lunedì 19 dicembre 2016

28 La Divina Commedia - Inferno: canto terzo (di Dante Alighieri)




LA PORTA DELL’INFERNO – GLI IGNAVI – CARONTE

Dopo che Virgilio (nel canto secondo) ha risolto i dubbi di Dante sul viaggio che sta per compiere, raccontandogli di come la sua salvezza sia voluta da tre donne in Paradiso – la Vergine, Santa Lucia e Beatrice, quest’ultima scesa fino al Limbo per esortare Virgilio a far da guida a Dante – i due poeti giungono alla porta dell’Inferno, sormontata da una scritta minacciosa. La oltrepassano e Dante vede e sente per la prima volta i lamenti delle anime dannate: le prime che incontrano sono quelle degli ignavi, coloro che hanno vissuto vilmente tutta la loro vita, senza mai impegnarsi in qualcosa di buono e con non sono degni nemmeno dell’Inferno. Quindi arrivano alla riva dell’Acheronte e incontrano il demonio Caronte, che porta le anime dei dannati nell’Inferno vero e proprio.

PER ME SI VA NE LA CITTÀ DOLENTE,
PER ME SI VA NE L’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.

GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA PODESTATE,
LA SOMMA SAPÏENZA E ’L PRIMO AMORE.

DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNE, E IO ETTERNO DURO.
LASCIATE OGNE SPERANZA, VOI CH’ENTRATE.

Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».

Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogni sospetto;
ogni viltà convien che qui sia morta.

Noi siam venuti al loco ov’io t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».

E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro alle segrete cose.

Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.

Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle

facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.

E io ch’avea d’orror la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza infamia e sanza lodo.

Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé foro.

Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».

E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.

Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogni altra sorte.

Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

E io, che riguardai, vidi una insegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogni posa mi parea indegna;

e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’io non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.

Poscia chiio v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltà il gran rifiuto.

Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta de’ cattivi,
a Dio spiacenti ed a’ nemici sui.

Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.

Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, ai lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sí pronte,
com’io discerno per lo fioco lume».

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».

Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi all’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.

E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier della livida palude,
che ’ntorno alli occhi avea di fiamme rote.

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattíeno i denti,
ratto che ’nteser le parole crude:

bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.

Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, alla riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.

Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte li raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.

Come d’autunno si levan le foglie
L’una appresso dell’altra, fin che ’l ramo
vede alla terra tutte le sue spoglie,

similmente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.

Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.

«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion nell’ira di Dio
tutti convengon qui d’ogni paese;

e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sí che la tema si volve in disio.

Quinci non passa mai anima bona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».

Finito questo, la buia campagna
tremò sí forte, che dello spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.

La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;

e caddi come l’uom che ’l sonno piglia. 

(testo secondo l'edizione di Natalino Sapegno, 1968)


Gli ignavi, miniatura di Priamo della Quercia (1400-1467)


Caronte, secondo l’interpretazione di Michelangelo nel Giudizio Universale della Cappella Sistina (1535-1541)

PARAFRASI:

ATTRAVERSO ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE [l’Inferno], ATTRAVERSO ME SI VA NELL’ETERNO DOLORE, ATTRAVERSO ME SI VA TRA LA GENTE DANNATA.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE [Dio fu indotto a crearmi dalla giustizia]: MI FECERO LA DIVINA POTENZA, LA SOMMA SAPIENZA E IL PRIMO AMORE [rispettivamente Dio, il figlio, lo Spirito santo]
PRIMA DI ME FURONO CREATE SOLO COSE ETERNE [angeli, cieli, materia pura] E IO DURO PER L’ETERNITÀ. LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CHE QUI ENTRATE.
Queste parole dal significato oscuro io vidi scritte sulla sommità d’una porta; per cui io: «Maestro, non capisco il loro significato».
Ed egli a me, come persona esperta: «Qui conviene lasciare ogni timore; conviene che qui sia morta ogni viltà
Noi siamo giunti nel luogo dove ti ho detto che vedrai le genti addolorate che hanno perduto il bene dell’intelletto [la verità e dunque Dio]».
E dopo che ebbe messo la sua mano nella mia con volto lieto, per la qual cosa io provai conforto, mi introdusse a quelle cose segrete.
Qui sospiri, pianti e forti urli risuonavano nell’aria priva di stelle, per cui io, udendoli per la prima volta, cominciai a piangere.
Lingue diverse [differenti o strane], pronunce orribili, parole di dolore, esclamazioni d’ira, voci alte e deboli, e battiti di mani mescolati ad esse
facevano un tumulto, che si aggira sempre in quell’aria eternamente buia, come la rena quando soffia il turbine.
E io che avevo la testa avvolta d’orrore, dissi: «Maestro, che cos’è ciò che odo? E che gente è questa che pare così sopraffatta nel dolore?»
Ed egli a me: «Questo misero modo [di fare] hanno le anime dolenti di coloro che vissero senza infamia e senza lode.
Sono mescolate a quella malvagia schiera degli angeli che non furono ribelli a Dio né gli furono fedeli, ma furono solo per sé [pensarono solo a sé stessi].
I cieli li cacciano per non perdere la loro bellezza, il profondo inferno non li riceve, perché i dannati riceverebbero da essi [dall’essere in loro compagnia] qualche motivo di gloria».
E io: «Maestro, che cosa è a loro tanto grave, che li fa lamentare così forte?». Rispose: «Te lo dirò speditamente.
Costoro non hanno alcuna speranza di morire e la loro vita oscura è tanto infima, che sono invidiosi di qualunque altra sorte.
Il mondo non lascia che resti fama di loro; la misericordia e la giustizia [di Dio] li sdegna: non parliamo di loro, ma guarda e passa oltre».
E io, che guardai, vidi un’insegna che correva girando tanto veloce, che mi sembrava impossibile che potesse mai fermarsi;
e dietro le veniva una così lunga fila di gente, che io non avrei mai creduto che la morte ne avesse ucciso così tanta.
Dopo che io ebbi riconosciuto qualcuno tra essi, vidi e riconobbi l’ombra di colui che per vigliaccheria fece il grande rifiuto [secondo la maggior parte dei commentatori antichi è il papa Celestino V, che rinunciò a fare il papa sentendosi inadeguato, e permettendo così che venisse eletto al suo posto Bonifacio VIII, che Dante considerava il maggior responsabile della rovina di Firenze].
Subito capii e ne fui certo che questa era la setta di quei vili, che non piacevano a Dio ed anche ai nemici di Dio [sono generalmente chiamati IGNAVI, persone cioè che nella loro vita non si sono mai sentiti in dovere di compiere qualcosa di buono, che non hanno mai assunto alcuna responsabilità verso se stessi].
Questi esseri abbietti, che non furono mai vivi, erano nudi e punti in continuazione da mosconi e da vespe che là c’erano.
Esse rigavano il loro volto di sangue, che, mescolato alle lacrime, era raccolto ai loro piedi da vermi schifosi.
E dopo che mi misi a guardare oltre, vidi della gente sulla riva di un grande fiume; per cui dissi: «Maestro, concedimi ora
di sapere chi è questa gente, e quale istinto la fa apparire così ansiosa di passare all’altra riva, come discerno attraverso la debole luce».
Ed egli a me: «Le cose ti saranno note quando noi fermeremo i nostri passi sul desolato fiume d’Acheronte».
Allora con gli occhi vergognosi e bassi, temendo che le mie domande gli fossero importune, evitai di parlare finché non giungemmo al fiume.
Ed ecco venire verso noi su una nave un vecchio, canuto per vecchio pelo, gridando: «Guai a voi, anime malvage!
Non sperate di vedere mai il cielo: io vengo per condurvi all’altra riva, nelle tenebre eterne, nel caldo e nel gelo.
E tu [= Dante ] che sei qui, anima viva, scostati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo,
disse: «Per un’altra strada, per altri porti giungerai a una spiaggia da attraversare, non qui: un’imbarcazione più leggera converrà che ti porti» [Caronte intende dire che Dante verrà portato alla sua morte non in inferno, bensì in purgatorio, per giungere nel quale vi è una barca più agile. Ma è presumibile immaginare che Dante, quando scrisse questi versi, non aveva ancora ben chiara in mente tutta la struttura dei tre regni ultraterreni].
E la mia guida a lui: «Caronte, non arrabbiarti: si vuole così là dove si può ciò che si vuole e non domandare nient’altro» [È Dio stesso che vuole che Dante visiti l’inferno: Dio, infatti, è colui che può fare tutto ciò che vuole].
Da qui in poi se ne stettero quiete le gote pelose del nocchiero della palude livida [nera come dei lividi], che aveva intorno agli occhi cerchi fiammeggianti.
Ma quelle anime, che erano affrante e nude, cambiarono di colore e battevano i denti, non appena intesero le crudeli parole:
bestemmiavano Dio e i loro genitori, la specie umana e il luogo e il tempo [della loro nascita] e il seme della loro semenza [cioè i padri dei padri] e delle loro nascite [cioè i loro stessi padri].
Poi si ritirarono tutte quante insieme, piangendo forte, sulla malvagia riva che attende qualunque uomo che non teme Dio.
Il demonio Caronte, con occhi di brace, con un solo cenno rivolto a loro, li raduna tutti; con il remo picchia qualunque di loro indugia.
Come in autunno le foglie si levano una dopo l’altra, finché il ramo vede per terra tutte le sue spoglie [il ramo è descritto da dante come una persona che si spoglia e resta nuda],
allo stesso modo i malvagi discendenti di Adamo si gettano ad uno ad uno da quella riva, in seguito ai cenni [di Caronte] come un uccello sentendo il suo richiamo.
Così se ne vanno sopra l’onda nera e prima che siano scese sull’altra riva, di qua una nuova schiera si è radunata.
«Figliolo mio», disse il mio maestro cortese, «coloro che muoiono nell’ira di Dio giungono qui tutti da ogni paese:
e sono pronti ad oltrepassare il fiume, poiché la divina giustizia li sprona, a tal punto che il timore si muta in desiderio.
Di qui non passa mai un’anima buona; perciò, se Caronte di te si lamenta, ben puoi capire ormai che cosa significano le sue parole».
Finito questo discorso, la buia campagna tremò così forte, che la mente [= il ricordo] mi bagna di sudore ancora per lo spavento.
La terra intrisa di lacrime sprigionò un vento, che fece balenare una luce rossastra la quale mi vinse ogni sentimento [= mi fece perdere i sensi]
e caddi come un uomo che il sonno piglia.













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