto, dopo la guerra con le forze radioattive di Sirio».
McCarty ripeté, come un sonnambulo: «Niente più Terra. Niente più verdi colline…»
Il suo viso era triste, ma calmo.
Archer lo osservò, trasse un respiro di sollievo.
«Sono lieto che tu la prenda a questo modo, vecchio mio! Temevo che tu… Ma tutto è andato bene. Sei molto più in gamba di quello che credevo…» Si alzò, gli batté una mano sulla spalla, con affettuosa forza: «Ora dobbiamo andare. Ma vedrai che bella vita si conduce su Venere, vecchio mio. Altro che la Terra! Andiamo…»
Si diresse verso l’astronave, voltando la schiena a McCarty, certo che l’altro lo seguisse.
Ma McCarty non lo seguiva. Si era fermato, con un gesto lento aveva estratto la pistola solare. La puntò, sparò. In un attimo Archer e la sua astronave si dissolsero.
Il pianeta, ora, era tornato quello di sempre, bruno-rosso, deserto, pianura e giungla rossa, giungla rossa e pianura e colline sabbiose all’orizzonte, sotto il cielo violetto, sotto il sole che non tramontava mai.
McCarty infilò la pistola solare nella cintura e riprese la marcia verso la striscia di giungla ai piedi delle colline lontane.
Camminando, si portò la mano sulla spalla. E la sua mano sentì la piccola, dolce Dorothy accoccolata, tenera al tatto e liscia come una bella mano di donna. La sua piccola Dorothy, la sua compagna di esilio per cinque lunghi anni.
Disse: «Non ti preoccupare, Dorothy, troveremo l’astronave di Marley. Con un po’ di pazienza la troveremo. Forse oggi stesso, laggiù, su quella striscia di giungla ai piedi delle colline… e se non lì forse su quell’altra, all’orizzonte… E quando l’avremo trovata sostituiremo i tubi elettronici alla mia astronave e torneremo sulla Terra, Dorothy…»
Rise. Non aveva una risata da folle, no. Era una risatina dolce e soddisfatta… «Ti farò conoscere le verdi colline della terra, Dorothy!»
L’accarezzò teneramente e riprese la marcia: riprese la marcia verso la striscia di giungla, verso i leoni a otto zampe, verso l’orizzonte, sotto il sole rosso che non tramontava mai…










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