giovedì 26 ottobre 2017

120 Antonio Giuriolo (di Luigi Meneghello)



Nell’ultimo capitolo di “Fiori italiani” Meneghello (e il suo alter ego S.) parla esclusivamente di quello che fu il suo vero maestro di vita: Antonio Giuriolo, insegnante che non accettò di iscriversi al fascio e per questo sopravvisse dando lezioni private, fino a scegliere di diventare partigiano; morì in un’azione contro i tedeschi il 12 dicembre 1944, mentre tentava di recuperare i corpi dei suoi compagni uccisi.
Meneghello ne descrive con sottigliezza la personalità nelle sue differenti caratteristiche, in particolare in quell’essere maieutico senza darlo a vedere, ma “strappando” le idee ai suoi discepoli dal loro interno, in modo oggettivo. Fu grazie a lui che l’autore divenne antifascista, scoprendo con orrore che invece avrebbe potuto rimanere fascista, quale si credeva di essere in seguito a tutta la cultura (di cui parla in questo bellissimo libro) ricevuta nell’infanzia e nella gioventù.
Riporto il capitolo finale di “Fiori italiani” quasi per intero.

Devo ora parlare dell’uomo che fu il maestro di S., mio, e dei nostri compagni, Antonio Giuriolo. L’incontro con lui ci è sempre parso la cosa più importante che ci sia capitata nella vita: fu la svolta decisiva della nostra storia personale, e inoltre (con un drammatico effetto di rovesciamento) la conclusione della nostra educazione.
Poiché non è sopravvissuto alla guerra (morì a 32 anni, nel dicembre 1944) è naturale che la sua figura sia restata per noi nella luce in cui la vedemmo allora: credevamo di avere incontrato una personalità straordinaria animata da forze miracolose.
Oggi si potrebbe pensare che questo fosse soltanto un riflesso nei nostri occhi: effetto dello shock di avere incontrato un uomo che davvero non aveva ceduto al fascismo. Così è accaduto per altri antifascisti conosciuti allora: parevano figure più grandi del vero, ma poi si vide che erano persone qualsiasi.
Nel caso di Giuriolo non è così. L’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere.
Credo che di maestri di simile tempra ce ne siano stati in ogni parte d’Italia pochi bensì, ma non pochissimi. Dietro a quasi ogni gruppo di studenti partigiani o resistenti si sente (qualche volta si sa) che ce n’è stato uno; e penso che sarebbe importante studiarli, ricostruire bene la loro cultura, riconoscere l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole e gli effetti della loro influenza. Forse m’inganno, e l’argomento non è interessante se non per la pietas e il senso storico privato di pochi italiani che invecchiano in patria e fuori: ma non credo. Sono convinto invece che c’è proprio qui la chiave per capire come avviene realmente la trasmissione della cultura.
Mi rendo conto che nelle esperienze culturali di un popolo esiste anche uno schema tutto diverso da questo: arrivano (per noi italiani di solito arrivano dall’estero) certe ondate di idee e prospettive nuove, con forza impersonale. Non è necessario che siano mediate, pur essendoci sempre chi s’incarica di mediarle: non sempre bene, a volte malissimo. La “cultura” del paese si aggiorna come d’incanto; la forza stessa delle nuove prospettive fa da maestra e direttrice didattica. Così dev’essere stato nella storia lontana della specie: arrivavano cose o idee (in principio dovevano essere identiche), per esempio un modo nuovo di fare i vasi di coccio, o i raschietti di osso, e la gente se ne impadroniva senza maestri, lo interiorizzava d’emblée, si liberavano forze nuove e imprevedibili.
Sono convinto però che in alcune cose assolutamente cruciali l’altro schema della trasmissione individuale e personale abbia un ruolo insostituibile. Un modo nuovo di fare i vasi ha una sua potenza educativa immediata; ma se si tratta invece di fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne, non c’è forse altro modo che quello antico, paziente, difficile di esemplarli su modelli viventi. Un metodo che non si può importare, né copiare.
L’influenza di Antonio veniva dal profondo dell’uomo, era essenzialmente un esempio. Ha scritto di lui un illustre studioso italiano che l’ha conosciuto: “Egli rappresentò l’incarnazione più perfetta che mai io abbia vista realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e di vita morale”.  Non so nemmeno se la gente capisce più cosa vogliono dire queste parole. La cultura in questo senso è il principio informante del carattere. Non si può “insegnarla” come una materia di studio. Ha un’autorevolezza intrinseca, in cui non c’entrano le doti appariscenti o alcuna forma di prestigio esteriore.
[…]
La libertà di Antonio era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici. L’alimento stesso della vita intellettuale e morale. “Libero” come attributo delle cose umane credo che fosse per lui indistinguibile da “vero”, “reale”: tutto ciò che si genera di fatto negli animi degli uomini liberi; tutto ciò che sono capaci di creare. Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà: opporla a qualunque altra ispirazione morale e politica della comunità non è solo sviante, è mostruoso. Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di avere.
Naturalmente questa non è una posizione politica se non nel senso più lato. Questa è semplicemente una religione. Per la piccola lapide che fu murata su una porta interna della biblioteca Bertoliana (pareva la più giusta commemorazione possibile) fu Franco a scrivere le parole. Ho qui davanti il piccolo autografo.

In tempi servili
qui cercava rifugio
nella storia e nella poesia
qui nell’attesa
insegnava la dignità del cittadino
Antonio Giuriolo
partigiano medaglia d’oro
cresciuto e caduto per la religione
della libertà

La terz’ultima e la penultima parola già incise sulla lapide, furono cancellate per disposizione del sindaco, in base all’argomento che di religione ce n’è una sola; e pare che Franco, furibondo, abbia tentato invano di sostenere che quella è invece la mamma. In verità il sindaco non era uno sciocco, e quando Franco si fu calmato, gli fece capire che “la religione della libertà” era un’espressione giustissima, ma inopportuna. È un tipo di argomento che in altri contesti è ancora molto usato in Italia. Forse la verità è sempre inopportuna. (La lapide non fu rifatta, soltanto si cancellarono le parole lasciando le righe curiosamente sbilanciate: e inoltre ciò che fu cancellato fu il colore delle lettere, ma siccome erano anche incise, si leggevano ugualmente. Quasi quasi la lapide sembrava più bella così; e mi dispiace un po’ che sia stata in seguito ripristinata nella sua forma originale.)
Oggi sappiamo che la forza morale della posizione di Antonio dipendeva in parte da un proposito e da un programma esplicito benché segreto. C’è un frammento di diario intimo, con la data “settembre 1936”, quando Antonio aveva ventiquattro anni:
“Un giovane tedesco caduto eroicamente nella grande guerra, ripeteva sovente a se stesso: tu devi diventare un titano; ed esprimeva così energicamente quell’aspirazione di ogni anima giovanile non volgare ad elevarsi, a costruirsi un carattere serio e forte, capace di dominare le tempeste della vita. Questo motto d’ora innanzi deve essere anche il tuo, deve essere la tua divisa, il tuo credo che ridirai a te stesso in ogni ora…
“Devi essere un eletto, un forte: prima di tutto per l’imperativo categorico della tua coscienza che ti comanda incessantemente di purificarti e di salire sempre più in alto: in secondo luogo… per una tua necessaria relazione col mondo. Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda ti è in genere ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato, o come un sorpassato, o come un intruso. Di fronte a questo ambiente tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti, e se è possibile ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita.”
Questo proposito non fu mai detto, che io sappia, a nessuno. Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Non se nemmeno se si possono esprimere con qualche grado di precisione in prima persona: mi pare significativo che qui siano rivolte alla prima persona, col solito senso di dubbio intorno alla natura dello speaker, la voce che parla. Forse in ogni riflessione seria su se stessi è inevitabile assumere un punto di vista esterno; e tuttavia ci si accorge che esso non è impersonale. La struttura della nostra testa ci offre solo “io” per pensare a noi stessi, appena proviamo a pensare col “tu” siamo in due, forse è solo un pasticcio linguistico, forse invece è un pasticcio biologico… Chi è l’altro? Quale dei due ne sa più dell’altro, e perché?
“Devi essere un eletto, un forte: prima di tutto per l’imperativo categorico della tua coscienza che ti comanda incessantemente di purificarti e di salire sempre più in alto: in secondo luogo… per una tua necessaria relazione col mondo. Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda ti è in genere ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato, o come un sorpassato, o come un intruso. Di fronte a questo ambiente tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti, e se è possibile ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita.”
Questo proposito non fu mai detto, che io sappia, a nessuno. Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Non se nemmeno se si possono esprimere con qualche grado di precisione in prima persona: mi pare significativo che qui siano rivolte alla prima persona, col solito senso di dubbio intorno alla natura dello speaker, la voce che parla. Forse in ogni riflessione seria su se stessi è inevitabile assumere un punto di vista esterno; e tuttavia ci si accorge che esso non è impersonale. La struttura della nostra testa ci offre solo “io” per pensare a noi stessi, appena proviamo a pensare col “tu” siamo in due, forse è solo un pasticcio linguistico, forse invece è un pasticcio biologico… Chi è l’altro? Quale dei due ne sa più dell’altro, e perché?
“Devi essere un eletto, un forte: prima di tutto per l’imperativo categorico della tua coscienza che ti comanda incessantemente di purificarti e di salire sempre più in alto: in secondo luogo… per una tua necessaria relazione col mondo. Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda ti è in genere ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato, o come un sorpassato, o come un intruso. Di fronte a questo ambiente tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti, e se è possibile ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita.”
Questo proposito non fu mai detto, che io sappia, a nessuno. Ripetendone ora le parole in pubblico possono crearsi delle risonanze non pertinenti. Questi sono pensieri che, credo, non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Non se nemmeno se si possono esprimere con qualche grado di precisione in prima persona: mi pare significativo che qui siano rivolte alla prima persona, col solito senso di dubbio intorno alla natura dello speaker, la voce che parla. Forse in ogni riflessione seria su se stessi è inevitabile assumere un punto di vista esterno; e tuttavia ci si accorge che esso non è impersonale. La struttura della nostra testa ci offre solo “io” per pensare a noi stessi, appena proviamo a pensare col “tu” siamo in due, forse è solo un pasticcio linguistico, forse invece è un pasticcio biologico… Chi è l’altro? Quale dei due ne sa più dell’altro, e perché?
“Deve”, “devi”, “bisogna”, ricorrono sette volte a partire dalle parole “Questo motto”. Non si tratta solo di un dovere, si tratta anche di una necessità. La parte relativa al dovere (“l’imperativo categorico”) potrebbe apparire astratta: e il richiamo al titanismo, in un contesto tedesco, porta con sé inflessioni culturali che oggi possono suonar stonate (a parte l’eleganza non ricercata, profonda, del prendersi a modello morale un giovanotto tedesco vivendo in mezzo ai barbari anni dei trionfi nazisti). Ma il centro di questa pagina sta nel senso della necessità storica: la “necessaria relazione col mondo”, “l’ambiente”, il dovere specifico, concreto, di reagire in quel modo “perché le tue idee hanno pochi difensori”.
È la tipica posizione degli uomini a cui tocca il compito di testimoniare integralmente, in circostanze schiaccianti, e che si trovano a farlo praticamente da soli.  Si sentono quasi gli ultimi rimasti, devono impegnare non solo tutte le proprie forze, ma la personalità e la vita. C’è un effetto di raccoglimento profondo, in contrasto con le posizioni di protesta sulla cresta dell’onda, anche quelle genuinamente minoritarie, in cui c’è invece una tendenza alla diffusione estroversa. Quando Antonio assunse questa sua posizione, nel pieno del quinquennio imperiale, non c’era onda, né il senso di una minoranza vincente. C’era solo lui, con le sue “idee religiose”.
Era stato un mediocre scolaro, mi pare che avesse perfino ripetuto un anno al ginnasio; aveva studiato lettere all’università, seriamente ma in modo niente affatto brillante; non era brillante, anzi l’opposto, non parlava “bene”, non aveva speciali capacità dialettiche, né acume filosofico, o doni letterari o senso delle arti visive o della musica. Era stato un ragazzo qualsiasi, piuttosto buono, piuttosto chiuso. Una persona onesta, riflessiva, senza spicco.
Nel giro di pochi anni avvenne una trasformazione che ha del miracolo. È un processo che mi auguro di potere un giorno ricostruire e documentare con esattezza. Quando S. lo conobbe, nel 1940, questo processo era già pienamente compiuto. Esteriormente era restato un uomo schivo e poco appariscente, ma conoscendolo ci si trovava davanti a un prodigioso e misterioso maestro. Ciò che toccava tornava vivo. Una tranquilla potenza si generava in ogni cosa che il suo animo accoglieva. Le normali categorie della vita intellettuale, l’ingegno, la dottrina, la finezza del gusto apparivano vuote al confronto. Vuote se considerate a sé; qui esse erano presenti senza sfoggio separato, con perfetta adeguazione all’oggetto. Ciascun oggetto risaltava nella nettezza della sua essenza, o greca antica, o russa, o francese, ecc.; ma insieme veniva profondamente interiorizzato in rapporto a un assetto di pensieri e di sentimenti moderni e locali, di quell’anno, di quella città, di quel particolare momento storico. C’era un meraviglioso senso di pertinenza e di coerenza: le cose che entravano nell’animo di Antonio si legavano in armonia. C’erano le ragioni di Tucidide (1) e le ragioni di Boule de Suif (2). Una mente sobria e commossa si nutriva di esse e le nutriva di sé.
Viveva dando lezioni private. Non poteva insegnare nelle scuole perché non voleva iscriversi al fascio. Era questa la cosa che per prima ci faceva sgranare gli occhi conoscendolo, il primo segno di una qualità ignota all’ambiente culturale in cui eravamo cresciuti. Passava gran parte del tempo libero a studiare in biblioteca, e un po’ a discutere di libri e di idee con qualche coetaneo amico. Cominciò a interessarsi di noi proprio nell’estate del 1940, nei mesi del lutto e delle lagrime (3): forse anche per reazione a ciò che pareva l’ultima catastrofe.
Nel rapporto che nacque da questo incontro coi suoi discepoli vicentini si espresse (così credo fermamente) l’ispirazione essenziale della vita di Antonio; il nucleo attorno al quale si organizzava tutto il resto.
Non posso dire che questo sia emerso alla commemorazione del significato culturale della sua figura nel trentennale della morte, 1974, a Porretta Terme. Forse i commemoratori si aspettavano che lo dicessimo noi. È stata una cerimonia piuttosto bella, s’inaugurava una scuola a cui hanno dato il suo nome, c’erano centinaia di scolari che invece di ascoltare quei vibranti discorsi, si rincorrevano allegramente sul prato. Forse il ruolo degli eroi comporta necessariamente le cerimonie, e Antonio è venuto a essere anche un eroe. Alla gente semplice che ci parlava di lui in privato, a Porretta, appariva così. Eravamo tornati a vedere il punto dov’è morto, la china nuda, l’albero. Avevamo ascoltato chi era con lui in quel momento, e ricostruito i dettagli di quella morte in battaglia, semplici ed emblematici. Sarebbe assurdo criticare le commemorazioni, la loro funzione è quella che è.
Devo dire che Antonio non incoraggiava atteggiamenti da conventicola, e inoltre non manifestava per noi, in gruppo e individualmente, un particolare grado di affetto. Non è solo che era undemonstrative (4). Pareva che non si volesse legare troppo, in termini troppo personali. Forse era una reazione al suo lungo isolamento, e insieme il bisogno di sentirsi libero di muoversi in una dimensione nazionale. Forse aveva qualche residua disposizione privata a sopravvalutare le risorse degli ambienti metropolitani. Una volta nel 1942, in centro a Padova dov’era venuto per una visita, incontrammo per strada N. Bobbio, da poco a Padova. Si salutarono appena col riserbo conscio, leggermente impacciato di quei primi tempi di cospirazione e Antonio arrossì. Ci sarà stato di mezzo anche dell’altro, ma sembrava che per un istante si fosse sentito minore di quel giovane intellettuale antifascista, per un meccanismo psicologico incontrollabile: come se avesse visto davanti a sé un altro aspetto di sé diverso da quello familiare che si rifletteva in noi…
C’è un’ultima cosa da dire su questo punto. Dopo il nostro rastrellamento del 5 giugno del 1944 in Altipiano (5), perché non cercò di rintracciare quelli di noi che erano sopravvissuti? Non ci mandò un messaggio, non chiese niente, non disse niente, neanche «ditegli che s’arrangino». Andò a Bologna, e di là sull’Appennino. Non c’è memoria che abbia neanche parlato di noi con qualcuno. Ora che ci penso non è meraviglia che i commemoratori che lo conobbero allora mostrino di non sapere nemmeno che noi ci eravamo, o che cosa eravamo.
Coi compagni vicentini abbiamo dovuto lasciar passare un quarto di secolo prima di cominciare a dirci queste cose, cinque o sei anni fa. Pareva come scivolare nel campo gravitazionale di un pianeta gigantesco, sul quale alla fine devi andare a spiaccicarti: ma ora non è più così. Noi siamo oggi molto più vecchi di quanto era lui allora, ciò che c’è da capire lo possiamo capire, e basta. Con la cautela con cui una volta nelle famiglie si parlava dei parenti a cui capitava qualcosa di penoso, esploriamo la possibilità che ci sia stato uno shock assai più profondo di quanto intesero i testimoni: una sorta di repressione e soppressione interiore. Quando lo trovarono sui monti di Campogrosso c’era in lui qualcosa di strano e selvatico. Comparve a chi lo incontrò lassù come se uscisse dal paesaggio; mangiucchiava aghi di pino, parlava poco e non di fatti precisi. Aveva un’infezione alla mano ferita. Si lasciava condurre (lo condussero in pianura, e dopo qualche giorno a Bologna) non come un uomo in cui la volontà è spenta, ma certo come uno in cui è sospesa la capacità normale di reagire alle cose. Meglio: come uno che sta seguendo un altro dibattito, di cui s’indovina l’andamento perché in certi momenti gli sfugge un gemito.
Forse disse qualcosa per noi (sarebbe bastato «addio», avrebbe avuto tutto il senso necessario, sia in sede tecnica sia in altro modo), e questo qualcosa andò perduto.

Il suo rapporto con noi era certamente di tipo evangelico, benché mancassero del tutto i lati espliciti, esagitati, della predicazione. C’era proselitismo, ma in un’aura di sobrietà, di riserbo, di pudore. Forse nel Veneto è impossibile essere spudorati in modo serio, come invece dev’essere naturale, quasi inevitabile, nella Galilea meridionale (basta affacciarsi alla conca del lago di Kennereth (6) per capire in un colpo solo, con gli occhi, questo aspetto della predicazione di Gesù). C’era una indiscutibile somiglianza in una questione di fondo: l’influenza di Antonio, pur avendo per oggetto la mente dei suoi discepoli, investiva tutta la loro personalità e la cambiava. Il passo iniziale stava nel tirarci fuori dall’ambito delle famiglie (o dall’ambiente casa-scuola-campo sportivo) e sottrarci al giro delle influenze automatiche e ovattanti tra cui si era cresciuti. Alcuni familiari percepivano questo; le mamme avvertivano un’influenza vagamente ma fortemente minacciosa, un po’ indistinguibile dalle “cattive compagnie” della pedagogia cattolica e benpensante.
Non c’era la formula del “lasciate tutto e seguite me”, parole che a Vicenza farebbero ridere, ma la sostanza c’era. Senza sovvertire le forme esteriori della propria vita, con uno schema spontaneo di visite e di incontri nelle ore libere, si trattava proprio di lasciare il resto e seguire lui. Spesso letteralmente. Camminava in modo frettoloso, a filo del marciapiede, con l’aria di andare un po’ di sghembo. Non si andava a spasso con lui. Non faceva quelle passeggiate oziose, vicentine, superficialmente socratiche, di altri personaggi della “cultura” locale. Di solito era diretto in qualche parte, da un amico, alla biblioteca, alla stazione: lo si accompagnava in due o tre, qualche volta anche in Corso, più normalmente per le straducole, le piazzette, sotto i portici. C’era spesso qualche bicicletta spinta a mano. Lo si riaccompagnava a casa, si saliva nella stanza al secondo piano. C’era un letto di ferro, qualche sedia piena di libri, e libri ammucchiati o sparsi dappertutto. Si stava a chiacchierare seduti sul letto o sui mucchi dei libri.
La prima volta che S. si trovò con lui da solo, Antonio stava andando alla stazione: questo primo incontro non si sa dove fosse incominciato, diventa visibile al di qua di Porta Castello, forse venti metri. Antonio è a sinistra, S. gli parla in modo acceso, nervoso, sta difendendo con veemenza l’idea della patria in armi, le speranze del fascismo. Le difese fino alla stazione. Antonio non lo contraddiceva, gli faceva delle domande con fermezza e senza ostilità, e lui sentiva la forza frenante di queste domande e il giudizio che vi era implicito. Era l’autunno del 1940. Qualche anno dopo S. si trovò a parlarne con Antonio, di quel primo incontro, e gli espresse qualcosa della vergogna e dell’imbarazzo che provava ora per aver detto quelle cose, e per essere stato com’era stato. Antonio che raramente dava giudizi personali senza necessità, gli disse che al contrario quel giorno aveva avuto un’impressione di onestà, un ragazzo che tentava disperatamente di organizzare il nulla delle sue idee e il tumulto della sua ignoranza attorno a qualcosa di dignitoso. Mi sembra giusto registrarlo qui per due ragioni: anzitutto per mostrare quanto poco ci voleva per apparire meno spregevoli nel clima di quegli anni, e inoltre per non complicare il quadro reale delle disgrazie e delle colpe di S. con accuse immaginarie.
Frequentando Antonio si cambiava quasi a vista d’occhio: di mese in mese ci si trovava ad avere abbandonato questo o quel punto delle dottrine o credenze correnti, e una volta passati sul terreno della critica (la critica effettiva, non quella retorica dei littoriali e dei convegni: ora si capiva che cosa sono le “logomachie”) non ci si poteva più fermare. Antonio ci lasciava cambiare per conto nostro, senza intervenire a sollecitarci dall’esterno. Certe idee erano dure a morire, come la bellezza morale del partito unico. Il regime è condannato: ma non vorremo mica tornare ai partiti? I condiscepoli più svegli si arrabbiavano, ti apostrofavano col cognome come per disperazione, perfino ti dicevano «va’ via»: invece Antonio non si metteva nemmeno a polemizzare apertamente, sapeva che non era necessario. Pioveva, quella volta dei partiti, si stava in crocchio davanti alla porta di casa sua, con gli ombrelli aperti, credo che fosse verso la fine dell’inverno; a primavera (quella di “a primavera viene il bello”, proprio la stessa: com’è assurda la vita!) eravamo già tornati ai partiti.

Antonio non separava ciò che studiava e pensava per conto proprio da ciò che insegnava a noi. Era proprio questa la forza del suo insegnamento: non c'era tono didascalico, non svolgeva un programma. Parlava delle cose a cui si stava interessando senza proporsi di dimostrare qualcosa, o di convincerci. Ci faceva assistere al suo rapporto vivo con esse, ciò che ammirava, ciò che detestava. Non mi pare che si curasse molto di accertarsi in qualche modo, come si farebbe a scuola, che capivamo e imparavamo; e neanche di farci arrivare da noi stessi, quasi a titolo di esercizio maieutico, con lo storto passo del discente, a questa o quella parte della verità. Non c’era tempo per questo. Era un’operazione maieutica incomparabilmente più sconvolgente. Ti trovavi davanti a un mondo di idee oggettivate, che parevano tuttavia strappate dal tuo interno. Le avevi davanti, toccava a te arrangiarti.
Spiccavano certi tratti di metodo. Anzitutto la concretezza. Antonio si rivolgeva sempre a una cosa precisa: questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando); brani segnati a matita, sottolineati. Ogni volta che dava un giudizio d’insieme gli veniva spontaneo di richiamarsi ai punti dove ciò che stava dicendo si vedesse espresso ed esemplificato. Qual era l’ispirazione di fondo dell’opera politica del Conte di Cavour? Che cosa aveva detto in quel discorso, in quella lettera?
C’era inoltre la perfetta corrispondenza tra interesse soggettivo del lettore e interesse intrinseco dell’argomento. Non si occupava di cose a cui non s’interessasse profondamente; alcune erano cose piccole, ma viste in quel modo non parevano più cose piccole. S. doveva poi trovare qualcosa di simile in un altro antifascista italiano, Gramsci, che aveva anche lui questo dono quasi di rivelare l’interesse intrinseco delle cose: al limite l’interesse implicito nella percezione chiara che una certa cosa è sbagliata o meschina. E infatti non si trattava soltanto di un paradiso di delizie della mente, anzi anche di ripulse e di condanne. Mostrare cosa stava facendo di brutto l’ultimo (per allora) Papini, poteva riuscire non meno stimolante dell’analisi – se era un’analisi – dell’andamento di un bacetto simile a un ragno, in un vagoncino rosa (et tu me diras «Cherche!») (7), o di quattro versicoli in cui si vedeva o pede piccerillo / ca int’a cazetta nera / p’e fierre d’a ringhiera / mo dice sì mo no (8), e che parevano ad Antonio, e a S., molto belli.
Il punto di partenza era spesso un nucleo di commozione della fantasia: dei versi, un personaggio in un libro, un dettaglio illuminante in un racconto, una concezione espressa in un detto esaltante o conturbante. Antonio non pareva certo un raffinato del gusto, pure nelle sue interpretazioni c’era una sorprendente finezza, che armonizzava col suo modo di sentire energico e virile. Il punto d’arrivo non era però estetico, ma morale. Sembrava verificarsi nei fatti con grande forza e semplicità quel concetto di “indivisa umanità” che conoscevamo solo come formula. Non era un’applicazione meccanica del criterio “cherchez l’homme”. Assistevamo all’esempio di una coscienza che accoglieva, diciamo, un capriccio del giovane Rimbaud e respingeva le torbidezze senza midollo dell’anziano Fogazzaro. Vedevamo che il ragazzo di Charleville (9) (dove S. andò apposta, anni dopo, a vedere la casa, la strada, con un curioso batticuore vicentino) esprimeva qualcosa di schietto, moralmente robusto anche nelle cose più strambe: avevamo stima di lui quando orinava verso il cielo notturno con l’assentimento dei grandi eliotropi (10) e nostro; mentre invece in quel contegnoso concittadino (11) che aspirava a congiungersi con le signore non per le radici ma per le fronde c’era qualcosa che non andava.
Non si metteva mai nelle dispute di filosofia in cui noi tendevamo invece a impegnarci; S. non lo udì mai ragionare in sede teorica dell’atto puro, o delle forme dello spirito; invece analizzava per esempio la diversa impostazione del lavoro del Gentile, in folate avventurose e brillanti, rispetto a quello più pacato e metodico del Croce, fondato sul battere e ribattere, e spiegare, correggere, adattare, ampliare.
Smontava il nostro dannunzianesimo abbassandolo a una forma del comico: in una delle prime visite di S. in casa sua (era al principio della sera, la luce già accesa) prese dal tavolo le Cento e cento… pagine e lesse come un pezzo da ridere dei versi su una certa Elena “dalla ricca schiena” (12), sui versanti della quale il malridotto vecchietto cercava di infierire. A S. le trovate verbali del testo parevano atte a comunicare un brivido di ammirazione, come l’autore intendeva: che protervia, che mano, anche se inferma nel palpare, che dispettosi spruzzi d’oro! Invece sentendo Antonio leggere quei versi come una lunga barzelletta, le parole pimplèe diventavano una semplice simulazione senile della potenza. Si osservava l’amante di cartapecora darsi da fare con cinque e cinque dita, “e l’undecimo solo”, per compiere “il non vermiglio eccidio” che, diceva, era gaudio grande. Si vedeva lampante come il sole che D’Annunzio è oltre a tutto un pagliaccio.

Il modo più semplice per definire il raggio dell’influenza di Antonio è quello di considerarla sotto il profilo dei suoi libri. In un senso importante, Antonio era quei libri; la sua persona appariva come fusa con la sua biblioteca. Un uomo così poco libresco, così spregiudicato verso la scorza esterna dello studio, funzionava tuttavia per mezzo dei libri di cui era custode ed esibitore.
[…]
Non era però un’anima inquieta, anzi comunicava un senso di “suprema pacatezza” (come è stato detto), e di “calma sovrana”. Ogni aspetto del suo carattere che possiamo rievocare presenta nessi inaspettati. Aveva un senso schietto e cordiale dell’amicizia, stava volentieri con gli amici, gli piaceva ridere con loro. Tutti i suoi coetanei parlano di questo: qualcuno rammenta le allegre “risate” in sua compagnia come il tratto caratterizzante dei propri rapporti con lui. Negli anni in cui S. lo conobbe questo si notava assai meno: non era più un tratto caratterizzante, benché ne affiorassero ogni tanto i vestigi. Si distingueva invece assai bene, e assai più in profondo, un’ombra di segno opposto. Non veniva espressa in parole, ma si vedeva. L’uomo era trasparente, e il colore ultimo dei suoi pensieri era malinconico. Una malinconia remota, che non contrastava con la sua fede attiva ed energica, anzi le dava una qualità struggente.
Le risate con gli amici, la malinconia: sembrano coppie di contrari. Accade continuamente così quando si parla di lui: tutti abbiamo avvertito, per esempio, che il centro dell’uomo era la singolare fermezza e virilità del sentire, ma vicino a lei c’era una strana compagna, una delicatezza quasi femminea.
Non c’è ricordo o ritratto di lui in cui non si parli dei suoi occhi. Sono diventati un emblema, “Un amico dagli occhi veramente azzurri” aveva scritto Barolini in un’affettuosa poesia di prima della guerra: dove credo che “veramente” sia un modo alla Barolini per dire “diversi da quelli che normalmente si chiamano così”. Infatti non erano azzurri, ma celestini, molto chiari. Spiccavano come un tratto somatico insolito, in contrasto col fisico robusto e vigoroso, e con l’impianto possente del viso e della fronte. Riesce impossibile non associarli con ciò che vi era di più distintivo nel suo carattere, e non sentirsi, scrivendo, davanti al suo sguardo severo e innocente.
In questo modo S. si trovò a contatto con un uomo colto, e con una cultura viva. Attraverso di essa vedeva storicizzata l’Italia fascista, di cui anche lui era parte. Non gli era mai venuto in mente di trattarla come materia storica, anzi l’aveva creduto il culmine astorico della storia. Ciò che aveva assimilato in versione autarchica e agiografica si annullava.
La nuova cultura aveva dentro una tagliente lama politica. Si richiamava a una civiltà già esistente (quella che doveva essere crollata sotto i colpi del Duce, press’a poco negli anni in cui S. era nato), ma era piena di forza rinnovatrice, e politicamente rivolta al futuro. Il suo impegno immediato era la lotta per ciò che prospettava come la “redenzione” del nostro paese; ma il suo tema politico e ideologico centrale era quello dei rapporti tra la libertà e il socialismo, non tanto in sede storica, quanto come fulcro di un nuovo sviluppo dell’Italia: sulla linea di “Gielle” (13), del liberalsocialismo, e infine del Partito d’Azione.
Essa veniva a toccare la cultura scolastica e la struttura della mente di S. in tutta una serie di punti critici, e in ciascuno di questi l’effetto era esplosivo. Per la prima volta gli pareva di pensare, e si sentiva pensare. Se in principio gli avrebbe fatto spavento e ribrezzo l’idea di poter diventare “antifascista”, ora quel sentimento s’invertiva, e alla fine sarebbe inorridito di essere ancora fascista. Fu un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire.

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(1) Tucidide = storico greco del V secolo a.C., che con la sua Guerra del Peloponneso ci ha dato informazioni precisi sulla storia della grecia antica.
(2) Boule de Suif = è il titolo originale di un racconto di Guy de Maupassant, tradotto in italiano come “Palla di sego” e fa riferimento al nome della protagonista, una prostituta che si trova a viaggiare in una carrozza assieme ad altri nove personaggi che la disprezzano.
(3) È l’estate dell’entrata nella Seconda guerra mondiale dell’Italia.
(4) Undemonstrative = riservato, poco espansivo.
(5) Meneghello si riferisce a fatti della guerra partigiana accaduti sull’Altipiano di Asiago e raccontati nel romanzo “I piccoli maestri”.
(6) Si tratta del lago di Tiberiade (o di Kinnereth); non so se la trascrizione Kennereth sia un errore di stampa del volume da cui ho tratto il testo, o una forma diversa adottata da Meneghello.
(7) Citazione dalla poesia “Rêvé pour l’hiver” di Arthur Rimbaud.
(8) Citazione dalla poesia in dialetto napoletano “Da ‘o quarto piano” di Salvatore Di Giacomo.
(9) Ossia Rimbaud, nato appunto a Charleville.
(10) Il riferimento è alla poesia “Oraison du soir” (“Preghiera della sera”, in italiano) di Rimbaud. Gli eliotropi sono le piante che si rivolgono verso il sole, come il girasole.
(11) Antonio Fogazzaro, anch’egli vicentino.
(12) Si tratta di citazioni dalla poesia dannunziana “Carmen Votivum”, che troverete nel prossimo post, ma solo per dar ragione a Giuriolo e a Meneghello.
(13) Gielle = Giustizia e Libertà, un movimento politico antifascista di ispirazione liberal-socialista.

Una foto di Antonio Giuriolo

La lapide dedicata ad Antonio Giuriolo nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza




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